Quindici canzoni di Lou Reed

Uno che non ha mai sbagliato quasi niente

SYDNEY, AUSTRALIA - MAY 28: American musician Lou Reed attends a media conference to launch the Vivid LIVE program at Sydney Opera House on May 28, 2010 in Sydney, Australia. Vivid LIVE, part of the Vivid Sydney Festival, is curated by Reed and Anderson which will feature a number of concerts, small intimate evenings and various free events. (Photo by Brendon Thorne/Getty Images)
SYDNEY, AUSTRALIA - MAY 28: American musician Lou Reed attends a media conference to launch the Vivid LIVE program at Sydney Opera House on May 28, 2010 in Sydney, Australia. Vivid LIVE, part of the Vivid Sydney Festival, is curated by Reed and Anderson which will feature a number of concerts, small intimate evenings and various free events. (Photo by Brendon Thorne/Getty Images)

Oggi compie 70 anni Lou Reed, che esordì nel 1966 con i Velvet Underground e continua a fare eccellente musica anche dopo 46 anni di attività (malgrado il recente disco coi Metallica abbia raccolto entusiasmi e diffidenze insieme). Questa è la canonica ma insieme speciale playlist scelta da Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, nel suo libro Playlist.

Lou Reed
(1942, New York City, New York)
Icona dell’integrità rock, mai una sbavatura, mai una caduta di stile, mai una vanità al passo coi tempi (al massimo qualche disco non riuscito): una vita dentro l’arte contemporanea, dall’uscire con Andy Warhol e inventarsi i Velvet Underground allo sposare Laurie Anderson – sono la coppia intellettuale del rock – e lanciare il divo musicale più di moda nei primi anni Zero, Antony di Antony and the Johnsons. E in tutto questo lui è ancora bravissimo.

 

Walk on the wild side
(Transformer, 1972)
Se la batte con “Heroes” di David Bowie per il posto di inossidabile numero uno della storia del rock. Ha dentro un giro di basso e un dùdudù leggendari. I personaggi sono gli “eccentrici” frequentatori della Factory di Warhol, le cui identità sessuali anticonvenzionali sono tratteggiate diffusamente. Ciò nonostante, e benchè il suono non fosse esattamente mainstream, la canzone si guadagnò posizioni notevoli nelle classifiche anglosassoni. Per un’esperienza originale della canzone si ascolti l’interminabile versione dal vivo in Take no prisoners.

 

Satellite of love
(Transformer, 1972)
In forma assai meno levigata, era nata già ai tempi dei Velvet Underground. Non c’era il coretto “pòmpòm-pòm” e non suonava così Bowie (che qui produce e canticchia). Comunque, bastano quattro versi per farne una canzone di folle gelosia che stravolge e appanna la visione televisiva di una missione spaziale. Nella colonna sonora di The million dollar hotelce n’è una versione ipnotica e lamentosa cantata da Milla Jovovich e suonata da una compagnia di giro che comprende Brian Eno, Daniel Lanois, Bono e altri campioni.

 

Perfect day
(Transformer, 1972)
Quando Lou Reed fece una canzonetta jazz-pop, gli venne perfetta, con l’aiuto di David Bowie e Mick Ronson. E anche il testo, alla George Gershwin: una bella giornata insieme, andiamo allo zoo, o al cinema, io e te (immagini poi aggiornate da Battisti in “Perché no?”), come sono contento eccetera. Ma allora perché a un certo punto dice “pensavo di essere migliore” e conclude con “raccoglierai ciò che hai seminato”? C’è del losco, grazie al cielo.

Caroline says II
(Berlin, 1973)
Berlin è un concept album sulla faticosa e drammatica relazione di una coppia, minata da droghe e depressioni. Lui è Jim, il narratore impersonato da Lou Reed; lei è Caroline, personaggio faticoso e difficile, che “i suoi amici chiamano Alaska” (la canzone riutilizza piuttosto fedelmente quello che era stata “Stephanie says” dei Velvet Underground, fino ad allora inedita).

