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  • Lunedì 9 aprile 2012

L’Italia alla prova di se stessa

Un libro cerca di spiegare come siamo fatti, citando Dylan Dog, Orson Welles, Machiavelli e Serge Gainsbourg

Sculpture by artist Maurizio Cattelan hangs in the rotunda of the Guggenheim Museum, Thursday, Jan. 19, 2012 in New York. The Italian artist's work is on exhibit through Jan. 22. (AP Photo/Mark Lennihan)
Sculpture by artist Maurizio Cattelan hangs in the rotunda of the Guggenheim Museum, Thursday, Jan. 19, 2012 in New York. The Italian artist's work is on exhibit through Jan. 22. (AP Photo/Mark Lennihan)

150 più 1. L’Italia alla prova di se stessa è il nuovo libro di Gianluca Briguglia, studioso del pensiero politico europeo medievale e moderno e ricercatore della Scuola di studi superiori in Scienze sociali a Parigi (oltre che blogger del Post). Il libro – disponibile in formato ebook – analizza l’identità italiana contemporanea a 151 anni dalla nascita, passata la sbornia celebrativa, affrontando luoghi comuni e nodi fondamentali – come l’idea del leader messianico, il nesso tra potere e bellezza, il rapporto tra stato e Chiesa – e avanzando proposte concrete per cambiare l’Italia e ripensarla in modo nuovo. Questa è l’introduzione.

***

Questo libro nasce un po’ come i casi di Dylan Dog, qualcuno ti urla alla porta e ti propone un rompicapo che sembra assurdo, ma ha almeno una soluzione, che però anche alla fine sembra impossibile.
In questo caso a urlare alla porta è il rompicapo stesso, cioè l’attuale situazione italiana, il clima che si respira nel dibattito pubblico a centocinquant’anni (più uno) dall’unità nazionale, l’apparente labirinto linguistico e lessicale nel quale la politica, la cultura e la società stessa si sono cacciati.
Non che ci si voglia produrre nel solito piagnisteo sui bei tempi andati, perché in fondo si stava peggio quando si stava meglio (ho scritto la frase così come la si legge), ma certo al primo sguardo è proprio di un indagatore dell’incubo che si avrebbe bisogno.
Quindi, Groucho, passami la pistola. E la pistola, sperando che funzioni e che non sia sempre scarica come quella del summenzionato Dylan e come quella di gran parte del dibattito di questi anni – fatto di risposte guidate, a crocette, a questioni poste da altri – è data da domande e curiosità. Perché la libertà di un dibattito – è bene ricordarlo – è costruita soprattutto dalla possibilità di porre domande nuove e non solo di rispondere alla domande degli altri, che prevedono risposte che confermano la bontà della domanda e soprattutto l’autorità di chi la pone.

Insomma cerchiamo di non pensare all’elefante, per parafrasare un libello famoso che metteva in guardia dalle trappole cognitive (e politiche) del linguaggio. È curioso che a centocinquant’anni dall’unità, il tema dell’identità italiana e soprattutto di quello che lega ancora insieme gli italiani sia stato così lento a emergere. Anzi, è logico.
Un dibattito serio ed esteso sull’argomento avrebbe rischiato di mettere in crisi altri discorsi, altri dispositivi linguistici, altre piccole patrie lessicali, fatti di miti delle origini a dir poco inconsistenti sul piano storico, di cristianesimi pagani, di crociati senza croci, fatti di incomprensione dei fenomeni, di contrapposizioni, di sistemi binari. In questo senso il destino dell’Italia sembra sempre in bilico, appeso sull’abisso tra opera e operetta. E forse anche questo ne costituisce un elemento distintivo.
Ma in ogni caso non si può minimizzare lo scontro, che esiste sempre, tra sensi diversi di realtà, tra necessità di raccontarsi e filtri narrativi imposti da altri o assunti senza accorgersene. Un discorso sull’identità italiana – la parola non mi piace perché anch’essa è un filtro stretto, e terribilmente ambiguo, ma usiamola per ora – su cosa può voler dire far parte del paese e perché, rischia allora, proprio dopo centocinquant’anni di storia comune, di sbugiardare racconti e raccontatori.
E tuttavia il punto non è questo. Non è negativo o solo antideologico. È anche e soprattutto la tentazione irresistibile di rimettersi a raccontare le Italie, che esistono, o almeno alcuni suoi elementi culturali, tra i tanti disponibili.
Sgombriamo il campo da un equivoco. Io sono uno storico. A seconda del paese nel quale lavoro sono uno storico della filosofia, o uno storico del pensiero politico, o mi occupo di intellectual history, o sono uno storico tout court, o tutte queste cose insieme (quando piace l’interdisciplinarietà), perché esistono differenze tra sistemi di ricerca e discipline accademiche nazionali e tra istituzioni diverse. Ma questo non è un libro di storia. Chi si fosse imbattuto in altri miei lavori, in cui è d’obbligo la precisione, la presenza quasi processuale della testimonianza di una fonte, di un testo, la ricostruzione di un contesto, la possibilità di sognare un sogno regolato, come diceva il grande storico delle mentalità Georges Duby, qui dovrà aspettarsi un lavoro di tipo molto diverso.

