Come abbassare le tasse

Lo spiega Pippo Civati in un capitolo del suo nuovo libro con le 10 cose buone per l'Italia che la sinistra deve fare subito

di Pippo Civati

The Pay as you Earn system has deprived Income tax officials in Somerset Hopuse and offices all over Britain of their Easter holiday. Throughout the week-end they have been wrestling with stacks of forms and a special staff of experts has been busy answering enquiries. Income tax officials at work in an office in London, on April 10, 1944. (AP Photo)
The Pay as you Earn system has deprived Income tax officials in Somerset Hopuse and offices all over Britain of their Easter holiday. Throughout the week-end they have been wrestling with stacks of forms and a special staff of experts has been busy answering enquiries. Income tax officials at work in an office in London, on April 10, 1944. (AP Photo)

È uscito in ebook 10 cose buone per l’Italia che la sinistra deve fare subito, il nuovo libro di Pippo Civati (con una prefazione di Paolo Virzì). Il libro uscirà in libreria il primo giugno. Vi proponiamo il capitolo «Il credito pubblico per abbassare le tasse».

Pippo Civati è consigliere regionale in Lombardia per il Partito Democratico, membro della direzione nazionale del Partito Democratico (e blogger del Post). È autore anche, tra gli altri, di Regione straniera. Viaggio nell’ordinario razzismo padano e Il manifesto del partito dei giovani. Dal 2004 scrive sul blog Ciwati.

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Luigini e contadini

Come scrive Gabrio Casati riprendendo Carlo Levi, si tratta di distinguere tra “luigini” e “contadini”, chi lavora per creare ricchezza e chi questa ricchezza deve saperla amministrare meglio, anziché mettersela in tasca e approfittarsene, o dilapidarla, o entrambe le cose. Per Gabrio Casati questa è la matrice della “Questione Settentrionale”, che non è questione geografica, ma eminentemente politica.
La citazione è da L’orologio, un romanzo del 1950. Stefano Catone, che cura il blog OntheNord, la interpreta così: “Chiedetevi e cercate di immaginare chi può essere, oggi, il contadino e chi il luigino. La risposta è semplice, ma allo stesso tempo molto complessa.

Nella sostanza il contadino sarà il creatore di ricchezza, quindi l’operaio, il piccolo imprenditore che paga le (tante) tasse e compete sui mercati internazionali, il professionista onesto, l’impiegato statale devoto al suo lavoro, il piccolo risparmiatore, il giovane studente-lavoratore. E il luigino? Il luigino sarà colui che trae degli extrarendimenti rispetto al proprio lavoro, perché garantito dallo status quo e dal suo posizionamento, sarà colui che, sfruttando un brutto mercato del lavoro, comprimerà i salari, spremendo l’operaio-contadino, sarà colui che elude il fisco attraverso meccanismi di ingegneria tributaria” [Gabrio Casati, Luigini e contadini. Il lato oscuro della Questione settentrionale, Milano, Guerini e Associati, 2011, ripreso da Stefano Catone, qui].

I contadini sono i lavoratori e gli imprenditori che vivono del loro lavoro e che rischiano sulla propria pelle. Senza protezioni di sorta. Quando dico che mi piace l’uguaglianza, per me il concetto si traduce anche in concorrenza leale, perché la lealtà è un concetto da recuperare prima di tutti gli altri. Mi piace l’individuo, e mi piace la sua affermazione, quando però le condizioni materiali di partenza consentono all’individuo di esercitare la propria libertà.

E il finale non è già scritto. Perché altrimenti ci prendiamo in giro.
E allora vediamo le condizioni che si devono creare perché per una volta nella storia patria non vincano i luigini, ma i contadini. Aiutati dagli insegnanti, che sono quelli che mancano, in quella folgorante pagina di Levi. E che invece dobbiamo contare tra i protagonisti della nostra proposta politica e della nostra strategia. Perché al centro tornino, finalmente, i cittadini.
Vediamo, insomma, se riusciamo a rimettere a posto quell’individualismo rivendicato fino all’eccesso e al contempo frustrato, che ha colpito soprattutto i ceti medi, le persone comuni. E la possibile affermazione di sé e dei propri desideri che tutti hanno ovviamente a cuore.

