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  • Martedì 7 febbraio 2012

Acqua pubblica, a che punto siamo

Perché sette mesi dopo i referendum non è (ancora) cambiato niente

di Marco Surace

BERLIN - JANUARY 12: Water flows from a bathroom tap January 12, 2007 in Berlin, Germany. (Photo Illustration by Sean Gallup/Getty Images)
BERLIN - JANUARY 12: Water flows from a bathroom tap January 12, 2007 in Berlin, Germany. (Photo Illustration by Sean Gallup/Getty Images)

Il 12 e 13 giugno 2011 26 milioni di italiani hanno votato Sì a due referendum a favore di quello che i promotori hanno definito “l’acqua come bene comune”. Il primo referendum chiedeva della possibile privatizzazione della gestione dell’acqua o, per meglio dire, dei servizi idrici. Il secondo referendum chiedeva se abrogare la remunerazione del capitale investito dal gestore del servizio idrico, prevista fino a un massimo del 7 per cento e senza obbligo di reinvestire denaro nel miglioramento della qualità del servizio. Come si era già spiegato in quei giorni, in realtà l’acqua era già un bene comune non alienabile, non vendibile né privatizzabile: lo era prima del referendum e lo è rimasta anche dopo, in seguito a quanto stabilito dagli artt. 822 e 823 del Codice Civile e ribadito dall’art. 144 del DLgs. 152/06. Lo stesso vale per gli acquedotti: erano pubblici e rimangono pubblici.

Il primo quesito referendario, abrogando l’art. 23 bis del cosiddetto decreto Ronchi, ha stabilito che l’affidamento della gestione del servizio idrico – la riparazione dei tubi, la manutenzione delle fogne, la riscossione della tariffa di consumo, eccetera – non deve avvenire più tramite gara pubblica, evitabile solo con la cessione di una quota dell’azienda affidataria a un soggetto privato, ma può avvenire anche direttamente a una azienda pubblica, il cosiddetto affidamento in-house.

Il secondo quesito referendario ha abrogato un solo comma del decreto legislativo 152/06, quello che prevedeva tra le componenti della tariffa corrisposta per l’erogazione dell’acqua anche “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”. Sull’acqua non bisognava fare profitto, fu spiegato. Uno dei problemi è che il contenuto del comma abrogato è riportato identico all’art. 117 del Testo Unico sugli Enti Locali, il DLgs. 267/00, proprio quando si parla di calcolo delle tariffe. E anche per questo motivo, sette mesi dopo i referendum sull’acqua, non è ancora cambiato niente.

Come fatto notare da qualcuno nei giorni del referendum, la remunerazione del capitale in misura fissa del 7 per cento fu introdotta da Antonio Di Pietro, uno dei principali sostenitori dei referendum, quando da ministro dei Lavori Pubblici emanò il DM 01/08/96 [pdf] “per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato”. Un altro politico in prima fila nella campagna per i referendum sull’acqua, Nichi Vendola, presidente della Puglia, aveva spiegato poco dopo il voto che non avrebbe abbassato la tariffa perché era “indispensabile fare i conti con la realtà” e quel 7 per cento era necessario per coprire il costo dei debiti contratti per realizzare gli investimenti sulla rete. Nelle ultime settimane Vendola sta comunque cercando di introdurre agevolazioni fiscali volte ad abbassare le tariffe.

Questo succede perché l’abrogazione, così come avvenuta, ha lasciato un vuoto normativo: non è chiaro ora come regolarsi per l’affidamento del servizio idrico e per il calcolo delle tariffe. Fino a questo momento diverse amministrazioni hanno deciso, nell’incertezza normativa, di prolungare l’affidamento delle risorse idriche alle aziende che lo gestivano, con tanto di ricorsi e proteste per un atto lecito ma politicamente controverso.

L’attesa di un cambiamento rimasta delusa ha fatto nascere tra i comitati referendari una“campagna di obbedienza civile” che prevede un ricalcolo soggettivo della tariffa, decurtando la famigerata remunerazione del capitale, al momento non previsto da alcun gestore del servizio idrico in Italia: un invito a fare volontariamente quello che l’attuale quadro normativo non obbliga a fare. Alcuni consigli comunali, per esempio quello di Firenze, hanno approvato mozioni che impegnano l’amministrazione a richiedere all’ATO – l’Ambito Territoriale Ottimale, che assegna la gestione – di adeguare la tariffa del servizio idrico all’esito referendario abrogando il 7 per cento di remunerazione garantita del capitale investito. Si tratta tuttavia di una richiesta al momento impossibile.

