Umberto Bossi, il vitellone

Marco Belpoliti nel suo nuovo libro spiega la funzione della trasandatezza di Umberto Bossi, e delle sue canottiere

Umberto Bossi è un senatore lombardo dal linguaggio rude che ama presentarsi con i capelli in disordine, la cravatta slacciata e abiti che gli cascano addosso, «come se fosse appena uscito da un litigioso consiglio d’amministrazione». Così scrive un professore di storia italiana dell’Università di Reading, Christopher Duggan, in un celebre e ampio saggio sulle vicende del nostro paese, dal 1796 al 2007: La forza del destino. Duggan ha probabilmente in mente uno stereotipo dell’industriale italiano che in qualche riunione dà battaglia agli amministratori della sua azienda. Ma la realtà cui fa riferimento la figura di Bossi non è quella di un imprenditore alle prese con litigiosi consiglieri, bensì quella del piccolo imprenditore lombardo, o veneto, che è il solo amministratore della sua azienda, la quale raramente si estende oltre il centinaio di operai, per cui i consigli di amministrazione non rientrano tra le sue prerogative settimanali o mensili.

Quel «disordine » che appare così evidente in tutte le istantanee del Senatùr a partire dal 1987, quando è eletto per la prima volta in uno dei due rami del parlamento di Roma, solo tre anni dopo aver fondato la «Lega autonomista lombarda», riguarda invece un altro stereotipo, quello del bar di provincia frequentato da giovanotti che, con un neologismo entrato nella lingua corrente, Federico Fellini ha definito « i vitelloni», dal titolo del suo film del 1953: un giovane perdigiorno, abbastanza stagionato, che qualcuno bene o male mantiene. Dietro di lui, racconta Fellini nel trattamento del film, c’è sempre una famiglia, una sorella, una zia, presso cui mangia, dorme, dalla quale si fa vestire, e a cui riesce sempre a scroccare un po’ di soldi per le sigarette, o per il cinematografo. Uno che non sa bene cosa vuol fare nella vita, e che disdegna i lavoretti, le piccole occupazioni che la cittadina di provincia offrirebbe alla sua scarsa preparazione. Di solito il vitellone non ha terminato gli studi, e non ha particolari attitudini.

Il regista ha ambientato il film, uno dei suoi più belli, nella città natale, Rimini, una storia evidentemente autobiografica; i suoi personaggi – Riccardo, Moraldo, Leopoldo, Alberto, Fausto – fanno progetti, giocano, buttano via il tempo, e si aggirano per i luoghi vuoti del divertimento estivo. Nella memoria di chi ha visto il film resta impressa una scena, quella in cui Alberto, interpretato magnificamente da Sordi, fa il gesto dell’ombrello con tanto di pernacchia nei confronti di un gruppo di operai al lavoro lungo una strada: «Lavoratori!!! Pruuuu!».

Ecco, per capire lo stile e i gesti di Umberto Bossi bisogna partire da qui, e non da un litigioso consiglio di amministrazione di qualche fabbrica del Nord come asserisce Duggan. Bossi è un vitellone, non uno dei ragazzi nullafacenti, sognatori, umanamente mediocri, degli anni Cinquanta, bensì un vitellone degli anni Settanta e Ottanta. Per collocare la sua figura – Bossi è, a suo modo, egli stesso uno stereotipo, seppur nella sua unicità, una maschera, se si vuole, cioè un ruolo e insieme un attore – bisogna tornare a un episodio su cui si sono soffermati i rotocalchi e i settimanali trattandolo come un fatto di colore, che tuttavia, in un personaggio in cui il colore – ovvero lo stile, l’abito e i gesti, oltre alle parole – è tutto, riveste un ruolo significativo.

A vent’anni, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, il futuro leader leghista ha tentato la carriera di cantante. Si fa chiamare Donato e gira per le balere con la sua band facendo il verso ai cantanti dell’epoca: Fred Buscaglione, Adriano Celentano, Giorgio Gaber. Ha fondato infatti un piccolo gruppo musicale e scritto delle canzoni. Una s’intitola Col caterpillar, e contiene un brano che recita così: «Noi siam venuti dall’Italy / Abbiamo un piano / per far la lira / Entriamo in banca col caterpillar / e ci prendiamo il grano ». Arriva anche a Castrocaro, al festival per le voci nuove, percorso che può portare al Festival di Sanremo. Ma non vince. Incide tuttavia un 45 giri. Nel suo atteggiamento gestuale, nell’abbigliamento, nello stile, c’è dunque in Bossi qualcosa di Moraldo e Alberto, dei vitelloni felliniani, qualcosa, appunto, di provinciale.