Lo ha detto Obama a Osawatomie, nel suo più bel discorso del 2011:

This is not just another political debate. This is the defining issue of our time. This is a make- or-break moment for the middle class, and for all those who are fighting to get into the middle class. Because what’s at stake is whether this will be a country where working people can earn enough to raise a family, build a modest savings, own a home, secure their retirement.

Questo non è solo un altro dibattito politico. Questo è il problema fondamentale del nostro tempo. Si tratta di un momento decisivo per la classe media, e per tutti coloro che stanno lottando per entrarci. Perché quello che è in gioco stabilirà se questo sarà un paese dove le persone che lavorano possono guadagnare abbastanza per crescere una famiglia, metter da parte modesti risparmi, acquistare una casa, assicurarsi una pensione.

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Spendere meno, e molto meglio

Quando si parla di riduzione della spesa, non si può che partire da una considerazione di Nunzia Penelope, autrice di un libro da leggere con attenzione, che ci riporta ai capitoli precedenti:

Il punto chiave consiste nel tagliare la criminalità economica: quella che costa a questo paese quasi quanto il bilancio annuale dello stato, cioè circa 500 miliardi l’anno. E dentro c’è di tutto: evasione, corruzione, lavoro nero, morti sul lavoro, contraffazione, riciclaggio. Tutti elementi che non solo sottraggono risorse alla collettività ma causano veri e propri deficit all’economia. Questa è la vera palla al piede di questo paese, il motivo per cui i conti pubblici vanno fuori controllo, lo spread sale, la Borsa scende, le imprese non crescono [Nunzia Penelope, Soldi rubati, Milano, Ponte alle Grazie, 2011. 86].

A proposito di spending review, il governo di soccorso nazionale ci sta lavorando. Il ministro Piero Giarda, che sta coordinando l’analisi delle voci di spesa corrente riconducibili all’Amministrazione centrale, ha già dato un’indicazione di massima: i miliardi da tagliare per il 2013 per portare la spesa ai livelli previsti dovrebbero essere 13, ma finora tra taglio dei consumi intermedi (appalti e consulenze, in primis) e, soprattutto, agli enti locali, si arriva a 10. Si pensa dunque alla spesa sanitaria delle Regioni, imponendo l’allineamento di spesa alle tre più virtuose.

Ora, questi non sono i tagli lineari di Tremonti, ma non sono neanche quelli di cui avremmo davvero bisogno, accuratamente finalizzati alle spese improduttive. In particolare, gli 8 miliardi di euro da tagliare ai Comuni, che, come sappiamo, potranno in parte compensarli con aumenti autonomamente decisi dell’Imu, rischiano di ricadere due volte sui cittadini: in termini di taglio dei servizi e di aumento del carico fiscale, senza alcuna compensazione.

Occorre che il Governo indichi i criteri delle riduzioni di spesa e obblighi gli enti locali a individuare quelle improduttive: sono oltre 6000 le partecipate a livello locale e, nonostante le roboanti dichiarazioni di epoca berlusconiana, e l’Istat incaricata di tenerne aggiornata la lista, nessuna decisione significativa è stata presa a loro riguardo.

Sarà finalmente ora di chiudere o ridurre drasticamente qualche Consiglio di Amministrazione, di quelli assolutamente ridondanti, buoni solo a procurare prebende?
Un altro aspetto da curare è la revisione dell’operatività delle municipalizzate nel settore dei servizi (energia, gas, rifiuti). Non è possibile, anche in questo caso, considerarle tutte allo stesso modo e procedere a privatizzazioni indiscriminate, che si risolvono con aumenti di tariffe senza miglioramenti dei servizi; ma non è neanche più possibile che i cittadini paghino per questi servizi due volte, attraverso le tariffe, e attraverso gli aggravi fiscali (sotto forma, magari, di tasse di scopo) per compensarne le inefficienze.

