La nuova classe dirigente

Di fronte all'inadeguatezza "fisiologica" delle élites italiane, Dario Di Vico propone di guardare a quelli che studiano e lavorano all'estero

L’articolo di apertura della Lettura del Corriere di oggi è un’analisi di Dario Di Vico sulla debolezza delle classi dirigenti italiane e un tentativo di capire come rafforzarle.

Mi è capitato nei giorni scorsi di ricevere due lettere di genitori che raccontavano l’odissea professionale dei propri figli. Ragazzi di talento desiderosi di proseguire la carriera universitaria che si erano scontrati però con strutture accademiche colpevolmente «disabituate» a valutare il merito. Di fronte a un blocco di tipo clientelare entrambi i giovani hanno reagito e sono stati costretti a emigrare, il primo in Inghilterra e l’altro a Boston. In trasferta si sono fatti ampiamente valere presso università decisamente più prestigiose di quelle che li avevano rifiutati, ma agli occhi dei genitori il vulnus dell’emigrazione e la lontananza da casa sono rimasti peccati mortali, per nulla attenuati dal riconoscimento internazionale ottenuto dai propri figli. Da qui l’idea di scrivere ai giornali per denunciare l’accaduto, dando voce così a una paradossale «indignazione da successo».
La morale che si può trarre dall’episodio è semplice. Nonostante una perdurante retorica sulla fuga dei cervelli, gli italiani faticano (ancora) a staccarsi dalla madrepatria/famiglia e considerano una dolorosa eccezione quella che invece dovrebbe diventare una norma nelle pratiche formative globali: un’esperienza di studio o di lavoro all’estero. Le statistiche del resto lo testimoniano: i giovani italiani sono i più restii amuoversi, solo il 38 per cento dei giovani tra i 15 e i 35 anni è disposto a farlo e, comunque, solo per un periodo di tempo limitato. In Paesi come la Spagna questa percentuale sfiora il 70 per cento, in Francia è pari al 60 per cento, in Germania al 54 per cento (dati Eurobarometro, 2011). Se usciamo dal vecchio continente il confronto con i giovani cinesi, che pure vivono in Italia, è impietoso. I reclutatori di personale che li incontrano nei career day ne parlano come di persone «che vivono con la valigia già pronta» per trasferirsi là dove le opportunità si presentano.

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