Che fine ha fatto l’Irlanda?

Fu il primo paese europeo che fu colpito dalla crisi, ora è quasi fuori pericolo: ma difficilmente tornerà a crescere in fretta, come il resto d'Europa

di Davide Maria De Luca

Poche settimane fa TIME ha dedicato una delle sue celebri copertine al primo ministro irlandese, Enda Kenny, titolando Celtic comeback, che si potrebbe tradurre «il ritorno dei celti», o più esattamente «il celtico ritorno». All’interno il settimanale raccontava come, dopo il timore della bancarotta, i conti pubblici irlandesi siano lentamente tornati a un livello di sicurezza e l’economia sia pronta a ripartire.

Eddie Hobbs, un consulente finanziario, presentatore di alcuni programmi televisivi irlandesi e attivista volontario nella protezione dei consumatori, ha spiegato sul Wall Street Journal perché non è d’accordo con TIME, almeno sulla parte che riguarda una ripartenza ruggente dell’economia irlandese. Alcune delle sue conclusioni sembrano un avvertimento anche per l’Europa in generale e per l’Italia in particolare: forse il rischio di bancarotta è finito, ma la crescita è un’altra cosa.

La crisi irlandese
Con la Grecia che occupa oramai stabilmente l’apertura della pagine di economia, molti si sono dimenticati che il primo paese ad essere colpito dalla crisi – quando ancora della Grecia si diceva che aveva retto alla crisi meglio di altri – fu l’Irlanda. Quelli fino al 2007 erano chiamati gli anni della “Tigre celtica”. A partire dal 1994 c’era stato un periodo di forte espansione economica, dovuto principalmente alle basse imposte per le imprese e ai bassi tassi d’interesse praticati dalla Banca Centrale Europea.

Tra il 2004 e il 2008 scoppiò una bolla immobiliare. Il sistema finanziario irlandese si era indebitato in maniera eccessiva sui mercati esteri per finanziare l’acquisto e la costruzione di immobili. Quando il mercato divenne saturo le banche irlandesi non trovarono più chi fosse disposto a finanziarle ancora, visto che erano già molto indebitate. Banche in crisi e prezzo degli immobili in picchiata si riflessero sull’economia reale e l’Irlanda si ritrovò in recessione nel settembre del 2008, ancora prima del fallimento di Lehman Brothers.

La soluzione trovata dal governo irlandese dell’epoca, che era legato ai dirigenti e ai proprietari di diversi istituti bancari, fu di garantire completamente i debiti di 6 banche. Questa garanzia si rivelò immensamente più costosa di quanto il governo aveva immaginato. In sostanza, il debito delle banche divenne debito dello stato, che passò in quattro anni dal 25% al 108% del PIL. A causa di questa situazione, alla fine del 2010 l’Irlanda chiese l’aiuto dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale e cominciò ad adottare una lunga serie di misure di austerità.

L’Irlanda oggi
Dal 2010 la situazione è molto migliorata. Il bilancio dello stato ha di nuovo un avanzo primario (cioè un “guadagno” prima che vengano sottratte le spese per interessi) e ci sono segni di ripresa anche nel mercato dei titoli di stato. Ma, secondo Hobbs, l’Irlanda ha ancora  almeno tre grossi problemi.

Il debito pubblico
Il debito totale irlandese, pubblico più privato, è pari al 524% del PIL del paese. Una cifra che costa in interessi circa il 24% del PIL ogni anno. Poco meno di un quinto di questo debito è costituito dal debito pubblico, che è stato causato dalla garanzia che il governo irlandese diede sul debito delle sue banche. Non è scorretto dire, quindi, che buona parte dei sacrifici fatti dagli irlandesi con le misure di austerità sono serviti a ripagare i crediti che le varie banche europee hanno concesso alle banche irlandesi. Crediti che, secondo le regole del mercato, non avrebbero mai dovuto riavere indietro, visto che senza la garanzia del governo irlandese, le banche irlandesi debitrici sarebbero fallite.

Il debito delle famiglie
Ma anche l’indebitamento dei singoli irlandesi è altissimo. Secondo i calcoli del FMI, nel 2017 il debito delle famiglie scenderà dal 210% attuale al 185%: un livello molto più alto di quello che era dieci anni prima, all’inizio della crisi. E questo risultato sarà ottenuto sacrificando un quinto delle entrate di ogni famiglia al solo pagamento dei debiti.

Il costo del lavoro
In Irlanda, scrive Hobbs, sin dalla fine degli anni ’80 il governo ha trasferito sempre più potere di contrattazione sugli stipendi ai sindacati: un po’ come in Italia, dove lo stipendio non è contrattato tra datore di lavoro e lavoratore, ma tra datore di lavoro e sindacati. Questo ha mantenuto elevato il costo del lavoro, specialmente nel settore pubblico, che proprio negli anni della crisi ha ricevuto nuove regole che fissavano stipendi e pensioni a uno dei livelli più alti d’Europa.

Gli amministratori locali irlandesi, scrive Hobbs, sono pagati più della maggior parte dei primi ministri europei, ma anche gli stipendi di insegnanti, infermieri e consulenti ospedalieri sono sopra la media europea. Queste categorie sono ben rappresentante nel governo, del quale fanno parte tre professori della scuola secondaria e un sindacalista del pubblico impiego.

L’Irlanda e l’eurozona
Il pericolo di fallimento è probabilmente passato, ma, secondo Hobbs, restano fortissimi dubbi sulla possibilità di una ripresa rapida dell’economia e di un ritorno agli anni della Tigre celtica. In questo, la situazione irlandese non sembra così diversa da quanto sta vivendo l’eurozona più in generale. Lo spread italiano, ad esempio, è sceso negli ultimi giorni intorno a 320, un livello che non toccava da più di un anno e segnali ottimistici sono arrivati anche dalla Spagna. In molti, tra politici e commentatori, hanno dichiarato che ci avviamo alla fine della crisi.

Ma secondo altri analisti, questo è vero fino a che con “fine della crisi” si intende la fine di un rischio di collasso imminente dell’eurozona. In realtà la situazione dell’eurozona sarebbe simile a quella dell’Irlanda: il rischio si è allontanato, ma questo non significa trovarsi alla vigilia di un boom economico. In Spagna, in Portogallo, in Grecia e in Italia, come in Irlanda, le famiglie sono schiacciate dal debito, i consumi restano bassi, la disoccupazione è alta, mentre i sistemi bancari continuano ad essere in difficoltà e i bilanci degli stati rimangono appesantiti da un altissimo debito pubblico. Il PIL dei vari stati probabilmente smetterà di calare, ma non è detto che questo significhi tornare a crescere.