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  • Giovedì 2 febbraio 2012

L’instant book sulla Costa Concordia

"Un monumento alla stupidità umana", scrivono Marco Imarisio e Fiorenza Sarzanini in un libro che esce oggi col Corriere della Sera

di Marco Imarisio e Fiorenza Sarzanini

This picture made available on Wednesday, Jan. 18, 2012 by DigitalGlobe, satellite image made on Tuesday, Jan. 17, 2012, shows the hulk of the luxury cruise ship Costa Concordia, which ran aground the Tuscan tiny island of Isola del Giglio, Italy, on Friday, leaning on its starboard side. As the Costa Concordia keeps shifting on its rocky ledge, many has raised the prospect of an environmental disaster if the 2,300 tonnes of fuel on the half-submerged cruise ship leaks. Satellites are used to monitor the area while authorities are preparing to remove the fuel from inside the vessel. (AP Photo/DigitalGlobe) MANDATORY CREDIT
This picture made available on Wednesday, Jan. 18, 2012 by DigitalGlobe, satellite image made on Tuesday, Jan. 17, 2012, shows the hulk of the luxury cruise ship Costa Concordia, which ran aground the Tuscan tiny island of Isola del Giglio, Italy, on Friday, leaning on its starboard side. As the Costa Concordia keeps shifting on its rocky ledge, many has raised the prospect of an environmental disaster if the 2,300 tonnes of fuel on the half-submerged cruise ship leaks. Satellites are used to monitor the area while authorities are preparing to remove the fuel from inside the vessel. (AP Photo/DigitalGlobe) MANDATORY CREDIT

Oggi esce in edicola con il Corriere della Sera un libro scritto da Fiorenza Sarzanini e Marco Imarisio, due dei cronisti italiani che in queste settimane hanno seguito di più e meglio il naufragio della Costa Concordia. Il libro è disponibile da oggi solo a Milano e da domani in tutta Italia, costa 2,80 euro (oltre al prezzo del quotidiano). E si può comprare anche in formato ebook, in regalo per gli abbonati all’edizione digitale del Corriere della Sera e a 2,80 euro per tutti gli altri. Il Post pubblica alcuni estratti del libro.

Il naufragio della Costa Concordia è un monumento alla stupidità umana. Verrà l’inchiesta, come è giusto che sia, a stabilire e dividere le responsabilità, a trovare i colpevoli evidenti e quelli che non sono ancora apparsi in pubblico. Mai come in questo disastro, però, tutto è apparso chiaro fin da subito. Non ci sono guasti meccanici, non ci sono eventi naturali.

Il mare era una tavola, la luna illuminava la sera, la nave andava tranquilla. La causa primaria del naufragio – la decisione dalla quale discende una catena di eventi terribili che hanno provocato la morte di passeggeri innocenti, che avevano pagato per il proprio divertimento e si erano affidati a persone in carne e ossa perché si prendessero cura di loro – risiede dunque solo e soltanto nei peccati capitali, la superficialità, la vanità, la vigliaccheria, che la sera di venerdì 13 gennaio si sono incrociati davanti all’isola del Giglio.

Non ce la meritiamo, noi italiani, la sovrapposizione tra il comportamento del comandante Francesco Schettino e il nostro carattere nazionale. Non è giusto paragonare i suoi tremori, le sue bugie, alla presunta fragilità del sistema Italia. È vero: sull’enorme nave che sperona lo scoglio delle Scole, un transatlantico che entra in un canale d’acqua ad appena 92 metri dal litorale, è mancata una risposta collettiva all’emergenza, come se l’ipotesi dell’affondamento per quel gigante dei mari fosse una eventualità così remota da non dover neppure essere presa in considerazione. Ma anche nelle concitate fasi del salvataggio dei passeggeri ci sono stati gesti e azioni che possono tranquillamente essere considerati come una risposta alle presunte manchevolezze dell’ormai celebre Schettino. Non siamo tutti uguali, non c’è un solo colpevole né un solo eroe. Anche per questo eviteremo di usare termini del genere, categorie di giudizio precostituite. A quello devono pensare e penseranno i giudici.

A noi resta una lezione, un insegnamento. Davanti alla follia e alla stupidità umana ogni sapere, ogni progresso tecnologico diventa inutile. Questa, nel bene e nel male, è una storia di uomini, dei loro piccoli gesti di coraggio, soprattutto delle loro grandi debolezze. Per questo il naufragio della Costa Concordia può essere raccontato anche così. Con una galleria di volti e di azioni, di storie, che forse aiutano a capire, molto più dei dati tecnici, delle coordinate di rotta, dell’esame dei tracciati. Questa è una tragedia degli uomini.