Aspettavamo una svolta significativa dal decreto sulle liberalizzazioni che, invece, non le ha neanche prese in considerazione.
Infine, un profondo ripensamento del sistema dei sussidi alle imprese, che sarebbe meglio sostituire con sgravi fiscali o, meglio, con un abbassamento del carico fiscale: una profonda revisione in questo campo può portare a un risparmio intorno ad un punto di Pil. E non è poca cosa. Insieme alla razionalizzazione che abbiamo proposto nel primo capitolo, al contrasto all’evasione di cui torneremo a parlare tra qualche riga, è già un buon inizio.

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Qualcosa si può anche vendere?

Le quote e le partecipazioni dello Stato nelle grandi imprese possono essere un’ulteriore fonte di recupero per rilanciare la crescita e alleviare le condizioni per i ceti medi che scivolano. E quelli bassi, che sono scivolati già.
Certo qualcuno noterà che vendere oggi sarebbe un colossale errore perché i prezzi di Borsa sono bassissimi. C’è un’osservazione in più da tenere in considerazione: “Vendere, non a prezzi di borsa, ma facendo pesare le quote di controllo”, come consiglia Michele Boldrin.

Vendere e non svendere, dunque: ma una riflessione in questo senso è doverosa, in un Paese in cui la recessione si sta mangiando tutto.
Come mi diceva lo stesso Boldrin, in una recente conversazione «credo che il problema politico di fondo sia che questo oceano di imprese controllate dallo Stato e dalle Regioni offre un enorme potere alla classe politica. Assolutamente enorme. Il potere di piazzare amici e vassalli ma, soprattutto, di ‘gestire’ la società civile e di avere accesso a grandi risorse economiche. Per quello alcuni non vogliono vendere nulla. Le ragioni sono sempre le stesse: ci serve quel posto e quell’altro, l’abbiamo utilizzata per questo e per quell’altro…». Ed è una scomoda verità.

Un vero mercato del credito

Bisogna passare dall’economia del debito a quella del credito.
Per tornare a essere quello che eravamo un po’ di anni fa, un Paese in crescita, bisogna ristrutturare il nostro capitale pubblico e quello privato. Per cambiare alla radice il nostro sistema produttivo il cambiamento del capitale privato passa solo attraverso il mercato del credito.

Innanzi tutto dobbiamo partire rimuovendo un tarlo culturale di questo paese: il mito del debito. Ci siamo raccontati per molti anni che gli italiani erano virtuosi perché gran risparmiatori. E questo mito si è rinforzato con l’arrivo della crisi, con la retorica di Tremonti che si scagliava contro il debito (privato) per rilanciare a breve invece un altro debito (pubblico però): con la Banca del Sud, guidata politicamente, attenta alle relazioni più che alle opportunità di sviluppo.

Sovvenzionando qualche opera pubblica, nel frattempo, e mettendo un grande attore pubblico in un debole mercato privato (quello del credito al Sud) si è ancora di più ritardata la sua riforma.
Perché il mercato del credito privato non dovrebbe essere la priorità del paese, per liberare risorse e darle a chi può usarle? Perché favorire i mutui per chi non ha la casa non può essere una grande redistribuzione delle risorse?

Ma soprattutto perché il debito pubblico è tanto meglio di quello privato? Se guardiamo agli altri Paesi, e sommiamo il debito pubblico e privato, non siamo tanto diversi. Ma siamo diversi nel peso del debito pubblico, e questo conta.
Questa retorica, queste scelte politiche, hanno distolto il nostro sguardo dalle nostre esigenze. Abbiamo bisogno di un mercato del credito privato, di banche che funzionino bene, che diano credito a chi ha le idee, non le amicizie importanti.