The bed
(Berlin, 1973)
“And I say, oh-oh oh-oh oh-oh, what a feeling”. Per il resto “The bed” è un dolce chiacchierato di Lou Reed, che racconta del suicidio di Caroline, che “si è tagliata i polsi”. Ma è “oh-oh oh-oh oh-oh” che la rende meravigliosa. Molti anni dopo, in The raven, Lou Reed ne incise una versione più aspra e severa.

Sad song
(Berlin, 1973)
«Più che una canzone, un mood» ha scritto Dave Thompson sul sito Allmusic. Chiude Berlin, con il protagonista che piange la morte di Caroline (suicida) ma fino a un certo punto: “I’m gonna stop wasting my time, somebody else would have broken both of her arms”. Bellissima canzone, e bellissimo mood.

Coney Island baby
(Coney Island baby, 1976)
Nella storia e nell’andamento, viene da associarla alle memorie di Bruce Springsteen in “The river”. Ma qui c’è tutta un’altra sofisticatezza notturna, radiofonica (con tanto di dedica finale), e quell’espressione perfetta: “the glory of love”. E anche il solo titolo, a pronunciarlo – “còni àiland bebi” – dà un certo piacere fisico.

September song
(Lost in the stars. The music of Kurt Weill, 1985)
Un classico standard di Kurt Weill passato per molte mani (da Sinatra a Bryan Ferry), e qui restituito a nuova vita da un ritmo molto loureed. Lui la fa perfetta, insomma.

Smalltown
(Songs for Drella, 1990)
Songs for Drella è un bel disco che Lou Reed scrisse e incise assieme a John Cale, dedicato ad Andy Warhol e alla sua vita (il nomignolo Drellacondensava “Dracula” e “Cinderella”). Reed e Cale erano stati entrambi vent’anni prima nei Velvet Underground, e Warhol era amico, complice e ispiratore della band. “Smalltown” la canta Reed, e spiega i mille motivi per fuggire dalla piccola città dove si è nati.

Hello it’s me
(Songs for Drella, 1990)
La canzone che chiude Songs for Drella è ancora cantata da Reed (altre le canta Cale, che qui ci mette la viola), ed è un saluto commosso e appassionato ad Andy Warhol, pieno di ricordi personali, imbarazzi e rimorsi – “mi dispiace di aver dubitato della tua buona fede” – ma anche di aneddoti storici sulla carriera dell’amico. “Lo so che è tardi per dirtelo, ma è l’unico modo di farlo. Ciao, sono io: buonanotte, Andy”.

Ecstasy
(Ecstasy, 2000)
Nel 2000, trent’anni dopo i Velvet Underground, Lou Reed fece ancora un disco bellissimo, Ecstasy, pieno di melodie e dolcezze tenebrose come lui. Nel pezzo che battezzava il disco, canticchia su un giro di chitarra incessante e perfetto, per quattro minuti e mezzo monocordi.

Baton Rouge
(Ecstasy, 2000)
Ballata disincantata e sentimentale su una vecchia storia finita male, dedicata a una città non molto celebrata dalla storia del rock fino ad allora: ma Lou Reed mostrò che era facilissimo fare rima tra “when I think of you” e “Baton Rouge”, e non solo: “Once I had a car, lost in a divorce. The judge was a woman. Of course”.

Tatters
(Ecstasy, 2000)
“All couples have troubles, and none of this matters. But what you said still echoes in my head”. Un’altra ballata meravigliosa e realista, sulle fatiche e le insicurezze eterne e inestinguibili delle storie d’amore, con dei fiati soul stupendi. “Some couples, live in harmony. Some do not. Some couples yell and scream. Some do not”.

Who am I?
(The raven, 2003)
Grande, grandissimo: “SOMETIMES-I-WONDER, WHO-AM-I? Who made the trees, who made the sky?”, e si porta via tutto il cucuzzàro.

Vanishing act
(The raven, 2003)
“Vanishing act” è roba da spappolarti i ventricoli. “It must be nice to disappear, to have a vanishing act/To always be looking forward, and never looking back”. Pianoforte. “How nice it is to disappear, float into a myst/With a young lady on your arm, looking for a kiss”.