Il capitano Francesco Schettino all’Hotel Bahamas
L’uomo che alle 9.30 di sabato mattina consulta un personal computer appoggiato al banco della reception dell’hotel Bahamas non è ancora famoso in tutto il mondo. Sembra un pulcino bagnato, il comandante Francesco Schettino, anche se i suoi abiti sono asciutti. Ha chiesto un cambio di vestiti ad Antonio Fanciulli, il proprietario dell’albergo, l’unico aperto in questa stagione sull’Isola del Giglio. Fanciulli gli ha dato pantaloni e maglione del figlio. Il capitano ha gli occhi gonfi, è spaventato. Passa dal laptop a una carta nautica turistica, di quelle che si lasciano in consultazione agli ospiti che vogliono scegliere in quale spiaggia passare la giornata. È impegnato in un soliloquio, parla e impreca tra sé, rivolgendosi solo a se stesso.

«Sembrava la secca del Zanneo», mormora a voce leggermente più alta. È l’unica frase che si riesce a comprendere di questo monologo interiore, ma è già un indizio rivelatore. Il comandante non ha la più pallida idea del punto dove ha urtato la sua nave. Perché la secca del Zanneo esiste davvero, ma si trova a 1,5 miglia nautiche più a sud degli scogli delle Scole, sotto Punta Torricella, l’ultimo promontorio prima dell’ingresso nel canale che conduce al porto del Giglio. Il comandante è confuso. Fin dall’inizio sembra un uomo stretto tra la rassegnazione – ha subito compreso l’enormità di quel che è accaduto per colpa sua – e una autodifesa obbligata, quasi l’esercizio dell’istinto di sopravvivenza.

La gente del Giglio
«Lei cosa ci fa qui?». Ci sono domande della gente comune che valgono più di qualsiasi accusa fatta da un magistrato. Franca Caverio era davanti al computer. Abita in una casa affacciata sul porto, ma l’allarme su una nave che stava affondando l’ha ricevuto via Facebook. Si è vestita ed è uscita di corsa, ha raggiunto gli scogli davanti alla Costa Concordia ormai inclinata nella posizione che adesso tutti abbiamo imparato a conoscere. Cerca di aiutare, diventa un anello della catena umana che sta aiutando i passeggeri spaventati che scendono dalle scialuppe.

È Franca ad accogliere a terra il comandante Schettino. Alza lo sguardo verso la nave, si sentono ancora delle urla provenire dallo scafo. «Lei non dovrebbe essere lassù?». E indica la Concordia. I gigliesi sono gente di mare, ne conoscono le leggi. Sanno che il comandante deve essere l’ultimo ad abbandonare la nave. Che si tratti di un peschereccio, o di un gommone da turismo, o di un transatlantico. Prima le donne e i bambini, ultimo il comandante. In quella domanda innocente, pronunciata nella concitazione dei soccorsi – la mobilitazione dei gigliesi che si prodigano nel dare accoglienza ai naufraghi, aprono negozi, svuotano farmacie e dispense per curare e sfamare i passeggeri è una delle pagine più belle di questa storia atroce – c’è la peggior condanna morale che un uomo di mare possa ricevere. C’è già una prima sentenza. Schettino svicola, dice di essere scivolato dal ponte cadendo nella scialuppa. È una bugia, non sarà l’ultima. «Ho bisogno di vestiti asciutti e di un posto dove dormire», aggiunge Schettino. La signora Franca lo fulmina con lo sguardo. Poi gli indica la strada per l’hotel Bahamas. Adesso è nella hall dell’albergo. Non è più solo. Viene circondato da alcuni dirigenti della Costa crociere. «Non parlare con i giornalisti», gli dice una donna bionda, l’avvocato che sarà poi sospettato di aver portato via il personal computer del comandante. Schettino sale nella stanza al primo piano. Scenderà poche ore dopo, per rilasciare una breve dichiarazione ai giornalisti. […]

Nascita di un rito
«Verso le 22.00 ebbi anche l’opportunità di passare davanti al porto del Giglio, rallentare sensibilmente la velocità, transitare molto rasente alla costa e salutare la mia isola. Era la prima volta che una nave così grande, l’ammiraglia della “Costa” e della flotta italiana, passava così vicino e salutava la popolazione accorsa sul molo. Una grande emozione». L’inchino nasce quella sera, primo ottobre 1993.

Il comandante è un uomo dalla memoria di ferro, non dimentica nulla nel suo libro. Racconta ogni episodio fin nel minimo dettaglio. Racconta dei suoi «inchini», di come fossero tollerati dalla compagnia armatrice. A volte l’avvicinamento alla terraferma veniva fatto addirittura su esplicita richiesta dei vertici della Costa Crociere. Sempre il primo ottobre 1993: «Alle 9 si partì per Civitavecchia, dov’era prevista una cena di gala. Avevo espresso la mia contrarietà quando l’allora responsabile dell’ufficio Pippo Costa me lo aveva proposto. Era uno scalo a rischio, la nave per entrare doveva evitare le secche e retrocedere per 600 metri a marcia indietro. Costa mi disse che la nostra entrata nel porto era importante». Palombo ci prova tre volte. La manovra è troppo pericolosa. Ottiene da Genova il permesso di lasciar perdere.

