Schiaccia quel tasto (un endorsement)

Perché all'Italia farebbe bene una vittoria di Matteo Renzi alle primarie del centrosinistra, ammesso che la vogliamo cambiare

Foto Matteo Bovo/LaPresse15/11/2012 Firenze, Italia
Stazione Leopolda, viva l’italia viva.
nella foto: Matteo Renzi

Foto Matteo Bovo/LaPresse15/11/2012 Firenze, Italia
Stazione Leopolda, viva l’italia viva.
nella foto: Matteo Renzi

I cinque candidati alle primarie del centrosinistra per la scelta del premier sono cinque ottimi candidati: persone rispettabili, politici competenti, ognuno di loro sarebbe in grado di fare il presidente del Consiglio di questo paese. E che sia chiaro: sarebbero in grado. Ognuno di loro con la sua dose di potenziali errori o politiche sbagliate, ma niente di implausibile o pericoloso come qualcuno annuncia, e di certo niente di più implausibile del governo che l’Italia ha avuto fino a un anno fa, per fare un esempio. Questo va detto, perché gli italiani sono un popolo di invocatori del cambiamento a parole, ma poi quando il cambiamento si manifesta e ha – inevitabilmente: è cambiamento – tratti di diversità da ciò che conoscono, allora lo definiscono inadeguato perché è diverso, appunto. Questo vale in particolare per Laura Puppato e Matteo Renzi, a cui è stato rimproverato di non avere il “physique du role” del premier con battute su “ce li vedete a parlare con Angela Merkel?”: e invece qualunque paese europeo elegge e prende sul serio premier e aspiranti premier esattamente con quei physique du role.

Una seconda cosa da dire è che quest’offerta di degni candidati è imparagonabile a quella proposta in questo momento da qualunque altro schieramento politico. Non è solo di qualità straordinariamente superiore a quella di quel che è diventato il PdL, ma anche di quelle vagamente in ballo nei piccoli partiti di centro vecchi e nuovi. Bisogna riconoscerlo, e apprezzarlo. L’unica prospettiva di premier credibile e all’altezza del ruolo che non venga dalle primarie del centrosinistra al momento è quella di Mario Monti, prospettiva assai fumosa e che è complicato associare a uno schieramento e a un’eventuale composizione di governo, la si apprezzi o no.

Quindi se non altro per esclusione, oggi è solo dalle primarie del centrosinistra che può uscire il capo di un governo futuro credibile e affidabile. Ma sono radicalmente diversi gli scenari che ciascuna delle cinque candidature suggerisce. Al Post troviamo che non sia Bruno Tabacci l’uomo che può rappresentare una urgenza di cambiamento e rovesciamento di un sistema politico e culturale che ha guidato l’Italia negli ultimi decenni, né che rappresenti una visione di modernità e futuro che è mancata a ogni offerta politica finora. E troviamo che le riconosciute capacità di amministrazione e attenzione ai problemi proprie di Laura Puppato non bastino a rendere convincente un progetto politico che sembra incompleto e ogni tanto zoppicante, e con alcuni tratti di ingenuità.

Al Post pensiamo che Nichi Vendola e Matteo Renzi abbiano invece costruito due visioni strutturate dell’Italia, del futuro e di una parte degli italiani molto chiare e forti, con identità ben definite e percorsi visibili. Le aspirazioni, speranze e soluzioni che rappresentano sono fondate, importanti, e sono una parte del problema da affrontare: le visioni rischiano entrambe di essere l’una esclusiva dell’altra, ma questo rischio è molto maggiore nel caso di vittoria di Vendola, il cui progetto non sembra compatibile con un’idea di crescita e innovazione del paese cara a chi sostiene e voterà Matteo Renzi. Laddove le pur criticate proposte di Renzi hanno invece più chances di garantire prospettive positive per tutti. Aggiungendo, da parte del Post, che non ci sembrano adeguate e affidabili le buone intenzioni di Vendola rispetto alla soluzione dei drammatici problemi economici correnti dell’Italia, e non condividiamo la sua ostilità pregiudiziale nei confronti dell’esperimento Monti (esperimento che ha pure avuto imperdonabili limiti e pavidità).

La candidatura Bersani, di natura molto meno netta e definita di quelle due, con un’idea molto meno chiara dell’Italia che verrà, con posizioni meno radicali su quasi tutto, è più accessibile da tutti ma al tempo stesso meno promettente sul piano del cambiamento. È sicuramente la più conservatrice delle scelte, che mantiene forti legami con quello che l’Italia, politica e non, è stata fino a oggi e maggiori garanzie di non modificarlo. Il largo consenso che sembra ottenere è legato alla natura conservatrice degli elettori italiani, anche quelli di sinistra: e attira in particolare chi pensa che tutti i problemi italiani siano riconducibili ai disastri berlusconiani o a un’inclinazione al pensiero nostalgico.

