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  • Lunedì 30 gennaio 2012

Generazione Bim Bum Bam

Alessandro Aresu spiega nel suo nuovo libro la funzione di Cristina D'Avena nella formazione degli italiani nati tra il 1975 e il 1990, e il loro "programma politico"

di Alessandro Aresu

Domanda precisa: cosa è successo nel 1981?
Mentre il rapporto tra debito pubblico e PIL italiano è ancora sotto il 60 per cento, Alice vince il Festival di Sanremo. Hosni Mubarak sale al potere in Egitto. MTV lancia le sue trasmissioni negli Stati Uniti. IBM mette in commercio il primo Pc, ma prima era arrivata la Apple. Il cervellone della Apple, Steve Wozniak, sopravvive a un brutto incidente aereo negli Stati Uniti, che Ronald Reagan aveva appena iniziato a governare. Provano ad ammazzare Reagan, che sopravvive, dà la colpa ai comunisti e beve una Coca-Cola.
Provano ad ammazzare il papa, che voleva portare la Coca-Cola dai comunisti. Un cinese occhialuto chiamato Justin Yifu Lin vince un dottorato all’Università di Chicago, dove potrà bere tutta la Coca-Cola che vuole.
Un nonno cinese chiamato Deng Xiaoping, che viene dalla regione del Sichuan, ama i treni e non ha mai visto MTV, assume la carica di presidente della commissione militare centrale del Partito Comunista Cinese. È alto poco meno di un metro e mezzo, poco più di quando era bambino. Un terremoto colpisce il Sichuan, dove abitano i panda giganti, con cui Deng aveva fatto amicizia da bambino.

I cinesi avevano cantato «Lunga vita a Mao Tse-Tung». Ora cantano «Lunga vita a Deng Xiaoping».
Antoine Van Agtmael, economista della Banca mondiale, inventa l’espressione «mercati emergenti». Lo scopo è fare più soldi. Per fare più soldi, Lloyd Blankfein comincia a speculare sulle materie prime nel suo ufficio di Goldman Sachs. Schiacciava i tasti del terminale lamentandosi per il chiasso, e pensava a quanti soldi avrebbe potuto fare in Sichuan. A poche centinaia di metri di distanza il principe Carlo stava sposando Diana Spencer. Grazie alla tv, anche il paese del sangue e del mistero segue il matrimonio del secolo, consolandosi per la morte di Alfredino Rampi.
Il paese del sangue e del mistero scopre la P2. Il suo scopo era fare più soldi, e non solo. Deng Xiaoping non era tra i membri.
Enrico Berlinguer rilascia a Eugenio Scalfari la celebre intervista sulla questione morale. Dice che la colpa è dei democristiani, e non solo. Non parla di Deng Xiaoping.
Giovanni Spadolini forma il primo governo della storia repubblicana guidato da un non democristiano. Garantisce che il festival di Sanremo si terrà regolarmente, e i camion trasporteranno i fiori dalla riviera al teatro Ariston.
Fabrizio Palenzona, democristiano che ama i camion, fonda il primo consorzio italiano di imprese di autotrasporto. Beniamino Andreatta, democristiano che ama studiare, avvia con una lettera a Carlo Azeglio Ciampi il «divorzio» tra il tesoro e la Banca d’italia. Romano Prodi, democristiano che ama i cinesi e i panda giganti, fonda nomisma a Bologna. A Bologna l’orologio resta fermo sulle 10 e 25, ma i treni continuano ad andare e venire per la stazione, senza fare «ciuf ciuf». Carmelo Bene, non democristiano, dedica la sua lettura di Dante ai feriti dell’attentato, a tutti i sopravvissuti.
Quanti bambini, al contrario di Alfredino Rampi, erano feriti ma vivi?

Quanti, esattamente, ascoltavano Dante, sicuri nelle camerette delle pance delle loro mamme?
Quanti erano stati iscritti dai nonni, prima del primo sorso di Coca-Cola, al Partito comunista o alla Democrazia cristiana?
Quanti si sentivano coinvolti dalla questione morale, mentre strabuzzavano gli occhi davanti ai panda giganti, alla Grande Muraglia, al mistero della cina governata da Deng Xiaoping che controllava le nascite?
Quanti erano nati, nel paese del sangue e del mistero, nonostante costassero un po’ di soldi?