Ma torniamo al Giglio. Venticinque luglio 1996: «Ci avvicinammo lentamente e quando fummo vicinissimi vidi mio padre sulla punta del molo, con il binocolo a tracolla». Soprattutto, 21 novembre 1998, dove si parla dello scoglio diventato celebre in tutto il mondo: «Puntai sulle Scole rallentando gradualmente la velocità… la gente che era alle finestre segnalò la sua presenza accendendo e spegnendo le luci. Fu una bella emozione». Nel 2003 sfiora la Gabbianara, dove oggi è arenata la Concordia. «Passammo vicinissimi. Ovviamente chiesi l’autorizzazione». Ci sono inchini e inchini, questo ormai è chiaro. E non tutti i comandanti sono uguali.

Una leggenda della Costa Crociere
Palombo è un comandante molto fiero della sua storia personale. Parla come un professore del mare, vive in una casa che è quasi un museo a se stesso, alla propria storia. Alle pareti, sulle mensole, ovunque, ci sono foto e ricordi di una vita passata in mare e al centro di tutto c’è sempre lui, in alta uniforme, come se solo quello fosse il vestito nel quale si riconosce. Ha un’alta considerazione di se stesso, per sua stessa ammissione, e il libro che ha scritto spiega bene da dove nasce. Palombo è considerato una leggenda della Costa Crociere. Ha navigato in entrambi i circoli polari, nel 1986, alle Bermuda sferzate dall’uragano Emily, riuscì a salvare il suo transatlantico e le 1.200 persone a bordo. Per lui deve essere terribile vedere le proprie memorie che diventano quasi un corpo del reato destinato a entrare negli atti della Procura.

A chi lo intervista nel suo salotto, due settimane dopo il naufragio, appare soprattutto come un uomo stanco e preoccupato. Incerto sul dire, sul da farsi. La sua versione sulla pratica dell’inchino, ad esempio, differisce molto da quella dei primi giorni. «L’inchino in realtà non esiste, da noi si chiamano passaggi ravvicinati. Sono stati sempre un momento di festa per Costa Crociere, che può averne notevoli ritorni economici. La gente vede la nave, prende nota del nome, magari le viene voglia di salire a bordo per ripetere quell’esperienza dall’altra parte del binocolo. È sempre stato così. Quel passo sul primo passaggio al Giglio riguarda l’inaugurazione della Victoria. Quel giorno avevo a bordo i vertici della compagnia, tutta la famiglia Costa. E nessuno venne a lamentarsi».

Quel libro sconosciuto ai più aiuta a capire molte cose, non solo la pratica dell’inchino. Aiuta a capire la forza del legame di Palombo con Gianni Onorato, direttore generale di Costa Crociere, e la profonda amicizia con Roberto Ferrarini, suo ex ufficiale di bordo e responsabile della centrale operativa di Costa Crociere la sera del naufragio. Quel libro con dentro la sua vita è diventato quasi un manuale per addentrarsi nella rete di rapporti umani che è stata smagliata quella notte. E Palombo, forse contro la sua volontà, è il depositario di qualche segreto su quei 68 minuti, su quel che avvenne a bordo della nave, sul ponte di comando. È al centro di quello scambio di telefonate avvenute durante l’ora di silenzio della nave e di Costa Crociere, è al centro della ragnatela.

[…]

No, non è Clint Eastwood
Non è una specie di Gunny, il militare interpretato da Clint Eastwood tutto asprezza e parolacce. [Gregorio De Falco] È il suo esatto contrario. È un uomo mite, che i suoi commilitoni descrivono come disponibile e silenzioso. Uno a cui capita di piangere. «Mi succede spesso, non credo sia una debolezza, ma un segno di umanità». Lo ha fatto anche quella notte, lacrime di rabbia e ansia per quel che stava succedendo. Ha pianto ancora la mattina seguente, quando ha capito che gli sforzi dei suoi collaboratori non erano bastati a salvare tutti, e nella pancia della nave c’erano ancora delle persone per le quali non c’era più speranza. Nato nel 1964 a Sant’Angelo di Ischia, laureato in giurisprudenza a Milano, accademia navale a Livorno, ha girato l’Italia, da Mazara del Vallo a Genova, prima di diventare, nel 2005, capo della sezione operativa della Capitaneria di Porto livornese, una delle più grandi del Paese. Appassionato di informatica e tecnologia, ossessionato dall’idea di giustizia, volto somigliante a quello di Steve Jobs, almeno secondo l’insindacabile giudizio di sua moglie. Vorrebbe raccontarsi in questo modo, con freddezza da curriculum, e sorvolare su quella telefonata che lo ha reso famoso, risollevando l’orgoglio della Marina ferito dal comportamento di Schettino e anche la malconcia identità nazionale, messa a dura prova di fronte al resto del mondo per le stesse ragioni.

De Falco rifiuta questo ruolo di salvatore morale della patria che gli verrà assegnato nei giorni seguenti. «Io che strillavo con il comandante non sono certo un eroe, pensate piuttosto ai miei ragazzi, a quello che ha visto per primo sul radar che c’era qualcosa che non andava su quella nave, al pilota del nostro elisoccorso, Marco Savastano, che si è calato sulla nave al buio, senza alcuna corda che lo tenesse collegato a chi stava fuori. Si è buttato dentro, per legare alle barelle i feriti più gravi e portarli fuori».