Quello che cercheremo insieme sono infatti alcuni elementi di ciò che possiamo chiamare identità italiana (in un senso non drammatico e non definitivo e tanto meno “essenzialista”) che ci possano aiutare a vedere positivamente ciò che siamo e che possiamo progettare, o anche a mettere a fuoco quelle che un qualcuno chiamerebbe “criticità” del nostro stare insieme. Ed è solo un tentativo di racconto soggettivo, stimolato da quel ronzare sulle identità che rimane sempre indizio e mai discorso, insinuazione ma mai prova. È il tocco del male dell’infernale Quinlan il problema culturale di questo giro di anni? La fabbricazione del dispositivo che fornisce la prova del nostro non esserci? Ma Quinlan, in quel film così moderno che è Touch of evil non l’ha spuntata, è bene ricordarlo. In ogni caso non sarei in grado di scrivere un libro storico sull’identità italiana, mi creerebbe seri problemi di metodo sulla nozione stessa (ma ne esistono, e anche di molto belli).
Il libro è dunque un intreccio di temi e stili diversi, di capitoli che possono anche essere letti separatamente ma che convergono verso alcune idee unificanti, tra viaggi nel tempo della letteratura, spostamenti fisici alla ricerca di indizi su noi stessi tra luoghi e persone, tentativi di decostruire alcuni cliché del linguaggio politico odierno e di spostare anche lievemente l’asse del dibattito. Tutto questo ha comportato anche un tipo di scrittura che da un lato percorresse gli scarti e le accelerazioni che gli sbalzi di immagini, testi, personaggi del racconto hanno proposto, e dall’altro lato seguisse invece i tempi più lenti della breve riflessione. Se mi sono concesso a volte riferimenti al mio lavoro e ai miei incontri, o qualche breve vertigine pop, per così dire, su film, musiche, autori o parole della quotidianità, non è per prepotenza o per togliere spazio all’immaginario del lettore. Al contrario: è proprio per significare che ognuno di noi può condurre la ricerca, sbrogliare il rompicapo, raccontare a sua volta una storia dell’Italia, partendo dalle proprie immagini, dai propri riferimenti, dai propri incontri, da ciò che lo fa riflettere, dal proprio immaginario, dai propri pensieri.