Se si osservano le foto del Senatùr all’epoca – nel 1987 ha quarantasei anni –, immagini assai rare in verità, che compaiono sui giornali, si nota che indossa spesso la medesima giacca, a quadretti, le stesse cravatte. Porta sopra il vestito un inconfondibile impermeabile di colore chiaro, che all’occorrenza tiene ripiegato sul braccio. Ricorda, almeno in questo, un personaggio di un serial televisivo, il tenente Sheridan, o, per la trasandatezza che ha colpito lo storico inglese, piuttosto il tenente Colombo, interpretato da Peter Falck.

Ma nelle pose che lo vedono incitare una folla di sostenitori e curiosi, il suo stile è quello del cantante. Lo si capisce da come si atteggia davanti al microfono. Lo afferra con le due mani, si avvicina quasi per sussurrare, anche se poi la voce esce alta dall’impianto di amplificazione. Uno stile decisamente diverso da quello dei politici degli anni precedenti, democristiani, comunisti, socialisti, missini, che, sì, parlano davanti al microfono, ma sempre a debita distanza, come si trattasse di un oggetto interdetto, attraverso cui la voce per effetto magico si diffonde nell’etere. Somigliano, in alcuni casi, ai predicatori che arringano la folla dal pulpito, e le loro posture sono rivolte più al pubblico che non all’oggetto che hanno dinanzi.

Bossi, invece, sul palco è proprio un cantante. Si muove avanti e indietro senza lasciare il microfono, che tiene sempre molto vicino alla bocca, cammina come un urlatore degli anni Sessanta, o Settanta, un cantante italiano, per quanto certe mosse ricordino le pop star straniere. Quando i fotografi cominciano a seguirne i comizi e le esibizioni, a Pontida, Bossi al termine di ciascuna si avvicina al bordo del palco sotto cui s’accalcano i fan; si inginocchia e firma autografi. Un atteggiamento da piccola stella, che è il riflesso dell’atteggiamento dei fan: tra il concerto rock e la partita di calcio. Quelle che i fotoreporter ritraggono nel pratone della cittadina bergamasca sono infatti delle vere e proprie kermesse, che ricordano in qualche modo le Feste dell’Unità, che a loro volta rinviano alle feste di paese, con quel clima allegro, scherzoso, irriverente, chiassoso. Un altro dei possibili luoghi dove si aggira il vitellone di Soiano, frazione di Cassano Magnago, provincia di Varese.

I gesti dei leghisti, che costituiscono con i simboli, le bandiere, gli slogan, una delle caratteristiche più significative del movimento stesso, più ancora dei programmi politici, sono quelli di una tribù calcistica. Ne evidenziano il modello d’origine, fondato sui riti del viaggio in pullman, delle chiacchiere, dei canti, degli scherzi, dei giochi collettivi; sono i medesimi segni, dal braccio alzato al pugno in aria, dalle manifestazioni di trionfo al gesto a V delle dita delle mani. La variegata tribù che compone la base del partito politico della Lega appare nel paesaggio visivo degli anni Ottanta e Novanta la più espressiva, o almeno quella dotata di un’espressività fortemente connotata, più ancora dei movimenti politici di sinistra nati nel decennio precedente, che nelle forme comunicative appaiono in netto ripiegamento rispetto all’emergere di questo fenomeno nuovo e impressionante che ha in Umberto Bossi il suo leader.

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Qual è l’abito indossato più frequentemente da Umberto Bossi? La giacca, si è detto, una giacca impiegatizia, da travet lombardo, il perfetto vestito dell’everyman, dell’uomo qualsiasi. Un abito che funziona perché è un costume, l’abbiamo detto, indossato da tutti, comune. Popolare. tra i vari capi d’abbigliamento portati dal leader leghista nel corso della sua carriera i cronisti segnalano, abbiamo visto anche questo, l’impermeabile. Ma fra tutti è probabilmente la canottiera quella che meglio lo identifica nell’immaginario collettivo e che ne ha costituito il segno distintivo, l’immagine più eclatante. Probabilmente, più che un segno, la canotta, come viene comunemente chiamata, è un gesto vero e proprio: un atto performativo. Un messaggio inviato prima di tutto al popolo leghista, che è sempre e comunque il primo riferimento di Umberto Bossi.

