Quando Calvino fece il cantautore

La storia del progetto "Cantacronache" e della scrittura della Guerra di Piero prima della Guerra di Piero

Su La Lettura di domenica scorsa, Francesco Cevasco ha raccontato la storia di “Cantacronache”, un progetto degli anni ‘50 promosso da Italo Calvino e da un gruppo di intellettuali torinesi con l’obiettivo di proporre canzoni che si occupassero della realtà, a differenza di quel che ritenevano facesse la canzone italiana dell’epoca a Sanremo.

Primo maggio 1958. Italo Calvino fa il suo esordio come «cantautore». Ma cantautore per davvero. E aveva pure la voce da baritono, finto baritono, quello da troppe sigarette. Al corteo della Cgil a Torino gli altoparlanti gracchiano la canzone Dove vola l’avvoltoio, scritta da Calvino, musicata da Sergio Liberovici. È una canzone con i partigiani buoni, o perlomeno dalla parte giusta, e i nazisti-avvoltoi cattivi. E contro la guerra. E per dire che non era, quella «canzonetta», una divagazione ludica di un già grande scrittore (aveva ormai pubblicato Il barone rampante e Il visconte dimezzato) leggete il confronto tra i versi del più grande cantautore italiano, Fabrizio De André, e quelli di Calvino.

De André, La guerra di Piero, 1964: «Lungo le sponde del mio torrente/ Voglio che scendano i lucci argentati/ Non più i cadaveri dei soldati/ Portati in braccio dalla corrente».
Calvino, Dove vola l’avvoltoio, 1958: «Nella limpida corrente/ Ora scendon carpe e trote/ Non più i corpi dei soldati/ Che la fanno insanguinar».

Era successo che un gruppo di scrittori e musicisti non ne potevano più delle canzonette che spopolavano a Sanremo, le definivano «figlie di una musica gastronomica» e avevano inventato una combriccola che si chiamava «Cantacronache». Il loro slogan era: «Evadere dall’evasione». Se l’erano inventato l’impiegato Rai Straniero, l’architetto Amodei e l’avvocato Jona. Erano giovani intellettuali torinesi, torinesi di cultura Einaudi per intenderci, che s’erano messi in testa di scrivere canzoni — come testimonia Francesco Giuffrida — in cui la realtà, i problemi grandi e piccoli di tutti i giorni, fossero il nucleo centrale della composizione, con buona pace delle mamme piangenti, dei vecchi scarponi, delle casette in Canadà, dei papaveri e papere.

(continua a leggere sul sito del Corriere della Sera)