Le domeniche di Antonio Pascale

Sul Corriere della Sera, il più fiero avversario del pensiero nostalgico ha una sbandata nostalgica

Sulla rinata discussione religioso-sindacale se sia giusto permettere a tutti di non lavorare la domenica, il Corriere della Sera ha chiesto una riflessione ad Antonio Pascale.

Negli anni 70, nel quartiere dove sono cresciuto, a Caserta, i rituali domenicali si svolgevano secondo un ritmo musicale consueto. Era un quartiere abitato dal ceto impiegatizio. Figli di contadini, con diploma di scuola media superiore, ora urbanizzati, e impiegati in enti statali. Sarà per formazione culturale, reddito e ambizioni, ma gli abitanti del quartiere si muovevano all’unisono e questa caratteristica era ben evidente, appunto, di domenica. Il ritmo domenicale cominciava con la sveglia collettiva, verso le otto, poi i maschi uscivano per comprare giornale e dolci, spesso facevano una scappata fuori quartiere per lavare la macchina. Poi scendevano le donne e nella tipica formazione «a paranza», a braccetto, mariti e mogli, andavano a messa.

Dopo, in un crescendo di passi e ticchettio di tacchi, si svolgeva una collettiva passeggiata sul Corso. Ritorno a casa, pranzo, raccomandazioni tipiche e diffuse a noi ragazzi: mangia tutto altrimenti niente dolci. Breve pennichella e di nuovo in piedi: i maschi allo stadio o in collegamento radiofonico con Tutto il calcio minuto per minuto — su questo aspetto la canzone di Rita Pavone individuava una precisa dinamica antropologica —, le donne e noi ragazzi davanti al televisore per Domenica in. Fatto sta che di nuovo il quartiere si sintonizzava su una nota sola, finché all’improvviso: fine dei giochi. Si spegneva tutto. Ombre e mestizia riempivano le strade del quartiere. Difficile dimenticare quella sensazione. Il quartiere prima rumoroso e allegro si chiudeva in una specie di ritiro spirituale. Ti sentivi scollegato dal mondo, chiuso nella tua cella monacale. Di sicuro la consapevolezza di questo sentimento della fine mi ha portato, anni dopo, ad apprezzare la lettura del «Sabato del villaggio» fatta da Carmelo Bene, quando dopo un inizio mesto e lento, quasi urlava, inquieto e ansioso, al garzoncello scherzoso di godersi quell’attimo, prima dell’ombra, inevitabile. Passano gli anni e si cresce e si cambia quartiere e città.

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