1.
Una canzone di Serge Gainsbourg, che ha anche un bel video ante litteram da vedere su youtube, dice che l’amore è un veleno che ci fa oscillare tra disgusto e appetito e tra appetito e disgusto. Ecco sembra proprio che anche l’Italia funzioni così, almeno a parole. Oltre il disgusto e l’appetito ci siamo noi, il nostro paesaggio mentale, il nostro immaginario e la nostra storia. Qui peschiamo solo qualche pesce, con una cannetta da pesca di quelle che si regalavano ai ragazzini di città negli anni ’70, ma il mare è profondo e nel caso servirebbero altri strumenti.
Ma esiste allora l’Italia? La domanda è enfatica, ma a quanto pare non retorica. È per me molto bello, nel senso estetico del termine, che Francesco de Sanctis alla fine dell’Ottocento abbia scritto un libro che si intitola Storia della letteratura italiana. È bello perché senza dire ancora nulla dell’unità politica italiana, vedeva tutto in funzione di una lingua unitaria, che di quella unità tardiva era una delle ragioni più forti.
E trovo geniale che uno dei saggi più belli dell’italianistica del secolo scorso si intitoli invece Geografia e storia della letteratura italiana. L’autore, nel 1967, era un intellettuale come Carlo Dionisotti, che insegnò quasi sempre in Inghilterra e di lì influenzò il mondo accademico anglosassone rispetto agli studi sull’Italia.
Geografia e storia. L’idea di una letteratura italiana veniva complicata da una visione multicentrica. L’Italia come insieme di spazi geografici e culturali,
e anche politici naturalmente, una letteratura aperta alla diversità interna, forse più letterature italiane.

Una cronaca medievale, scritta a Padova dal notaio Rolandino nel ‘200, è dedicata alla storia della Marca Trevigiana, quell’area culturale composta da città indipendenti, Treviso, Vicenza, Padova, Bassano, fino a lambire Verona. Ed è anche la storia di un tiranno, Ezzelino, che tentò di unificarle con una violenza cieca. La cronaca finisce con la descrizione avvincente di una battaglia notturna, presso il ponte di Cassano, sull’Adda. Una battaglia sul confine, la frontiera con i Milanesi. Ezzelino viene affrontato dai cavalieri di Milano e inseguito dai suoi nemici della Marca. Ma è notte, non si vede nulla. E allora la battaglia quasi non c’è. C’è un vortice di cavalli che si cercano, di cavalieri che fremono, di fanti che accorrono, una Anghiari leonardiana ante litteram in cui tutto ruota attorno a un punto “come l’universo attorno a un centro”. Si sa solo che c’è Ezzelino, il tiranno, e si gira intorno al punto dinamico dove dev’essere, dove sicuramente deve trovarsi. C’è un guado, c’è un ponte. Dev’essere lì.
Ezzelino ricorda allora la profezia della madre: “Sei nato a Baxan, a Bassano, morirai in un’altra Axan”. “Dove siamo, come si chiama questo luogo?”, chiede il tiranno. “Siamo a Caxan”, gli risponde un cavaliere. E Ezzelino capisce che è finita. Chi ricorda oggi queste frontiere? Chi ha memoria di queste paure e tirannie che arrivavano da pochi chilometri? Cassano oggi è una cittadina del milanese, che presidia ancora il suo ponte con un castello e qualche antica fortificazione. Ma la paura non arriva più dall’altra parte del fiume.
Eppure i sottosistemi che compongono il nostro paese esistono ancora ma non vengono raccontati, se non in una chiave tristemente difensiva e con un linguaggio ancora meno efficace di quei resti di antiche fortificazioni.
Rolandino da Padova scriveva in latino, ma poteva ascoltare nelle piazze e nelle corti della Marca Trevigiana le poesie d’amore in provenzale di veneti e lombardi. Il suo contemporaneo fiorentino Brunetto Latini invece scriveva in francese del Nord, oppure traduceva in toscano il latino di Cicerone. Pochi decenni prima al Sud, un imperatore tedesco chiedeva ai suoi funzionari di scrivere poesia, in siciliano. Dante penserà alla corte dei siciliani, al ruolo politico della lingua, quando scriverà, in latino, che è necessario costruire una lingua italiana “curiale” per la corte che verrà. Ancora in quegli anni Marco Polo detta il racconto del suo incredibile viaggio in Cina in francese.

Quanta di questa varietà è parte integrante dell’essere italiani? Quanta di questa molteplicità, tutt’altro che dispersa, ma coerente e aperta, fa parte della cultura italiana oggi? Della cultura che vediamo rappresentata, intendo dire, che ci rende ubiqui e quindi più forti, per riprendere una parola di Jacques Attali quando riflette su come uscire dalla crisi.
Ma che dire oggi del fatto che sta nascendo uno spazio che possiamo forse definire di italofonia? Oggi esiste un numero importante di scrittori che sono italiani di seconda o addirittura prima generazione che decidono di esprimersi in italiano. Si tratta di un contributo identitario inimmaginabile fino a poco tempo fa. Che siano di provenienza Egiziani, Maghrebini, Albanesi, Iracheni, Moldavi, una serie crescente di autori decide che è con la lingua italiana che vuole fare i propri conti. Per me è un miracolo. Come i veneti che cantavano d’amore in provenzale.
La geografia culturale italiana diventa allora davvero uno spazio nuovo, nuovissimo, da interpretare, da esplorare completamente.