Un mercato del credito privato che non funziona non ha solo effetto sugli investimenti ma caratterizza e influenza il resto del sistema economico italiano. Se il credito è scarso e di difficile accesso per le imprese che cercano di cambiare, le imprese si adeguano cercando da altre fonti le risorse necessarie.
Vorrei dare tre esempi di questa mancanza.

Nella prossima pagina: Quanto conta il contesto

Le famiglie italiane risparmiano molto più delle altre famiglie europee. Aspettandosi un difficile accesso al credito, un sistema produttivo famiglio-centrico, cerca nelle risposte proprie e nell’autofinanziamento il sostegno. Ma la crisi ha scalfito questo primato italiano e la famiglie soffrono molto più di quanto non facessero in passato.

Nel settore privato, in Italia le remunerazioni seguono l’anzianità più che in qualunque altro paese. Le imprese utilizzano le basse remunerazioni in entrata, quando i lavoratori sono più produttivi, per finanziare il proprio investimento. Quando il contratto di lavoro era solo quello a tempo indeterminato, questo scambio tra basse remunerazioni in entrata e alte in uscita, era un patto sociale. Oggi, in un mercato del lavoro duale, tutto questo è insostenibile. Dobbiamo ristrutturare l’accesso al credito se vogliamo riformare il mercato del lavoro senza creare problemi aggiuntivi alle nostre imprese.

Quanto conta il contesto

Infine, consideriamo l’investimento immobiliare e l’evasione fiscale. Apparentemente non hanno nulla a che vedere con il mercato del credito, eppure in un sistema del credito in cui la giustizia civile funziona malamente, i creditori richiedono una grande quantità di garanzie al debitore. Ancora una volta sono le condizioni di contesto a contare moltissimo.

Il potenziale debitore, l’imprenditore che sa che si troverà in ristrettezze economiche oppure con l’esigenza di indebitarsi, accumula immobili che possano servire da garanzie e che, per il trattamento fiscale che hanno ricevuto fino a ieri, erano anche il luogo perfetto dove nascondere i proventi dell’evasione fiscale. Questo equilibrio non ha alcun senso, se vogliamo un paese orientato al cambiamento.
Sono le famose cose da fare, che apparentemente non c’entrano, ma c’entrano, come diceva Nanni Moretti in quel film.

Un problema di giustizia

Cosa fare? Primo, operare sul funzionamento della giustizia civile e il recupero crediti. Siamo al di sotto degli altri paesi, spendendo lo stesso. Non è un problema di risorse. L’Abi stima che se avessimo l’efficienza della giustizia civile del Lussemburgo, i tassi sui mutui si abbasserebbero dell’1%. 1.000 euro all’anno per un mutuo da 100.000 euro, per capirci. Una bomba.

Secondo, crediti d’imposta, detassazione dei dipendenti delle startup, mai sussidi a fondo perduto: premi chi fa reddito, non chi mette su qualcosa e assume tre cognati.

Terzo, offrire incubatori aziendali con strutture minime. Capannoni e banda larga. Poi lasciar operare le persone e le banche. Le uniche cose che hanno creato ricchezza, nella parte migliore del nostro sistema produttivo, hanno funzionato così.

Niente più investimenti gestiti malamente dal pubblico, le illusioni del paternalismo di Stato e la politica industriale a uso e consumo dei soliti noti. Come sostiene spesso il ministro Fabrizio Barca, lo Stato deve essere presidio di qualità degli investimenti che vengono fatti da pubblico e privato con fondi pubblici (soprattutto con fondi europei). Per smettere di dare credito ai conoscenti, ricominciamo dai promettenti. E da chi si mette a rischio.
E come vedremo, a rischio ci sono tutti. Anche i lavoratori.