La canotta compare in un momento preciso della vita politica del leader leghista, quando nel 1994 si reca in vacanza in Sardegna, ospite di un altro capo del movimento, Giancarlo Pagliarini. Siamo in un momento di crisi dell’alleanza tra la Lega e Silvio Berlusconi. tra poco la Lega farà cadere il governo guidato dal tycoon. Bossi viene fotografato in canottiera, e rilascia dichiarazioni alla stampa con questo abbigliamento, così lo propongono anche i telegiornali. Una fotografia, poi, presente sui giornali, lo mostra seduto in spiaggia, in costume da bagno, circondato dai villeggianti mentre parla e nel contempo disegna con il dito sulla sabbia. In altre istantanee s’affaccia dal terrazzino della casa dove si trova alloggiato, con indosso calzoncini sportivi fuori moda (da operaio anni Settanta) e canotta. Così vestito, Umberto passeggia in compagnia nella località di mare. La canottiera appartiene ai capi oggi definiti di « intimo», da mettere sotto la camicia, a diretto contatto con la pelle. Il suo nome deriva dall’attività del canottaggio; costituisce la divisa dei rematori, anche se è probabile che in origine indicasse il cappello dei vogatori, e solo in seguito l’intero abbigliamento.

Negli anni Venti questo capo compare nelle località di mare per vestire sia gli uomini sia le donne. Nella sua trasmigrazione progressiva la storia della canottiera s’intreccia con quella della tshirt che le è contigua dal punto di vista estetico e funzionale. Dopo la Seconda guerra mondiale entrambe entrano a far parte del guardaroba dei giovani, dopo essere state in quello dei militari; quindi diventa un indumento sportivo indossato nel basket e nell’atletica leggera, insieme ai calzoncini corti. Ma c’è un altro versante della sua storia: l’uso della canotta nell’ambito delle attività lavorative. Nel corso dell’Ottocento e del Novecento la canottiera è l’abito da lavoro durante i mesi caldi; la indossano contadini, operai, muratori, minatori. È probabile che i modi e i tempi con cui questo capo si è diffuso siano diversi. Esistono testimonianze della sua presenza nelle regate rinascimentali a Venezia: una maglia senza maniche indossata dai vogatori, che assume varie denominazioni a seconda della provenienza o dei materiali utilizzati: veste, camicia, gilet eccetera. Una storia della canottiera è dunque anche una storia dei mestieri e delle attività umane che s’intrecciano con la nascita del sistema della moda, con significati estetici e sociali che l’indumento veicola, compresa la sua sessualizzazione crescente a partire dagli anni trenta del xx secolo, fino a diventare un vero e proprio oggetto cult: da simbolo di eroi popolari, un po’ burini, a indumento attraverso cui si trasmettono modelli sessuali.

Ecco, dunque, Umberto Bossi e la sua canotta. Di sicuro è un capo che ha sempre indossato sotto la camicia, per quanto nella fotografia scattata in ospedale non ve ne sia traccia. In un libro di memorie redatto da una ex funzionaria della Lega, Enza Bello, e rimasto inedito, la donna fornisce un profilo assai veritiero del giovane Senatùr appena arrivato a Roma. Siamo nel 1988. Enza Bello lo racconta così: dimesso, con indosso abiti acquistati alla Upim, comportamenti provinciali, sicuro di sé e del suo fascino di parlatore, inarrestabile e logorroico. Nel breve ritratto riportato infine in un’intervista, il capo leghista indossa una canottiera di filo anche nel corso di una torrida nottata di luglio, e al collo porta una catenina della Madonna insieme a una croce, un corno e un cuore.

Così si mostra sei anni dopo in Sardegna, in un luogo di vacanza, dove i vestiti sono perlopiù informali e in cui prevale la tenuta sportiva. Viene subito da fare un paragone con gli scatti che ci hanno mostrato Silvio Berlusconi in tuta da ginnastica, prototipo della sua informalità. Due differenti versioni del vestito sportivo, ma anche della propria fisicità. Berlusconi non si è mai fatto ritrarre, se non in foto palesemente « rubate » da fotoreporter, in costume da bagno, o seminudo. L’immagine in canottiera del leader leghista viene invece trasmessa dai telegiornali con il pieno consenso di Bossi; il messaggio politico che il gesto comunica è esplicito: io sono parte del popolo, e la Lega è un movimento popolare. Seduto sulla spiaggia di Porto Cervo, luogo frequentato dai vip, il Senatùr, in procinto di rompere l’alleanza con il miliardario Silvio Berlusconi, si mostra così. Un vero everyman.

È in uscita per Guanda La canottiera di Bossi, di Marco Belpoliti. Belpoliti è critico letterario e saggista, e insegna Sociologia della letteratura e Letteratura italiana all’Università di Bergamo. Tra i suoi ultimi libri c’è Il corpo del capo, sul rapporto di Silvio Berlusconi con la fotografia dagli anni Settanta al 2001. Anima l’associazione culturale e il sito Doppiozero.