Tutti quei bambini, venuti al mondo per caso, per scelta o in treno, avevano uno strano appuntamento con Bologna. In quella città, nel bel mezzo di una mattina grigia del 1981, una giovane donna, giunta da Milano con una valigia piena di schede colorate, avrebbe scoperto la loro voce. La voce di tutti i bambini: la voce di una generazione.
Nel 1981, l’Italia era quindi un paese incerto: il paese del sangue e del mistero. Che cos’è il paese del sangue e del mistero? È il posto in cui Pasolini viene ammazzato, Moro pure, e tutti gli altri, tra attentati e scandali, si consolano ripetendo «mai più» senza troppa convinzione. Poi uno si sveglia, sono passati trent’anni, vede solo i cinesi, i filippini e uno sparuto gruppo di cingalesi. Mentre in tanti seguivano le tracce del mistero Pasolini e del delitto Moro, mentre i cadaveri si accumulavano, così come il debito pubblico, l’italia stava cambiando in un’altra direzione. In quello stesso anno la Nintendo presentava «Donkey Kong», ma nessuno aveva ancora aperto un blog.

Le cose andavano male, anche se nessuno aveva ancora spiegato precisamente quanto nuotavamo nella merda, e non nella Nutella. Tutto era così misterioso, e quando la gente ha paura di morire ammazzata prova a fare finta che nulla sia cambiato, anche se alla stazione di Bologna l’orologio resta immobile sulle 10 e 25. Pasolini era morto, Moro pure, e allora? La storia è una faccenda per i vivi. Per esempio, Cristina D’Avena era viva, nelle sembianze di una diciassettenne degli anni ottanta, che bazzicava ancora per il Piccolo Coro dell’Antoniano, per accompagnare la sua sorellina Clarissa a cantare. In generale, tutti i bambini volevano cantare.
In particolare, tutti i bambini volevano cantare nel Piccolo coro dell’Antoniano. I privilegiatissimi bambini di Bologna potevano farlo sul serio, con topo Gigio, il Mago Zurlì, quella gente lì. E Cristina, che aveva interpretato da bambina Il valzer del moscerino allo Zecchino d’oro, non aveva mai smesso di cantare e non aveva ancora attraversato un periodo punk. Non aveva smesso, nonostante la morte di Pasolini, la morte di Moro, e gli altri complotti e delitti del paese del sangue e del mistero. La gente non smette di cantare perché Moro muore. Forse l’ha detto anche Pasolini, boh. Fatto sta che i feriti continuavano ad andare e venire a bizzeffe per la stazione, nonostante le bombe. E la storia aveva un appuntamento segreto con Cristina, grazie al treno in arrivo da Milano.

Nel 1981, l’Hogwarts Express non era ancora stato inventato, perciò il treno scalcagnato delle ferrovie dello Stato arrivò a Bologna con mezz’ora di ritardo, col suo bagaglio prezioso. Alessandra Valeri Manera era partita da Milano la mattina presto e aveva passato il viaggio a riordinare le schede sui cartoni animati giapponesi che a stento entravano nella sua borsa. Le schede erano fatte di disegni e testi di canzoni. Ogni tanto cadevano giù, tra gli sguardi contriti degli spettatori del treno. Le nonne del treno si ritraevano con indignazione: in un paese serio come il paese del sangue e del mistero, una giovane donna non doveva perdere tempo con robottoni e cagnoloni arruffati. Doveva pensare a fare bambini, mica a fare la bambina. E poi andare dalla parrucchiera. Le nonne del treno la squadravano, e anche il controllore gliel’aveva detto di sottecchi, mentre controllava il biglietto: non si può restare bambini in eterno.

Alessandra Valeri Manera lavorava dalla mattina presto fino a tardi la sera. Chiariamo subito una cosa: il suo lavoro le piaceva. Non conosceva una parola di giapponese, ma aveva capito tutto. Al di là della nazione del sangue e del mistero, dall’altra parte del mondo, c’è una piccola isola affusolata e laboriosa, che si chiama Giappone. Cosa sarà mai l’orologio delle 10 e 25 rispetto a due bombe atomiche? È una domanda precisa che richiede una risposta precisa: i giapponesi sapevano cosa vuol dire ricominciare.

