La repressione cinese a Aba

Un centro spirituale tibetano, nella regione cinese dello Sichuan, è da tre anni sotto lo stretto controllo delle autorità cinesi: un reportage di Associated Press

La città di Aba si trova a oltre 3000 metri di quota sull’altopiano tibetano e ha circa 80 mila abitanti, di cui quasi un decimo sono monaci tibetani. Anche se il distretto della città di Aba è ufficialmente parte della regione cinese dello Sichuan, culturalmente e storicamente fa a tutti gli effetti parte del Tibet, una regione che la Repubblica Popolare Cinese considera due volte più piccola in confronto all’estensione di cui parlano i tibetani.

Nel 2008, durante una delle periodiche ribellioni nel Tibet, molti dei monaci che si diedero fuoco durante le proteste contro la Cina venivano proprio dai 37 monasteri della regione di Aba, due dei quali si trovano nel capoluogo. Per questo motivo, da oltre tre anni la città di Aba è posta sotto strettissimo controllo dalle autorità cinesi, che hanno inviato l’esercito per pattugliare la città. La giornalista Gillian Wong è riuscita a entrare in città e ha pubblicato un reportage pochi giorni fa su Associated Press.

«Soldati dotati di elmetti, fucili, manganelli e scudi marciano in fila lungo la strada principale della città. La polizia pattuglia le strade fermando ogni macchina e controllando i documenti e le facce di tutti quelli che passano», scrive Wong, che aggiunge dettagli ancor più precisi sull’esatta dimensione della stretta cinese: nei dormitori scolastici della regione, per esempio, le autorità cinesi effettuano controlli a campione sulle letture degli studenti, per filtrare eventuali libri “proibiti”, che contengano critiche contro il Partito Comunista Cinese.

Tutti gli interlocutori citati da Wong appaiono come anonimi, per paura di ritorsioni e arresti della autorità. Un insegnante spiega che l’unica cosa da fare quando si viene fermati dalla polizia per strada è dire loro quel che vogliono sentire, che il Partito è buono e che non c’è alcun problema in città. Gli insegnanti non possono in nessun caso menzionare il Dalai Lama, neppure per criticarlo. L’accesso a internet è bloccato, così come l’invio di messaggi con il cellulare. L’unico modo per comunicare a distanza è telefonare, anche se gli abitanti sono certi di essere controllati, ascoltati e registrati.

Per questo qualcuno si è inventato delle frasi, dei codici per segnalare ai propri interlocutori il grado di sicurezza della telefonata che stanno facendo. L’anonimo insegnante per esempio chiede sempre: «È forte il vento alle tue spalle?» Se la riposta è sì vuol dire che la telefonata non è sicura, che la polizia sta ascoltando e che bisogna essere prudenti.

Ma non ci sono soltanto i militari e la polizia cinese a pattugliare la città e a controllare i cittadini. Le autorità infatti hanno costretto decine di funzionari tibetani che lavoravano nelle città vicine ad andare a Aba per lavorare come sorveglianti. Li obbligano a stare davanti agli alberghi e ai negozi, con una fascia rossa al braccio che segnala il fatto che sono tibetani, provocando negli stessi sorveglianti la frustrazione di chi controlla i propri concittadini. «Hanno paura», dice a Wong un’altra fonte anonima, «non osano dire di no». La popolazione della città manifesta generalmente ostilità verso di loro, considerandoli traditori.

Negli ultimi tempi il controllo da parte delle autorità sembra essersi fatto ancora più stretto, a causa dell’anniversario delle rivolte del 2008, iniziate proprio nel mese di marzo. Contemporaneamente ricorre anche l’anniversario delle rivolte del 1959, quando il quattordicesimo Dalai Lama fuggì in esilio in India per scampare alla rappresaglia cinese.

La Cina sta cercando di vincere la resistenza del Tibet investendo sulla sua crescita economica. Una tattica che potrebbe funzionare, allontanando la popolazione dai propri costumi tradizionali e dalla propria religione. I monaci se ne rendono conto e temono l’effettiva erosione della cultura e della religione che stanno difendendo, insieme alla influenza del Dalai Lama, la cui credibilità è continuamente attaccata dalle autorità cinesi.

foto: AP Photo/Gillian Wong

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