Secondo noi, invece, la vittoria di Pier Luigi Bersani alle primarie e la sua eventuale vittoria alle elezioni annuncerebbe un futuro di grande conservazione dell’esistente più che di ricostruzione di un idilliaco passato, col limitato pregio di affidare questa conservazione ai buoni piuttosto che ai cattivi. Se da un punto di vista politico qualcuno ha accusato il progetto Matteo Renzi di avvicinarsi a quelli (progetti?) del centrodestra, culturalmente è la candidatura Bersani ad avere maggiori tratti in comune con l’Italia democristiana e postdemocristiana, con tutto quello che siamo stati fino a oggi: come sottolineano le sue maggiori intese con Casini, con Comunione e Liberazione, eccetera. L’alternativa tra l’Italia di Don Camillo e Peppone e quella berlusconiana suggerisce di mettere alla guida di una macchina fusa un autista sobrio invece che quello ubriaco che l’ha guidata in questi anni. È come riconfermare l’allenatore che ha perso gli ultimi dieci campionati a partire dal fatto che gli avversari hanno sette infortunati.

Secondo noi, bisogna cambiare allenatore. Secondo noi, bisogna cambiare l’Italia. Secondo noi, non sarà possibile scegliere tra politiche più di sinistra o meno di sinistra, fino a che non avremo prima scelto tra un paese devastato e uno ripensato, tra uno che ha fatto prevalere i suoi difetti e uno che sancisca e dia priorità ai suoi pregi. Silvio Berlusconi ha governato per più o meno diciotto anni perché mezza Italia l’ha votato e perché l’altra mezza si è dedicata a uno sterile antiberlusconismo invece che costruire un progetto convincente alternativo. E alla fine Berlusconi è stato battuto dalle proprie inettitudini e da quelle del suo governo, e dalle pressioni internazionali: e intanto in Italia i suoi presunti avversari ancora speravano in Ruby, una sentenza o un ribaltone che lo facessero cadere, rinunciando a convincere quella metà degli italiani che lo avevano votato che ci potesse essere di meglio. I quali, comprensibilmente, si sono convinti che non ci fosse: e ne sarebbero convinti tutt’ora.

Pier Luigi Bersani è un politico capace e una persona corretta. Quello che sembra portare al governo però è un’idea chiara del passato, parziale del presente, incomprensibile del futuro. E quello che sembra voler portare al governo è un’eventuale alleanza con l’UdC e un’eventuale alleanza con Nichi Vendola (di Di Pietro non si parla, né di Grillo: ma se ne tornerà a parlare), di cui conosciamo i molti rischi. Oltre a una squadra che annovera tra gli altri le letture economiche aggressive e retrograde di Stefano Fassina, e le litigiosità rancorose di molti altri giovani dalemiani e bersaniani. Non è il nostro genere: noi auspichiamo che ci si rispetti e si cerchi conciliazione e accordo e intesa, invece della rissa e delle scomuniche. Noi Bersani ministro lo vorremmo. Malgrado la sua appartenenza al team di allenatori perdenti – sulla legge elettorale sta perdendo ancora oggi, ogni giorno – Bersani ci piace, ma non ci piace quasi niente di quello che gli si vede e intravede intorno: che suggerisce peraltro – speriamo di no – itinerari poco solidi e rassicuranti di un suo eventuale futuro governo.

Ci sono delle cose che non ci convincono neanche in Matteo Renzi: non in lui, con cui abbiamo molte complicità e sintonie e la cui iniziativa consideriamo già una grande e inedita vittoria. In sette anni di tentativi ed esperimenti di vero ricambio generazionale e di idee dentro il maggiore partito del centrosinistra – cominciati con la candidatura di Ivan Scalfarotto, oggi vicepresidente del PD, e resi possibili solo dall’introduzione delle primarie: così, per ricordarlo a tutti – questa è la prima volta che questi tentativi arrivano così vicini a vincere, dopo tanti piccoli passi avanti. Ci sono molti meriti, in questo, ma il primo è di Renzi stesso, che si è andato a prendere tutto quello che ha ottenuto.

Quello che manca ancora a Matteo Renzi è la capacità di costruire intorno alla sua singolare bravura e capacità di leadership un gruppo e un movimento vero, e non solo un’intesa di molti singoli. Renzi non ha investito finora nella costruzione di qualcosa che vada oltre se stesso e l’immediata condivisione per moltissimi delle cose che dice: non ha coltivato lealtà con potenziali buoni compagni (primo tra tutti Pippo Civati) e non ha costruito niente di simile al gruppo fertile e unito creato da Italia Futura (a cui invece manca il leader, e farebbero bene a fare due più due). Se chi vota Bersani vota un composito e sfilacciato universo in cui stanno potenzialmente Rosy Bindi, D’Alema, Vendola, Stefano Fassina, Casini e Alessandra Moretti tra gli altri, per contro chi vota Renzi vota Renzi: e deve quindi fare un investimento di fiducia molto alto in una sua capacità di delegare e affidare ad altri spazi e compiti che finora si è vista solo a isolati sprazzi.