I cartoni non parlavano del miracolo economico nipponico, e nemmeno del probabile sorpasso a danno degli Stati Uniti, della commissione trilaterale, del ritardo della politica rispetto ai miracoli della Sony e della Nintendo. Ma diciamo la verità: in tutti quegli eventi c’era lo zampino dei cartoni animati e delle sigle che i bambini giapponesi, prima di diventare dirigenti della Sony e della Nintendo, cantavano a squarciagola. Nei cartoni animati giapponesi c’era qualcosa di unico, che non poteva essere espresso a parole ma doveva essere cantato: ecco la teoria di Alessandra Valeri Manera. «La gente vuole cantare, e i bambini in particolare» ripeteva, mentre cercava di scendere dal treno, nel freddo di un mattino grigio di città.
A venticinque anni, in quanto responsabile della tv per ragazzi Fininvest, Alessandra saltava sistematicamente i suoi appuntamenti dalla parrucchiera per cercare la voce ideale per le sigle dei cartoni animati, la voce che doveva catalizzare l’attenzione di tutti i bambini del paese del sangue e del mistero. Non è che si possono fare cartoni su Pasolini. Mentre i bolognesi feriti – feriti, ma vivi – lavoravano ignari, nel 1981 avvenne l’incontro che cambiò la storia d’Italia.

Nell’istante in cui Alessandra Valeri Manera immaginò la voce di Cristina D’Avena alle prese con le canzoni che aveva già scritto e con quelle che doveva ancora scrivere, successe qualcosa. Nel paese del sangue e del mistero siamo malati di dietrologia, perciò ci mettiamo in un angolo a collegare tutti gli eventi che caratterizzano una giornata o un secolo, come nel gioco per bambini in cui si uniscono i puntini. Episodi apparentemente isolati diventano gli elementi dello schema che ha reso possibile l’insieme disordinato della nostra vita. Siamo stati bravi, abbiamo collegato i puntini, è divertente.
Per esempio, Alessandra Valeri Manera cammina per la stazione di Bologna; dalla sua borsa di venticinquenne sporgono le schede dei cartoni animati giapponesi. Alessandra Valeri Manera dovrebbe essere costernata per l’orologio immobile sulle 10 e 25, e pensare a Moro, ai Pasolini, ai misteri e ai sepolcri d’Italia. Tutto, attorno a lei, dovrebbe destare una sovrana indignazione. Questa è la normalità. invece, la donna che viene da Milano si chiede: «Cosa ci fa un cinese a Bologna? È così difficile dare risposte precise a domande precise. Che buffo, sembra di essere in un cartone animato. Qualunque cosa accada, la gente vuole cantare. E io vorrei scrivere quelle canzoni».

Giunge un momento, nella vita di una nazione del sangue e del mistero, in cui c’è davvero qualcosa dietro.
«Ciao, io sono Alessandra.»
«Piacere, Cristina.» Cristina aveva 17 anni: era una ragazza o era ancora una bambina? È così difficile dare risposte precise a domande precise. Alessandra pensò che quella voce, per uno scherzo del destino, era davvero la sua voce. L’orologio della stazione di Bologna restava fermo sulle 10 e 25, ma l’incontro tra cristina D’Avena e Alessandra Valeri Manera aveva appena messo in moto una generazione.
Prima della morte di Pasolini e Moro, prima della nascita di Alessandra Valeri Manera e di Cristina D’Avena, e perfino prima della costituzione del Piccolo Coro dell’Antoniano e dello Zecchino d’oro, Walter Benjamin disse la sua sul concetto di generazione:

Nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla Terra (Walter Benjamin, Sul concetto di storia, torino, Einaudi, 1997).

Chiunque può capire di cosa parla Benjamin. A volte la vita ci sembra insulsa, ma prima o poi capita uno di quei momenti in cui guardi qualcuno negli occhi e dici con parole tue «allora noi siamo stati attesi sulla terra». E se non lo dici perché non hai mai letto Walter Benjamin o perché, non senza ragione, pensi di essere ridicolo, perdi un’occasione. Una vita senza «allora noi siamo stati attesi sulla terra» non vale la pena di essere vissuta. Nessun uomo solo può essere felice. Chi è incapace di dire «noi» non può essere redento. Due persone che dicono «noi» sono una coppia; milioni di persone che dicono «noi» costituiscono una generazione.
Il nocciolo dell’incontro tra Cristina D’Avena e Alessandra Valeri Manera nel 1981 si colloca proprio qui: la televisione commerciale, Mubarak, i cartoni animati, «noi siamo stati attesi sulla terra», Deng Xiaoping, l’invenzione di una generazione.

