Wilhelm Brasse, fotografo ad Auschwitz

È morto ieri a 94 anni: prigioniero nel campo di concentramento, scattò migliaia di fotografie ai prigionieri per quasi cinque anni

Il fotografo polacco Wilhelm Brasse è morto ieri, martedì 23 ottobre, all’età di 94 anni. Divenne molto conosciuto per essere stato il “fotografo di Auschwitz” durante la Seconda guerra mondiale, quando fu internato con migliaia di ebrei ed altri deportati nella rete dei campi di concentramento e di sterminio organizzati dal regime nazista in Polonia. Nel corso dei suoi quasi cinque anni ad Auschwitz fotografò oltre 40mila prigionieri, e la sua storia ha ispirato esposizioni fotografiche e ricostruzioni storiche, compreso il documentario di discreto successo “Il ritrattista” (“Portrecista”), trasmesso nel 2006 dalla televisione pubblica polacca.

Brasse nacque il 3 dicembre del 1917 a Żywiec, città polacca fino a quell’anno sotto dominazione asburgica, da padre di origini austriache e madre polacca. Un paio di anni dopo la sua nascita, il padre iniziò a combattere nella guerra polacco-bolscevica, che vedeva contrapposte la Repubblica di Polonia da poco tornata a essere indipendente e la Russia sovietica. Da adolescente Brasse iniziò a interessarsi di fotografia e ricevette alcune lezioni da parte di una sua zia, che possedeva uno studio a Katowice.

Le cose per Brasse iniziarono a complicarsi nel settembre del 1939, in seguito all’invasione della Polonia da parte dell’esercito nazista. Ricevette forti pressioni per unirsi ai nazisti, ma si rifiutò facendo sollevare alcuni sospetti. La Gestapo, la polizia politica del Terzo Reich, lo interrogò più volte. Preoccupato per la sua incolumità, Brasse tentò di scappare in Francia, passando dall’Ungheria. Il suo piano fu però un fallimento: al confine tra Polonia e Ungheria fu catturato e incarcerato per quattro mesi per la tentata fuga. Continuò a rifiutare ogni richiesta di dichiarare lealtà a Hitler. Nell’agosto del 1940 i nazisti ne decretarono la deportazione nei campi di concentramento da poco aperti di Auschwitz.

A febbraio del 1941, Brasse fu convocato insieme con alcuni altri prigionieri nell’ufficio del primo comandante del campo, Rudolf Franz Ferdinand Höß, che aveva collaborato alla sua rapida costruzione e alla messa a punto del sistema delle camere a gas. Considerata la sua abilità con la fotografia, fu destinato alla sezione del campo che si occupava di documentare l’arrivo dei deportati e di realizzarne foto per renderli più facilmente identificabili. A Brasse fu anche ordinato di fotografare alcuni prigionieri che interessavano per le loro caratteristiche a Josef Mengele, il medico nazista che all’interno di Auschwitz eseguiva “esperimenti” utilizzando cavie umane.

Nelle interviste concesse anni dopo la prigionia, Brasse spiegò di aver fotografato tra i 40mila e i 50mila prigionieri nel campo. Le persone imprigionate nel campo dovevano essere fotografate frontalmente e di profilo, da entrambi i lati del viso. Il lavoro era svolto da Brasse e da altri prigionieri selezionati per la loro abilità nello scattare fotografie e nello svilupparle. Verso la fine della guerra, i responsabili del campo chiesero ai fotografi di distruggere tutto il materiale fotografico che avevano realizzato, ma buona parte di questi si rifiutò di farlo.

Nel complesso gli storici stimano che ad Auschwitz furono scattate almeno 200mila foto di altrettanti prigionieri. Moltissime furono distrutte poco prima della definitiva capitolazione del regime nazista. Un quinto di quelle immagini è arrivato fino ai giorni nostri. Le foto sono conservate nel museo di Auschwitz-Birkenau e duemila di queste sono esposte al pubblico. Parte dell’archivio fotografico è conservata presso il memoriale dell’Olocausto.

Brasse rimase ad Auschwitz fino ai primi giorni del 1945, poi in seguito all’Operazione Vistola-Oder, l’offensiva dell’Armata Rossa sul Fronte orientale per muovere verso il cuore della Germania, il fotografo fu trasferito con migliaia di altri prigionieri nel campo di concentramento di Ebensee, in Austria. La struttura era una parte del complesso del campo di Mauthausen-Gusen, liberato dall’esercito statunitense nei primi giorni di maggio 1945.

Finita la guerra, Brasse tornò a Żywiec dove provò a riprendere il lavoro di fotografo, ma non ce la fece. Dopo aver passato anni costretto a fotografare persone che nella maggior parte dei casi sarebbero morte nelle camere a gas, si rese conto di provare una certa repulsione per l’obiettivo e di essere incapace di non pensare a tutti i visi che aveva inquadrato. Lasciò perdere la fotografia e cercò di andare oltre, aprendo un salumificio. Si sposò ed ebbe due figli che gli diedero cinque nipoti.

Fino ai suoi ultimi giorni, Brasse continuò a vivere nella sua Żywiec. In una intervista spiegò di avere ancora una macchina fotografica Kodak risalente agli anni prima della guerra, ma che non avrebbe comunque più scattato una foto in vita sua.