E poi no, non abbiamo sentito dire a Renzi alcune cose definitive che vorremmo sentire dal prossimo PresdelCons italiano, sulla legalizzazione dei matrimoni gay, sull’abolizione delle regioni a statuto speciale, sul contenimento dei finanziamenti alle scuole private, sull’abolizione degli ordini professionali, sulla restituzione alla civiltà del sistema delle carceri: benché nel suo programma ci siano invece molte altre intenzioni convincenti, soprattutto su scuola, politica e lavoro.

Ma soprattutto quello che racconta e prospetta Matteo Renzi è l’Italia che il Post ha in mente e per cui il Post è nato: un paese da cambiare molto e da aggiornare ai tempi e al resto del mondo che gli somiglia, da leggere e trattare in modi radicalmente diversi e con approcci molto sovversivi, in cui costruire regole e abitudini che in altri paesi sono radicate. Un paese progressista e non conservatore. In cui prevalga un’attenzione al futuro rispetto a una costante rilettura del passato, in cui siano combattute le nazionali inclinazioni alla sottrazione di responsabilità, all’indifferenza al senso di comunità, all’aggressività da tifosi, a cominciare da una disponibilità a includere invece che escludere: a cercare amici piuttosto che indicare nemici. A pensare che non ci sia metà paese buono e metà cattivo come vogliono certe semplificazioni autoindulgenti, ma un paese intero che potenzialmente può trovare desideri e ambizioni comuni e farle prevalere sulle divisioni. Tema sul quale non si può non ricordare che persino nella campagna sulla rottamazione non c’è mai stato niente di personalmente aggressivo, niente di paragonabile a quello che Matteo Renzi ha ricevuto in cambio in termini di disprezzo e odio all’interno del suo stesso partito. Quello che racconta e prospetta Matteo Renzi è, tra l’altro, l’idea di un partito che abbia la forza e le idee per convincere gli altri invece che autoassolversi del restare minoranza: la vittoria di Renzi “sarebbe il vero atto di nascita del Partito Democratico”, ha scritto Marco Damilano in occasione dell’ultima delle molte occasioni pubbliche in cui si è dimostrata la condivisione da parte di tantissime persone per le cose che Renzi dice: tantissime persone che dicono qualcosa di molto chiaro.

E tantissime persone – va detto per togliere di mezzo le obiezioni sciocche e fuorvianti – che non pensano che votare Renzi sia “la soluzione”, né che abbia la “bacchetta magica”: tantissime persone disincantate e preoccupate quanto chi le prende in giro, che credono che rimettere in piedi l’Italia e farne prevalere il buono cambiandone il cattivo sia un’impresa difficilissima e forse persino impossibile. Ma a differenza dei cinici e dei sai-quanti-ne-ho-visti e cosa-vuoi-cambiare, queste persone non riescono a fare a meno di sperarci e di provarci. Con molto rispetto per chi si è arreso e crede alla riduzione del danno, a salvare il salvabile, al guidatore sobrio della macchina fusa: c’è un realismo assai motivato in questo pensiero. Arrendersi, ha lucidi tratti di saggezza, spesso. E sì, c’è qualcosa di sventato e irragionevole nel volerlo ancora, cambiare le cose. Ma se ci sono abbastanza persone sventate e irragionevoli che lo vogliono, i confini del ragionevole cambiano.

Noi abbiamo molto rispetto per i tanti leader che il Partito Democratico ospita tuttora e che ha ereditato dai partiti suoi avi e pensiamo che siano di una qualità umana e cultura politica più unica che rara nel quadro generale: ma quella cultura è diventata anacronistica, hanno perso, hanno perso, e hanno perso ancora. Non contro Berlusconi, ma contro il mondo, contro il tempo e contro un paese che è diventato diverso e non gli ha creduto più. Ne conoscono bene un pezzo, certo: ma quel pezzo è diventato troppo piccolo. Non possono davvero raccontarsi estranei. Se Renzi vincesse le primarie queste persone sarebbero un capitale di competenze e teste utilissimo per il suo progetto, come hanno già capito i pochi di loro che hanno deciso di sostenerlo. Perché l’Italia attuale – quella che ha avuto bisogno della straordinarietà del governo tecnico – ha bisogno di essere resettata, altrimenti qualunque applicazione si cerchi di aprire sarà comunque lentissima e inutilizzabile. L’unico in giro che sembra sapere dov’è il tasto reset, e ha già il dito pronto, è Matteo Renzi.
Salvate i documenti aperti e andate a votare.