In un certo luogo (per esempio, l’Italia), donne e uomini giovani si confrontano con donne e uomini meno giovani. I meno giovani sanno chi sono: c’è stato un momento della loro vita in cui, con più o meno enfasi, hanno detto «noi», e la loro esistenza, senza per forza finire in una citazione di Walter Benjamin o in un libro di Walter Veltroni, ha ottenuto un riconoscimento collettivo. I più giovani, invece, sono persone alla ricerca dei modi di dire «noi», e tentano di rispondere alla confusione del «mondo vasto e terribile» senza restare invisibili. Questo, a parte Walter Benjamin e Walter Veltroni, è il significato minimo del termine «generazione». La poesia: ci sono voci cui prestiamo ascolto, donne che corteggiamo, appuntamenti segreti. La prosa: un appuntamento reale, nel paese in cui viviamo e da cui pensiamo di scappare. Ma tutti, nessuno escluso, vorrebbero essere stati attesi sulla terra.
Questo libro è il racconto della generazione nata dall’incontro tra Cristina D’Avena e Alessandra Valeri Manera, la «Generazione Bim Bum Bam». Lo scopo di questo libro è chiarire il ruolo della Generazione Bim Bum Bam nella storia recente d’italia, illustrando la prospettiva della Generazione Bim Bum Bam, e quindi restituendo l’italia a chi la abita, altrimenti possiamo tutti cambiare paese, trasferirci in un blog, limitarci a dire «Lunga vita a Deng Xiaoping». La difficoltà di questo libro è far capire che non è uno scherzo: molti dei nostri problemi derivano dal mancato riconoscimento dell’importanza della Generazione Bim Bum Bam. Immersi in questa sottovalutazione, dimentichiamo i sogni e, messi davanti alla realtà, non sappiamo che fare. Ci limitiamo a frignare come bambini, anche se siamo adulti che fingono di essere giovani, e i bambini sono molto più saggi. Ci ritroviamo in un blog a scrivere:

Milano era una città di ***** e i milanesi erano gente di ***** quando me ne sono andato nel 2007. oggi lo sono ancora di più, come tutto il resto d’Italia e quasi tutti gli italiani.

Quando si affrontano questi temi, una certa ambiguità è inevitabile: si gioca e allo stesso tempo si fa sul serio, e non può essere altrimenti. Nel cammino della nazione del sangue e del mistero ci sono due alternative: una è appunto giocare e fare sul serio allo stesso tempo, e l’altra è pensare di essere un popolo di imbecilli e darci degli imbecilli a vicenda. La prima è divertente, la seconda è inutile. Questo libro sceglie la prima strada per sbarazzarsi della seconda. Tuttavia, possiamo dare risposte precise alle domande che incontreremo sulla nostra strada, come richiede Trivial Pursuit, come avveniva nella sezione «Il libro delle curiosità» dell’Enciclopedia per Ragazzi Mondadori e come cerca di fare anche il social network Quora.

Domanda precisa n. 1: Che cos’è questo libro?
Risposta precisa n. 1: È un gioco serio.

Riassumiamo alcune domande e risposte precise che abbiamo già incontrato:

Domanda precisa n. 2: Che cos’è il paese del sangue e del mistero?
Risposta precisa n. 2: È il posto in cui Pasolini viene ammazzato,
Moro pure, e tutti gli altri, tra attentati e scandali, si consolano ripetendo «mai più» senza troppa convinzione. Poi uno si sveglia, sono passati trent’anni, vede solo i cinesi, i filippini, e uno sparuto gruppo di cingalesi.

Domanda precisa n. 3: Perché gli italiani passano il tempo a darsi degli imbecilli a vicenda?
Risposta precisa n. 3: Per via di quello che è successo negli anni Ottanta.

Domanda precisa n. 4: Puoi spiegare bene la faccenda degli anni Ottanta?
Risposta precisa n. 4: A Bologna, nel 1980 c’è stato un terribile attentato e nel 1981 Alessandra Valeri Manera ha incontrato Cristina D’Avena. La gente vuole cantare.

Domanda precisa n. 5: Perché vogliamo sentirci attesi sulla Terra?
Risposta precisa n. 5: Perché, altrimenti, la vita non ha senso.

Domanda precisa n. 6: Che cos’è una generazione?
Risposta precisa n. 6: È sentirsi attesi sulla terra, insieme. Da soli, non vale.