2.
Uno stato non si governa coi paternostri. Lo diceva Machiavelli, ma un po’ si sbagliava. Ho scoperto che l’icona della Madonna nella chiesetta russa ortodossa di via san Gregorio a Milano piange. Non è facile accedervi, perché la cappella non dà sulla strada. Bisogna entrare nel cortile di una scuola attraverso un cancello che sembra un ponte levatoio, perché la cappella è protetta per un lato da un fosso profondo di mattoni rossi. Erano anni che volevo entrare. Mi sono sempre chiesto chi fossero i frequentatori di una chiesetta russa, retta da un sacerdote vestito di porpora e con una barba bianca che più russo non si può, nel cuore di Milano, a 20 metri da corso Buenos Aires. E perché la Madonna piange? Non è dato sapere. Ma ho colto l’occasione per partire, senza maggiolino e senza Groucho, a vedere uno di questi cosiddetti gruppi carismatici, cattolici. Il ritorno del carisma. E dei carismi (come li pensava Paolo di Tarso). Modi di pregare inaspettati. Tra canti in lingue misteriose, attese (soddisfatte) di miracoli quotidiani, angeli veri e demoni veri che si combattono ogni giorno, oggi, in Italia. Sono gruppi, comunità ristrette ma in relazione con le altre, che sembrano usciti da una tarda antichità o da un medioevo immaginari; animati da una tensione cognitiva e spirituale che abolisce la linea leggera e sottile tra quotidiano e sovrannaturale, fatta di segni e di interpretazioni.
Ma non vengono dal mondo antico, anche se alle origini si ispirano, e non c’è nulla di new age, si tratta invece di un fenomeno in aumento che nasce proprio, e non è un paradosso, dalla “modernità” del Concilio Vaticano II e dal nuovo ruolo che esso accorda ai laici. È proprio grandioso il ruolo di una istituzione che si vuole “cattolica”, cioè universale, ma che rappresenta piuttosto uno dei contributi universali del pensiero italiano. Quanto di italiano c’è nella chiesa cattolica e quanto di cattolico nell’accesso italiano al pensiero.
Oggi il cattolicesimo italiano è una cosa diversa dal passato, naturalmente, ma rimane davvero una galassia, non scopro nulla. Il dibattito è però sempre sospeso tra “cattolici democratici” da una parte, blocco dei cattolici dei “fini che giustificano i mezzi dall’altra” (per usare un’espressione azzeccata di Rosi Bindi), una gerarchia che fa della contraddizione un sistema di gestione e insieme un dibattito sulla laicità che a volte sconfina nella pura evocazione di princìpi. Alla fine del viaggio alla ricerca dei carismi, mi pare ancora più evidente il ruolo cardinale dell’istituzione. Lo dico in senso descrittivo, anche se è un po’ banale.
Ma allora che cosa può fare la chiesa gerarchica italiana per questo nostro paese oggi, per farlo crescere in quanto paese? In realtà molto, ma io mi limiterò ad alcune proposte in fondo marginali, ma non prive di una loro importanza culturale.