Nella prossima pagina: Il fisco, dai mobili agli immobili

Il fisco, dai mobili agli immobili

Filippo Taddei, giovane economista, PhD in Economics alla Columbia University, Assistant Professor al Collegio Carlo Alberto e Adjunct Professor alla School of Advanced International Studies di Johns Hopkins University, si chiede da tempo: “Come può cambiare un paese in cui un parcheggio conviene più di un lavoro?”. Nel paese dei parcheggiati, possedere un garage è diventato uno straordinario investimento. È venuto il momento di fare uscire l’Italia dal parcheggio e rimetterla in strada.
L’osservazione veramente dirompente è che la distribuzione del carico fiscale in Italia grava maggiormente che altrove su lavoratori e imprese. Nel 2009 la tassazione sugli individui e sulle imprese ha prodotto un gettito di poco superiore al 14% del Pil: una percentuale maggiore di gran parte dei paesi avanzati.

D’altra parte, l’Italia ha scelto di tassare le proprietà immobiliari meno delle principali economie ricche del mondo: poco più del 2% del Pil contro una media ben oltre il 3% in Francia, Gran Bretagna, Spagna e Usa.

Si tratta di una scelta politica: gravare più delle principali economie del mondo sui fattori della produzione, disincentivando il lavoro e il rischio. Le persone rincorrono così investimenti sicuri e trascurati dal fisco, come immobili e debito pubblico. “Abbiamo creato un paese di parcheggiatori invece che di autisti”. Rivolto al passato. E fermo. Immobile, appunto. Proviamo a cambiare prospettiva.

Meno tasse per chi lavora e produce

Per far ripartire l’economia dobbiamo tagliare sensibilmente le tasse a chi lavora: portando l’imposizione sugli immobili a livelli europei, avremmo a disposizione 15 miliardi di euro, un punto di Pil, per detassare il lavoro. In Italia esistono 32 milioni di abitazioni residenziali, con 20 milioni di pertinenze.

Se chiedessimo un contributo medio di 40 euro al mese per ognuna delle abitazioni di questo paese, avremmo le risorse necessarie per incentivare chi lavora e sostenere chi è in difficoltà.

Prendiamo il caso di una famiglia in cui entrambi i coniugi lavorino e che risieda in un’abitazione di proprietà di valore medio (114 mq e quasi 200.000 euro secondo l’Agenzia delle Entrate): questa famiglia potrebbe pagare una tassa immobiliare di 480 euro e riceverebbe un sostegno al reddito da lavoro per 1.100 euro, cioè un trasferimento netto di più di 600 euro all’anno.

Un pensionato con la “minima” e proprietario dell’abitazione dove vive avrebbe un beneficio netto di alcune centinaia di euro, a seconda del valore della propria abitazione. L’imposta immobiliare non sarebbe, insomma, uguale per tutti, ma modulabile in base alla grandezza dell’abitazione, del numero di immobili posseduti, del loro valore di mercato e del fatto se siano messi in locazione.

Questi conti, che con Rita Castellani e Filippo Taddei, avevamo presentato un anno fa, non sono molto lontani da quelli che il Governo ha fatto per l’Imu. Con una differenza sostanziale: destinando i proventi al risanamento di bilancio di Stato e Comuni, invece che all’alleggerimento fiscale sui redditi, si perdono tutti i possibili effetti redistributivi di potere d’acquisto, sacrosanti nel paese che è arrivato ad avere i livelli salariali più bassi d’Europa. E una vera boccata d’aria per la ripresa della domanda interna.

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Ma allora, si chiederà, dove prendere poi le risorse per pareggiare i conti pubblici e risanare strutturalmente il bilancio dello Stato? Banalmente, come vediamo di seguito, dove sono e giacciono.

I gioielli e la famiglia

Come già per la vendita delle partecipazioni statali, i gioielli di famiglia devono servire a farla crescere, la famiglia. Nessuna bad economy, insomma. Nessun trucco, nessuna ripresa a vanvera della spesa pubblica. Massima credibilità e progetti a breve termine, dal grande respiro.

