• Italia
  • Venerdì 3 febbraio 2012

Il “posto fisso” e la realtà

Invece che continuare col rimpianto dei "i bei tempi che furono", scrive Irene Tinagli, meglio dire le cose come stanno e cercare di migliorarle credibilmente

Sunrise at the Cuitzeo lagoon on January 10, 2012 in Michoacan state, Mexico. The local fishermen presently have their fishing reduced due to the low level of the water of the lagoon, maintained solely by the rainfall of the rain season and by small streams from the surrounding area. Fish trade and agriculture are the main livehood of the families who people the shores of the lagoon. AFP PHOTO/ Omar Torres (Photo credit should read OMAR TORRES/AFP/Getty Images)
Sunrise at the Cuitzeo lagoon on January 10, 2012 in Michoacan state, Mexico. The local fishermen presently have their fishing reduced due to the low level of the water of the lagoon, maintained solely by the rainfall of the rain season and by small streams from the surrounding area. Fish trade and agriculture are the main livehood of the families who people the shores of the lagoon. AFP PHOTO/ Omar Torres (Photo credit should read OMAR TORRES/AFP/Getty Images)

Irene Tinagli sulla Stampa di oggi scrive un articolo chiaro e chiarificatore riguardo il dibattito sul “posto fisso” generato dalla dichiarazione di Mario Monti, che lo aveva definito “monotono”. Il tema è particolarmente d’attualità, in Italia: il governo è impegnato in una trattativa con i sindacati e le associazioni dei commercianti e degli industriali allo scopo di riformare il mercato del lavoro italiano e trovare una soluzione al problema del suo dualismo, la separazione netta tra garantiti e non garantiti.

La realtà è questa: in Italia ci sono oltre 10 milioni di persone, tra cui moltissimi giovani, che vivono situazioni di lavoro inesistenti oppure estremamente precarie. E per precarie, sia ben inteso, non si intende semplicemente un contratto a tempo determinato, ma si intende una posizione di lavoro in cui non si ha alcuna forma di tutela, dove non ci si può permettere di ammalarsi né tantomeno una gravidanza, dove non ci sono ferie pagate né indennità di fine rapporto e dove, come nel caso delle migliaia di persone costrette ad aprirsi una partita Iva pur non essendo professionisti, bisogna anche pagarsi da soli i contributi che normalmente paga il datore di lavoro. Per queste persone il miraggio non è tanto il posto fisso, ma condizioni di lavoro degne di questo nome, e un qualche supporto che le aiuti quando un contratto finisce e hanno bisogno di tempo o di nuova formazione per trovarne un altro. Milioni di giovani di fatto chiedono questo. Quello che già hanno gran parte dei loro coetanei nel resto d’Europa.

Di fronte a questa realtà possiamo fare due cose. Possiamo dire a questi giovani che non devono stare a guardare questi «dettagli», ma che devono aspettare e puntare al posto fisso, come i loro nonni e i loro padri, perché quando ce lo avranno vivranno felici e protetti per il resto dei loro giorni. Poco importa se la competizione internazionale ha reso i mercati talmente instabili che le aziende non assumono più con contratti fissi. Poco importa se quel posto arriverà tra venti anni o forse mai. L’importante è tenere vivo l’obiettivo. Nel frattempo alle aziende che non riescono a sopravvivere offrendo contratti vecchio stampo si concede una serie di possibilità contrattualistiche ad altissima «deregolamentazione». In questo modo le aziende sono più o meno contente, i sindacati pure. I giovani un po’ meno, ma pazienza. Gli resta comunque il sogno di entrare prima o poi a far parte dei lavoratori «veri».

(continua a leggere sul sito della Stampa)

foto: OMAR TORRES/AFP/Getty Images