3.
Naturalmente se indagine dell’incubo dev’essere, è necessario che l’indagatore indaghi anche a partire dalle proprie ossessioni. Ho voluto dire qualcosa sul nesso tra potere e bellezza, sul nesso tra potere personale e dimensione pubblica della ricchezza. È uno dei punti che qualificano il Rinascimento, secondo me, ed è uno degli elementi che sono entrati nell’identità italiana. L’uso dell’immagine, la restituzione della bellezza (o di un suo simulacro) in cambio della libertà, l’idea che il bene comune possa non essere il bene pubblico, o che intrattenga incerti legami con esso. Soprattutto l’oscillazione permanente tra repubblicanesimo e principato, tra libertà e assoggettamento (più o meno volontario) costituiscono quelle oscillazioni ambigue e meravigliose (in tutti i sensi) che il Rinascimento ha consegnato alla mentalità politica italiana. Machiavelli ha scritto il Principe, variamente commentato da Mussolini, da Gramsci, perfino da Craxi e da Mitterrand, ma il suo capolavoro sono i Discorsi, in cui mostra la passione per la repubblica e la libertà. Non solo, mostra come mantenere la libertà contro i prìncipi.
Il corpo del principe, l’immagine del potere, la bellezza ambigua della ricchezza e del patto comune sono in certo modo la sostanza rappresentativa di un nuovo potere. Anche da questa radice rinascimentale si può capire qualcosa del populismo e del fatto che repubblica e democrazia siano concetti che si possono non sovrapporre, che bene comune e bene pubblico possono non essere sinonimo. Certo il salto con il mondo di oggi è abissale, il sistema di segni non è più lo stesso. Ma non rimane in filigrana una possibilità di lettura? Assistiamo forse oggi a una nuova estetica come dispositivo, a una nuova produzione di segni di potere che hanno un senso nel contesto di un mondo mediale. Il corpo delle donne, un documentario molto bello scaricabile dall’omonimo sito, mostra alcuni elementi interessanti di questo nuovo lessico e il film Videocracy ha schizzato i contorni di un nuovo meccanismo governamentale.
È curioso che ancora nel XXI secolo, dopo secoli di marxismi, liberismi, strutture, sovrastrutture, economicismi vari, sia ancora così importante il leader, la sua persona, la sua singolarità. E che lo sia ancora in una chiave miracolistica. Vale per l’Italia, ma vale anche per altri. Siamo ancora al re taumaturgo?

Certo l’Italia in questo ha rappresentato bene i tempi, come è successo spesso peraltro, e forse proprio a causa di questa sua radice rinascimentale, per questa sua grandezza a misura di città e per questo suo considerare la propria città un mondo, urbs et orbs, nel senso contrario della formula, un perimetro oltre il quale oggi tutto sembra perdere significato e non ha interesse. Un linguaggio di grandezza calcolata che si trasforma in un leader smisurato (lo abbiamo visto in tempi recentissimi) che assorbe nella sua figura anche ogni smisurata parola su di lui, un corpo esibito e quasi in ostensione permanente, addirittura difforme, addirittura pantagruelico negli scandali degli ultimi anni. E certamente roboante nelle promesse (come quella di debellare la morte per cancro in tre anni).
A me allora vengono in mente i giganti dell’epica anticavalleresca, il Morgante descritto da Pulci nella seconda metà del XV secolo, cioè il gigante convertito al cristianesimo e alleato di Carlo Magno. Un gigante smisurato che può distruggere ogni cosa a colpi di batacchio di campana, che nella nave in tempesta regge le vele al posto dell’albero maestro, che in battaglia non teme rivali, un ammazzasette che ribalta comicamente la tradizione cavalleresca, apparentemente invincibile e che muore nel modo più inaspettato, punto da un granchietto. È anche questa l’Italia di oggi? E dov’è allora il Pulci che la descrive?

4.
Pinocchio piace a tutti non perché dice le bugie, ma perché cerca se stesso. Non perché è sedotto dal paese dei balocchi e dunque diventa un somaro, bensì perché diventa un somaro, ma la storia non finisce lì. Perché costruisce il proprio racconto entrando e uscendo dal racconto degli altri, quello del giudice, quello di Lucignolo, quello del gatto e della volpe, pure quello della fatina (non parliamo di Geppetto), che lo limitano e lo interpretano. La sua vita è una metamorfosi continua, che non oscilla solo tra burattino e bambino, ma tra vecchio e nuovo, tra scoperta e rigidità. Si è sempre sull’orlo della tragedia, ma la tragedia non avviene mai, perché tutto può arrivare ad evitarla, anche i propri punti deboli, e può accadere che appesi per il collo alla forca ci si trasformi in burattino di legno, e come in un vero Golgota, “Babbo mio, se tu fossi qui”, si soffra fino alla morte. Ma poi non si muore e si ricomincia.

