Le pompe funebri non vanno mai in crisi?

Paolo Stefanini racconta su Linkiesta come funziona un settore di cui si parla poco, e non solo per scaramanzia

Paolo Stefanini racconta su Linkiesta come funzionano gli affari per le pompe funebri, un settore di cui non si sente spesso parlare e non solo per motivi scaramantici. In Italia i politici non si occupano dell’argomento dagli anni Novanta e, nonostante il luogo comune, la crisi si fa sentire anche per chi organizza e gestisce i funerali.

Se il paradiso esiste, ultimamente dev’essere piuttosto affollato di gente dalla grande umiltà. «I familiari dei defunti», racconta Alessandro Bosi, segretario nazionale del Feniof, la Federazione nazionale imprese onoranze funebri, «sempre più spesso ci chiedono un funerale frugale, una bara semplice, pochi fiori, una cerimonia sobria. Dicono che è perché chi è mancato “era tanto umile e avrebbe preferito così”. In realtà, i soldi che girano sono sempre meno e sull’ultimo saluto si cerca di risparmiare. Insomma, si fa economia anche sui funerali, al tempo della crisi…».

«Di noi la stampa non si occupa quasi mai», si lamenta Bosi, 41 anni, bolognese, segretario del Feniof dal 2004 (il segretario viene rieletto ogni tre anni e non c’è un limite massimo di mandati. Unico obbligo: non deve essere un operatore del settore, per evitare conflitti d’interesse). «Sui giornali andiamo solo quando la mela marcia combina guai e scoppia lo scandalo. Penso ai vari casi di impresari di onoranze funebri che si procacciavano i morti negli ospedali, dando mazzette agli infermieri. Purtroppo il decreto Bersani ha portato a una liberalizzazione scriteriata, e in meno di dieci anni gli operatori sono raddoppiati: da circa tremila a oltre seimila. La concorrenza è diventata agguerrita ed è entrata in campo gente improvvisata, che in qualche caso si è comportata in modo scorretto. Mi stupisce, in ogni caso, che si parli così poco di noi, al di là di queste brutte vicende. In fondo, quello del funerario è un indotto importante, che va dal lapideo alla floricoltura, dai carri funebri alle bare, alle urne cinerarie… Muoiono circa 570mila italiani ogni anno. Non siamo certo un settore di nicchia…».

La morte prosegue il suo vecchio lavoro ai soliti ritmi, ma i fatturati di chi gestisce le pompe funebri (il giro d’affari supera abbondantemente il miliardo e mezzo di euro all’anno, con una media a onoranza funebre di circa 2.700 euro) sono in contrazione. La crisi incide sulle tradizioni, accelera i cambiamenti, anche profondi. «La nostra produzione funebre nazionale», riprende Bosi, «è di eccellenza. Ha una qualità che tutto il mondo ci invidia. Ma adesso molti si accontentano di prodotti dozzinali, mentre prima ci sentivamo sempre richiedere il meglio. La crisi gioca un ruolo anche nell’incremento della cremazione. Era nata come approccio filosofico, oggi è spesso un modo per risparmiare. Dovendo incenerirla, spesso si sceglie una bara più economica, ma la vera differenza si ha sulle concessioni cimiteriali. Sono quelle a pesare sul bilancio delle esequie, spesso per oltre la metà. Un posto al camposanto costa ormai, al metro quadro, quanto una villa di superlusso, con la differenza che la villa resta tua, la tomba, invece, è in concessione per un tot d’anni, a seconda del Comune. Con la cremazione non si paga la concessione, ma solo il costo di apertura/chiusura della tomba dove mettere l’urna. E, laddove è permessa la dispersione delle ceneri, neppure questo. Il fatto è che siamo il Paese dei diritti negati, e manca una legge nazionale che regoli il settore. Così, le regioni si sono date leggi proprie, tutte diverse. E molte ancora non hanno legiferato. Un morto emiliano o lombardo è diverso oggi da un morto laziale, siciliano o calabrese. E, per quanto riguarda la cremazione, dalle statistiche la cosa balza subito all’occhio. A Milano, città record, c’è stato lo storico sorpasso: si fa cremare il 65% dei defunti. A Palermo, minimo nazionale, appena lo 0,3%. In Italia ci sono poco più di cinquanta forni operativi, e sono quasi tutti a nord di Roma».

La farraginosa legilazione nazionale è ferma a un dpr (il 285) del 1990, che Bosi definisce «vecchio già allora, figuriamoci oggi». Così ci sono regioni con regole dettagliate e altre senza norme. Le prime a legiferare su funerali e dintorni sono state Lombardia ed Emilia-Romagna. Poi si sono aggiunte il Piemonte, la Toscana, il Veneto, la Campania (che impone corsi di formazione di 500 ore per chi voglia diventare operatore), l’Umbria, la Puglia e altre… Tutto varia, anche nel determinare cosa sia un’impresa di onoranze funebri. Per esempio, l’Emilia Romagna ha fissato criteri severi: serve una sede, un carro funebre, un’autorimessa, un magazzino e, soprattutto, almeno quattro dipendenti stabilizzati (nel settore non è prevista la possibilità di contratti a chiamata, e Feniof, che raccoglie circa 800 operatori privati e che nel 2015 festeggerà i suoi primi cinquant’anni, è fimataria con Cgil Cisl e Uil del contratto nazionale di categoria).

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