Il nostro patrimonio e il nostro futuro: questi sono i due piatti della bilancia. La nostra ricchezza accumulata e la possibilità di generarne ancora, se preferite, con un Paese più competitivo e più forte. Che ritrovi la sua vocazione produttiva.

Una mini patrimoniale per le grandi cose

E allora si deve parlare di patrimoniale. Con intelligenza e con una progettualità chiara. Se guardiamo alla ricchezza netta delle famiglie italiane Banca d’Italia la stimava per il 2010 intorno agli 8.600 miliardi, all’interno dei quali le attività finanziarie delle famiglie corrispondono a 3.600 miliardi. Il 45% di questa ricchezza appare detenuto dal 10% delle famiglie più abbienti (sta nella relazione 2011): i più ricchi di questo paese possiedono cioè una ricchezza finanziaria intorno ai 1.700 miliardi.

Un problema è che nelle attività finanziarie sono contenute le partecipazioni, circa 700 miliardi, che è giusto non considerare (perché sono immobilizzazioni, quindi non liquidabili come le altre attività per pagare la tassa). Senza le partecipazioni, si ridurrebbe la base a 1.000 miliardi.

Ponendo poi una soglia di esenzione intorno ai 100 mila euro di ricchezza finanziaria (al netto dei debiti) ci assicureremmo di tassare solo il 10% delle famiglie più ricche. La base imponibile si ridurrebbe così, facendo una stima conservativa, a 600 miliardi.

Questa è la nostra base imponibile: con una tassa patrimoniale dello 0,5% all’anno per i più facoltosi avremmo 3 miliardi all’anno che ora, come altre misure richiamate qui sopra, servirebbero ad abbassare le tasse e a dare respiro ai ceti medi che sono in grande difficoltà. Dal prossimo anno, attenuate le condizioni di emergenza, ridotta la spesa pubblica e la pressione fiscale complessiva, il gettito della minipatrimoniale verrebnbe destinato ad una riforma specifica: una per ogni anno. Dichiarandolo prima, senza fare pasticci.

Un contratto a progetto per il paese

Nel Paese dei contratti a progetto, quello che si propone è un contratto a progetto per il Paese. Dichiarato prima delle elezioni e rispettato per tutto il mandato. Un contratto vero, però, in cui abbiano voce in capitolo entrambi i contraenti. E non solo uno, come è tristemente accaduto in passato.
È importante affermare che quel che si vuole fare è cambiare la composizione del capitale del nostro Paese. Se si pensa al futuro, si devono utilizzare i proventi straordinari di una patrimoniale per renderci più intelligenti, più veloci, più pronti al futuro. Per dotarci di un capitale pubblico al passo con i tempi.
Non si devono mai vendere i gioielli di famiglia (le azioni) per fare la spesa al supermercato (assumere qualcuno o tagliare le tasse temporaneamente). Con 3 miliardi in un anno possiamo fare molte delle cose che troviamo in questo libro: cominciamo con la riduzione della pressione fiscale sul lavoro e poi, personalmente mi concentrerei sul segmento istruzione, ricerca, innovazione. Sarebbe una mini patrimoniale per sostituire altre tasse, non per aumentarle. Non solo, sarebbe una tassa vincolata ad uno scopo: una mini patrimoniale per una grande riforma.

Nella prossima pagina: All street: le banche e noi

All street: le banche e noi


Quando l’economia va bene, o meglio “non va male”, l’attendismo del sistema del credito di questo paese non sembra pesare molto, ma quando, come oggi, l’economia e il sistema produttivo affrontano momenti inusitatamente drammatici, allora le deficienze di un sistema del credito asfittico diventano insopportabili.
“Dove finiscono i nostri soldi?” È la domanda che accompagna la società italiana (e non solo) da tempo. È la filigrana di mille prese di posizione, di mille discorsi.