Le ragioni della mancata riduzione sono infatti normative e non aleatorie. La tariffa dell’acqua non viene fissata dal gestore – pubblico, privato o misto che sia – ma proprio dall’autorità di ambito, l’ATO, secondo i criteri stabiliti dalle leggi in materia. Affinché questa possa procedere a un ricalcolo della tariffa applicata all’utenza è necessario che venga emanato un nuovo decreto ministeriale di definizione delle componenti di costo della tariffa, secondo quanto previsto al comma 2 dell’art. 154 del DLgs. 152/06. Il nuovo decreto dovrà tenere conto della modifica normativa decisa dagli elettori col referendum. In attesa di tale adeguamento l’autorità di ambito non può fare altro che continuare ad applicare le tariffe approvate in sede di affidamento del servizio, calcolate ai sensi della normativa vigente. Questa prevede che la tariffa si calcoli con il cosiddetto “Metodo Normalizzato”, tuttora in vigore, mai aggiornato né sostituito e non toccato formalmente dai referendum abrogativi: una formula matematica – Tn = (C+A+R)n-1 (1+P +K), per la cronaca – che tiene conto di costi operativi, ammortamento, capitale investito, inflazione, price cap e altri parametri.

Alcuni ATO dopo il referendum hanno chiesto alla presidenza del Consiglio di rimuovere questa situazione di indeterminatezza con delle nuove norme, ma finora nessun provvedimento del genere è stato preso in esame. Il decreto legge 1/2012, il cosiddetto “Cresci Italia” sulle liberalizzazioni che giace al Senato da qualche settimana in attesa della conversione in legge, all’articolo 31 modifica nuovamente i termini dell’affidamento, e si attende di conoscere gli orientamenti concreti del Parlamento sul tema.

L’unico effetto concreto dell’abrogazione referendaria è stata fino a questo momento una tangibile diminuzione degli investimenti, legati alla minore propensione al credito da parte delle banche nei confronti di aziende su cui pesano le incertezze di cui sopra. Qualcuno infatti già propone soluzioni alternative, come tasse di scopo o emissione di bond specifici per finanziare investimenti necessari quanto ingenti: si parla di 60 miliardi di euro a livello nazionale.

Mettere mano al tema delle tariffe potrebbe anche essere l’occasione per definire alcuni aspetti critici di cui si discute da anni. Innanzitutto le agevolazioni per i cosiddetti “utenti deboli”, le famiglie numerose e i nuclei a basso reddito. Il costo dell’acqua al metro cubo è infatti composto da una quota fissa e alcune quote variabili di importo crescente rispetto agli scaglioni di consumo. Ciò significa che più acqua si consuma più costa il singolo metro cubo, secondo un principio di progressività analogo al calcolo dell’IRPEF, che nasce per incentivare il risparmio di una fondamentale risorsa comune. Visto però che il calcolo avviene per ogni singolo contatore, e quindi per il nucleo familiare nelle utenze domestiche, le famiglie numerose risultano penalizzate, a parità di consumo a persona. La soluzione potrebbe essere, come proposto in alcuni ATO, un calcolo degli scaglioni tariffari in base al consumo medio pro-capite, ma ciò necessiterebbe la creazione di un database incrociato tra le utenze e i residenti del comune presso tale utenza. Un’altra possibilità è introdurre delle agevolazioni fisse legate all’ISEE, l’indice della situazione economica che tiene conto del reddito, del patrimonio e della composizione dell’intero nucleo familiare.

Da ottobre del 2010, inoltre, giace in Parlamento una specifica proposta di legge, presentata dal Partito Democratico con primi firmatari Pier Luigi Bersani e Dario Franceschini, che prevede di cambiare il calcolo delle tariffe dell’acqua passando dalla remunerazione del capitale investito, poi abrogata dai referendum, alla “remunerazione dell’attività industriale, secondo i criteri stabiliti dall’Autorità di regolazione”. La tariffa verrebbe così calcolata non in maniera percentualmente indifferenziata sul capitale, come previsto dalla norma abrogata dal referendum, ma calibrandola su alcuni parametri che tengano conto dell’efficienza aziendale, della capacità di investimenti e dello svolgimento dell’attività ordinaria. La proposta prevede comunque che la tariffa copra i costi di esercizio e di investimento, e in questo senso siano considerati nella sua determinazione anche le voci direttamente riferibili ai fondi utilizzati per eseguire i piani di intervento nelle opere del servizio idrico integrato. La remunerazione del capitale investito, ma condizionata.

foto: Sean Gallup/Getty Images