Insomma Pinocchio non è solo un racconto, è una battaglia di racconti. Proprio quella che servirebbe oggi, in fondo. “Noi ci vediamo nel racconto degli altri”, scrive il Nobel sudafricano Coetzee. Ma chi racconta e dà una lettura di noi sono anche le istituzioni, i miti comuni, il lavoro, i giudizi impliciti che la nostra posizione nel mondo ci rimanda continuamente. Mi pare che oggi tutti questi elementi di lettura e narrazione necessitino di una “messa a giorno”. In questo senso non riusciamo più a vederci nel “racconto degli altri” e fatichiamo, come Pinocchio, a imporre il nostro e questo genera incomprensioni e squilibri. Che cosa vuol dire raccontare, concretamente, in questo senso?

Si prenda il lavoro precario nella ricerca. La logica attuale di riconoscimento istituzionale è “se hai un posto fisso nell’accademia sei un ricercatore, altrimenti sei un giovane in formazione, anche se hai 35 anni, anche se ne hai 45 e fai due lavori”. Questo organizza la visione delle cose attraverso una polarità dentro-fuori, tutto-niente, generata dalle istituzioni stessa della ricerca, università, cnr, ministeri, che guardano ancora ad un mondo in cui il precariato non esisteva. In questo modo la lettura che i precari danno di se stessi è quella di incompiutezza, di chi subisce un torto, di chi deve abbassare la testa. Se però andiamo a vedere chi effettivamente fa la ricerca, cioè chi pubblica e dove, si scopre che una parte strutturale della produzione scientifica è fatta proprio da loro. L’esempio delle società scientifiche (che associano gli studiosi di una determinata area, che coincide quasi sempre con una “classe di concorso” accademica) è ancora più interessante. I membri di queste società sono almeno per il 90% ricercatori precari. Lo statuto di una di queste società, addirittura nega il diritto di voto attivo e passivo per le cariche interne ai membri che non abbiano un posto fisso. Cioè si dà enfasi alla precarietà, piuttosto che alla ricerca, creando squilibri e rendite.

Tutto questo vuol dire che bisogna raccontare il mondo in un altro modo e che sono le istituzioni che devono sentirsi sotto pressione. I precari della ricerca ad esempio devono avere accesso ai fondi di ricerca, cioè devono almeno poter essere considerati ricercatori a tutti gli effetti e poi giudicati in base a questo. Oggi per un ricercatore italiano capace, è più facile organizzare un convegno a Berlino piuttosto che a Roma.

Altrimenti è impossibile anche qualsiasi sistema di riconoscimento sociale, di valorizzazione comune del lavoro. Se il lavoro è cambiato va anche cambiata la forma del riconoscimento istituzionale che lo racconta. E se cambia il racconto cambia anche la realtà (e gli strumenti concreti per adeguare i due livelli). L’incrocio tra racconto individuale e collettivo in questo senso è una delle grandi sfide in questo momento di passaggio. Sulla capacità di incrociare i due elementi si gioca l’inclinazione verso il crinale di una mentalità oligarchica e della rendita, anch’esse inerenti all’esperienza italiana, o verso una nuova apertura repubblicana. Con le conseguenze che ne derivano.

Naturalmente in mancanza di ideologie totalizzanti esplicite il lavoro di narrazione si complica (oggettivamente). D’altra parte aspettare ancora l’ideologia totalizzante è un problema di strabismo. Ha modificato maggiormente la vita degli italiani negli ultimi decenni il sistema dei partiti o il porno di massa? E il rapporto con il cibo e con il corpo o le decisioni della “politica”? Se lo chiede con intuizione fulminante Acquaviva. E a queste domande se ne potrebbero aggiungere molte altre.

Però in un quadro così fluido dal punto di vista cognitivo si apre lo spazio anche per “stare” nelle cose a partire dalla riattivazione delle risorse intellettuali e culturali di una determinata identità complessa, come quella italiana.

Foto: AP Photo/Mark Lennihan