Cosa manca agli One Direction

Il critico musicale del New Yorker spiega di cosa ha bisogno la boy band più popolare del mondo per essere una buona boy band

A Auckland, Nuova Zelanda, aprile 2012 (Photo by Hannah Johnston/Getty Images)
A Auckland, Nuova Zelanda, aprile 2012 (Photo by Hannah Johnston/Getty Images)

Il New Yorker ha pubblicato un’accurata e laica recensione del disco della boy band britannica One Direction – un fenomeno di immenso successo universale da un anno a questa parte, quasi esclusivamente presso bambini e teenager – di cui a novembre uscirà il secondo disco, già in cima alle classifiche digitali solo con le prenotazioni. La recensione è firmata dal critico di musica leggera del settimanale, Sasha Frere-Jones, e il suo articolo è interessante perché fa delle valutazioni di carattere musicale su una band che normalmente è giudicata solo come fenomeno commerciale o culturale, pur raccontando anche il fenomeno stesso di “cinque amabili giovani sotto i ventuno, che si sono messi assieme in Inghilterra con il programma X-Factor”.

(Gli One Direction, spiegati ai maggiorenni)

«Sono i nuovi portabandiera di un vecchio formato, la boy band», spiega Frere-Jones ai lettori degli Stati Uniti, dove gli One Direction sono stati i primi britannici ad andare al numero uno col disco di debutto e a dicembre suoneranno al Madison Square Garden di New York. A costruirli fu Simon Cowell, creatore di X-Factor, che da allora si occupa di loro e dell’universo commerciale e pubblicitario che li circonda, ma anche di quello musicale. Frere-Jones accantona rapidamente il paragone precipitoso che è stato fatto con i primi successi e lo sbarco americano dei Beatles, e prova a riflettere invece su quello con le boy band degli anni Novanta: Take That, Backstreet Boys, Westlife e ‘NSync. Una prima differenza è che nel frattempo è arrivata internet, e la popolarità dei cinque One Direction è esplosa ancora prima che facessero un disco, grazie alla circolazione su YouTube delle loro apparizioni televisive.
Ma c’è anche una distanza musicale.

«La compagine di boy band degli anni Novanta faceva musica che affondava le sue radici nel rhythm and blues americano. L’ultimo singolo degli ‘NSync, “Girlfriend”, fu remixato in collaborazione con i Neptunes, visionari del R & B. Diversamente, gli One Direction e altre band da classifica si dividono tra pop-rock carico di chitarre e ritmi da discoteca per far muovere gente sbronza. È un cambiamento stilistico notevole»

Gli One Direction, dice Frere-Jones, suonano come un gruppo di ragazze, «una forma di pop-rock resa popolare nei dieci anni passati dalle donne». I dettagli sono eliminati o resi grossi come un palazzo: grandi battiti di mani, forti stacchi che sottolineano una singola parola, persino sirene. «L’evoluzione ritmica è sostituita da un quattro quarti bello grosso che pulsa dall’inizio alla fine, suono reso popolare da “Don’t let me get me” di Pink nel 2001, e che ha raggiunto il suo apice col magnifico singolo di Kelly Clarkson “Since U been gone”, nel 2004, scritta da Lukasz (Dr. Luke) Gottwald e Max Martin, uno svedese che è il più importante autore teen-pop degli ultimi vent’anni». Al momento la maggiore rappresentante ne è Katy Perry, la cui influenza in “Up all night” degli One Direction arriva alla citazione di lei nel testo. E poi chitarre e coro, nello stile Katy Perry di rock più discoteca.

«Eredità del teen-pop appaiono ovunque nel disco. Rami Yacoub, che ha lavorato anche sui singoli degli ‘Nsync è indicato come autore di diversi pezzi. E Kelly Clarkson è una di tre autori di “Tell me a lie”. Cowell ha posizionato la band astutamente: consapevole che “preconfezionato” è un’etichetta dispregiativa, e che l’uso evidente di autotune è diventato un rischio commerciale, ha usato gli show come X Factor e i suoi antenati “Pop Idol” e “American Idol” per mostrare le reali qualità canore. E i cinque ragazzi effettivamente cantano abbastanza bene, guadagnando una patina di autenticità»

Nelle interviste Harry Styles, uno dei cinque, racconta di loro che scrivono canzoni negli alberghi e negli aeroporti, come da mitologia delle rockband storiche, “non vogliamo sembrare mercenari che cantano roba scritta da qualche quarantenne”. E in effetti i loro autori sono un po’ più giovani, dice Frere-Jones: ma sono autori altri, non loro stessi. Le tre canzoni scritte da loro hanno sempre anche altre firme, e di nessuna è stato fatto un singolo. E il loro successo online è lontano dall’essere il fenomeno spontaneo che viene rappresentato, spinto e gonfiato invece dalla collaborazione di sponsor e corporation.

Cowell, spiega Frere-Jones, ha trasformato il lavoro di scouting musicale – un tempo parte dell’industria discografica – in un’economia autosufficiente (se ne parlava anche qui, a proposito di Justin Bieber, sempre sul New Yorker).

«Ha creato un sistema in cui una parte (gli inserzionisti) paga gli ingredienti, un’altra (i fans) compra la pizza, e diverse terze parti discutono se la pizza sia biologica o no – dibattito che promuove ulteriormente la pizza. Il problema di questa ricetta è che questa band non è forte abbastanza da generare prodotti successivi. Zayin Malik ha uno stile genuino e Harry Styles ha una sua brusca piacevolezza. Gli altri tre hanno altezze diverse tra loro, ed è tutto quello che c’è da dirne»

Frere-Jones conclude che quello che alla band serve sono proprio dei quarantenni migliori. «L’album e la band sono una sfera grigia e opaca, con pochi nei e ancor meno tratti distintivi. Il piano di marketing sembra essere stato “non facciamo sbagli”».

(L’uomo dietro Justin Bieber)

«Hanno bisogno di un pezzo diabolicamente ben fatto, del genere che Max Martin è in grado di scrivere. Alla fine a nessuno importa se la pizza è bio, basta che sappia di pizza»