Le banche sono per molti aspetti lo specchio di un paese che ha smesso di credere con convinzione nel proprio futuro. Un po’ per i limiti istituzionali di uno stato con la peggiore giustizia civile d’Europa e un’amministrazione che indulge in un eccesso normativo, un po’ per vicinanza tra il mondo della politica e una parte importante di quello finanziario, le banche non hanno come primo obiettivo quello di sostenere le parti più dinamiche del nostro paese ma quello di impegnare le proprie disponibilità in operazioni che coinvolgano una garanzia implicita dello stato o una ristrutturazione del suo debito.

Lo vediamo nel fatto che gli investimenti produttivi di questo paese sono sempre sbilanciati sul versante dell’autofinanziamento. Il nostro tessuto produttivo ce la fa, perché riesce a farcela da solo.
Bisogna avere forse il coraggio di dire l’ovvio: oggi siamo a sostenere le banche di questo paese perché il nostro sistema produttivo non potrebbe sopportare un ulteriore irrigidimento del credito.

Fin da domani mattina le banche si ricordino che se oggi è il paese a sostenerle, domani dovranno essere loro a sostenerlo. A sostenere gli imprenditori che investono e le famiglie che acquistano. E dovranno farlo come non hanno mai fatto.

Poteva succedere, e infatti è successo
Nel 1981 uscì un libro il cui titolo suonava
così: Potrebbe succedere di nuovo? In quel libro si sosteneva che l’instabilità finanziaria nelle economie di mercato è strutturale e la possibilità di precipitare in una crisi tipo quella del ‘29 è sempre attuale. Era già un libro contro-corrente, in un certo senso: da tutto il mondo si levavano voci che assicuravano sull’operatività di misteriose “mano invisibili” in grado di auto-regolare qualunque mercato e farne un procacciatore di benessere.

Beh, è successo di nuovo. E di nuovo. Il dibattito sul modo di risolvere quella instabilità strutturale si è riacceso, e c’è ancora chi, come la destra americana, la considera una cosa buona, in quanto espressione di libertà creativa: proprio così, creativa. E c’è chi, invece, come la destra europea, la nasconde ipocritamente dietro al rigore imposto fin qui solo alla finanza pubblica.
E c’è anche chi pensa di curarla con “i pannicelli caldi” di una tassa sulle transazioni finanziarie. Ma quali? Neanche l’imponente (perfino troppo) Dodd- Frank Act, la legge di regolazione del mercato finanziario e dei suoi attori, voluta da Obama, è riuscita stanare le operazioni “over the counter” (letteralmente “sopra il bancone del bar”), quelle cioè che si svolgono fuori dalle borse valori, dove si annida la pura speculazione, che succhia le risorse da Main Street. E che, infatti, sono già tornate ai livelli pre- crisi: 600.000 miliardi di dollari.

Per avere un termine di paragone, l’intero PIL italiano, che è comunque quello di una tra dieci economie più grandi del mondo, è circa 2.000 miliardi di dollari.
Questa enorme e persistente attività speculativa distoglie risorse da tutte le cose “buone” che un’economia mista di mercato, come sono quelle di tutti i paesi avanzati del mondo, può produrre: investimenti, occupazione, welfare. E anche istruzione, cultura, conoscenza. E anche le banche italiane, le cui dimensioni le rendono relativamente innocenti di questa distorsione, subiscono le restrizioni – credit crunch, lo chiamano – che dalla distorsione stessa derivano, assai più che dai debiti sovrani.

Questo non significa che gli Stati non debbano avere finanze più virtuose; ma, accanto a questo, è urgente introdurre una regolazione internazionale coordinata di ciò che è ancora completamente fuori controllo e che rischia di vanificare tutti i nostri sacrifici. Quella regolazione che Obama chiese già al G8 e al G20 del 2010 e a cui l’Europa delle destre rispose di no. È dunque la risposta a quelle richieste che i progressisti europei le sinistre europee devono rilanciare.

(Nella foto: un ufficio del fisco a Londra, nel 1944/AP Photo)