Per l’identità di una generazione, due sono le cose fondamentali: 1) raccontarsi; 2) comunicare con le altre generazioni. Nel mentre, bisogna cantare. Come abbiamo detto, è importante sapere come dire «noi», e questo «noi» deve essere riconosciuto, perché le generazioni, come del resto gli individui, hanno senso solo se sanno rapportarsi con gli altri. Da soli, non vale. Per questo, raccontando una generazione, bisogna indicare i suoi simboli di riferimento e, allo stesso tempo, farli sentire agli altri. Le generazioni sono contemporanee a loro insaputa e non sanno quanto altro male farà loro la solitudine: per questo, è il caso di aiutarle a intrufolarsi le une nelle storie delle altre. Anzi, nelle camerette delle altre, anche se si rischia di fare disordine tra i giocattoli. Un esempio concreto potrà chiarire la posta in gioco.
Prendiamo la sigla di Kiss me Licia: sotto la pioggia, Andrea e il gatto Giuliano incontrano Licia. Per alcuni, Andrea, Giuliano e Licia sono nomi qualsiasi, più o meno graditi, e la pioggia di quel giorno non dà emozioni. Il giorno del loro incontro è un giorno di pioggia come tanti altri. Altri lettori si sentono a casa: paragonano il gatto Giuliano del cartone a quello in pelo e ossa del telefilm, ricordano il colore dei capelli e l’acconciatura di Mirko dei Bee Hive, e si spingono fino ai dialoghi tra Andrea e Marrabbio. Per alcuni il cartone animato Kiss me Licia è parte integrante della vita, per altri non è niente: ecco il ritratto di un paese spaccato. Questa situazione può gettarci nello sconforto. forse è il caso di dimenticare Walter Benjamin una volta per tutte: non esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni. Le diverse generazioni non si incontreranno mai, ognuna di esse vivrà con le sue date salienti, i suoi cantanti preferiti, le sue squadre del cuore. Ogni generazione ripeterà nella sua cameretta chiusa a chiave la formula di rito «formidabili quegli anni», senza mai concedere qualcosa agli anni degli altri. Ogni celebrazione è l’occasione per un nuovo rimpianto: del resto non ci sono più i pomodori di una volta, i calciatori che si chiamano Comunardo o Alberigo, e l’intro di Shine on you crazy diamond è unica. Ribadiamo ancora questo punto: un paese votato al piagnisteo e alla divisione perpetua non potrà mai essere atteso sulla Terra. Nessuno può essere atteso sulla Terra da solo, nella sua cameretta. L’unica via d’uscita è ammettere che l’incontro tra Cristina D’Avena e Alessandra Valeri Manera non appartiene soltanto a una persona o a uno sparuto gruppo di telespettatori. Quell’incontro è un patrimonio collettivo. È tempo di spalancare le nostre camerette e riconoscere la Generazione Bim Bum Bam, perché la posta in gioco è la più elevata che si possa immaginare.

Domanda precisa n. 7: Che cosa succederà se non riconosceremo la Generazione Bim Bum Bam?
Risposta precisa n. 7: L’Italia non ce la farà. Cesserà di esistere.
Domanda precisa n. 8: Che cos’è dunque Bim Bum Bam?
Risposta precisa n. 8: È molto più di un programma televisivo.

Cerchiamo di fare ordine. Esistono i miti fondativi, per esempio l’Eneide. Esistono i programmi televisivi, per esempio Buona Domenica. Bim Bum Bam è entrambe le cose. In questo risiede la sua unicità. Per questo la società italiana, nel suo complesso, deve smettere di agire come se Bim Bum Bam non ci fosse stato, come se la programmazione pomeridiana della tv per ragazzi fosse un aspetto trascurabile dell’esistenza degli esseri umani, o un’anomalia incapace di imprimere una direzione alla transitorietà della transizione italiana che da sempre transita nella sua transitività. Al mito della transizione (una delle scuse italiane per non affrontare i problemi) Bim Bum Bam ha sostituito la possibilità della costruzione. Bim Bum Bam ha contribuito a costruire la generazione che sta decidendo e che sempre più deciderà il futuro dell’Italia. La Generazione Bim Bum Bam non è ancora stata scoperta dai demografi, ma è nata dal basso delle frequenze televisive, si agita nella pancia del paese e nei polpastrelli, nell’Italia profonda e in quella profonda alla superficie. I pomeriggi di Bim Bum Bam non si possono scordare e sono diventati l’ultima possibilità per quel «plebiscito di ogni giorno» (Ernest Renan) che dovrebbe essere una nazione. Se ogni giorno c’è un plebiscito in cui apriamo un blog per affermare plebiscitariamente che l’Italia è un paese di *****, le cose non vanno molto bene.

Bim Bum Bam è un programma delle reti Fininvest (poi Mediaset), andato in onda su Antenna Nord, Italia 1 e Canale 5 per vent’anni, dal 1982 al 2002. Nonostante la durata possa trarre in inganno, ogni paragone col fascismo è improprio. Nella decadenza degli ultimi anni del ventennio, il destino di Bim Bum Bam presenta un’affinità con le vicende delle grandi costruzioni storiche e delle grandi potenze, come per esempio l’impero romano. