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  • Giovedì 23 febbraio 2012

La rivoluzione in Siria

I cellulari come musei degli orrori, la vita a Homs, la resistenza civile e l'esercito di liberazione: Repubblica ha pubblicato il reportage di Jonathan Littell

Idlib, Siria (BULENT KILIC/AFP/Getty Images)
Idlib, Siria (BULENT KILIC/AFP/Getty Images)

Jonathan Littell è uno scrittore che vive in Spagna, è nato a New York, ed è cresciuto in Francia. Dalla Siria ha scritto un reportage per il quotidiano francese Le Monde, tradotto e pubblicato su Repubblica il 19 e il 21 febbraio. Littell racconta il suo passaggio dal Libano alla Siria e il suo arrivo a Homs grazie alla rete creata dagli uomini dell’esercito di liberazione (Esl) “passando da una casa all’altra, da un veicolo all’altro, da una persona all’altra”.

Una vasta rete di civili aiuta l’Esl e la rivoluzione. A ogni tappa, un veicolo o una moto parte a verificare se la strada è libera. E quando ci muoviamo c’è sempre qualcuno davanti, intorno, dietro; i telefoni squillano incessantemente per trasmettere le ultime informazioni. È come se, di fronte alla rete di controllo delle forze di polizia e di sicurezza del partito Baath e dei mukabarat, che da decenni domina la vita del Paese e in cui la popolazione è rimasta in un modo o nell’altro intrappolata, durante questi ultimi mesi la società avesse creato una rete alternativa, quasi altrettanto efficace, fatta di attivisti, civili, notabili, esponenti religiosi e, sempre più, di forze armate, i disertori che formano l’Esl. Questa rete alternativa resiste all’altra, la aggira e in parte comincia ad annettersela. Quando ci si muove tra la frontiera libanese e Homs, diventa visibile. Certo, continua a esserci una resistenza passiva al controllo del regime, ma ora la rete alternativa è diventata autonoma dalla prima. Quasi che, dalla primavera scorsa, la società siriana si fosse sdoppiata, e le due società parallele coesistessero, nel Paese, in un conflitto mortale.

Littell parla della coscienza politica dei normali cittadini coinvolti nella rivoluzione e dell’esercito di liberazione, formato soprattutto da disertori che spesso ricevono informazioni precise da colleghi rimasti in servizio e anche, per soldi o per la causa, armi e munizioni. E spiega il vero motivo della richiesta insistente da parte degli attivisti di una no-fly zone durante le manifestazioni:

una richiesta che sorprende l’Occidente perché, a differenza di Gheddafi, Bashar al-Assad non ha ancora fatto ricorso all’aviazione contro i civili. «Se otteniamo una no-fly zone – insiste Atlas (un tenente dell’Esl) – metà dell’esercito si ammutinerà. Il regime sarà spacciato». «È un esercito di ladri, – borbotta Abu Amar, un sottufficiale – ci vanno solo i poveri. È un esercito di incompetenti, che non funziona. Serve solo a ingrassare la comunità alawita». A questa setta sciita dissidente, considerata eretica da molti musulmani, appartengono il clan al-Assad e la maggior parte dei comandanti delle forze di sicurezza. Nell’Els gli alawiti sono pochi, ma ce ne sono. Ne incontro uno, Fadel, a un posto di blocco di Baba Amr: «Quando ho visto l’esercito uccidere dei civili – mi spiega di fronte ai suoi commilitoni – ho pensato: “Io non sono con loro, sono con il popolo”. Non ho detto: “Io sono alawita, perciò sto con gli alawiti”. No. Se loro agiscono male, io cerco di agire bene».

Nella seconda parte del suo reportage, Littell racconta di una manifestazione a Homs, degli attivisti che gli mostrano le cicatrici, della resistenza civile e di You Tube.

Da undici mesi, in Siria, la vita quotidiana è scandita dalle manifestazioni. La più importante è quella del venerdì. Il rituale si ripete immutabile: come oggi, 20 gennaio, a Baba Amr. Appena conclusa la preghiera di mezzogiorno, in moschea gli uomini lanciano il takbir, «Allahu akbar!», e si riversano all’ esterno. Fuori gli attivisti aspettano, tra nugoli di bambini, con bandiere e striscioni. Il corteo si forma, sfila per i vicoli, poi percorre un viale scandendo slogan e brandendo cartelli e fotografie di martiri, sotto un edificio dove a volte sono appostati cecchini del regime. Gli incroci sono sorvegliati da uomini dell’ Esl, l’ Esercito siriano libero, armati. Assieme ad altri cortei confluisce in una grande strada che attraversa il quartiere. Salgo su un tetto con alcuni attivisti che filmano la manifestazione, per avere una visione d’ insieme: sono almeno duemila persone, forse anche tremila. «Se non sparassero sui manifestanti, – mi dice un vecchio signore, – tutta Homs sarebbe in strada». Al centro, centinaia di giovani allineati su varie file, tenendosi sottobraccio, gridano di nuovo il takbir e cominciano a saltare al ritmo dei tamburi e dei canti rivoluzionari intonati dai capi, ritti su una scala in mezzo a un cerchio di danzatori. Da una parte, una massa di donne velate, un mare di foulard bianchi, rosa o neri, con bimbi piccoli e palloncini, lancia i caratteristici youyou e ripete, con gli uomini, gli slogan dei capi. Intorno, la gente si accalca sui balconi. C’ è un clima di folle allegria, di gioia sfrenata, disperata.

Alla fine della manifestazione vengo circondato da decine di giovani, che tentano disperatamente di comunicare con quattro parole di inglese. Ognuno mi mostra le sue cicatrici: manganellate, bruciature da elettricità, ferite da proiettili o da schegge di granata. Uno ha avuto il fratello ucciso da un cecchino mentre attraversava la strada, la madre di un altro è morta sotto un bombardamento; tutti vogliono raccontare tutto, subito. Brandiscono il cellulare: «Shuf, shuf, guarda!» Un cadavere pieno di lividi delle torture, un altro con il cranio sfondato, su un altro ancora la videocamera indugia mostrando ogni ferita, all’ inguine, alla gamba, al petto, alla gola. Succede dovunque si vada. In un punto di primo soccorso ad alKhaldiye, nella zona nord della città, una giovane infermiera sfodera lo smartphone prima ancora che arrivi il tè: sullo schermo un uomo agonizza mentre un medico tenta vanamente di intubarlo, lì sul pavimento, ai piedi del divano su cui ora sono seduto io. Era un taxista, si è preso un proiettile in faccia e giace in un’ enorme pozza di sangue, il cervello sparso a terra. «Vedi queste mani? – dice l’ infermiera. – Sono le mie». Passa al filmato successivo, arriva il tè, lo bevo senza staccare gli occhi dallo schermo. A Homs ogni cellulare è un museo degli orrori.

(continua a leggere sul sito di Repubblica)

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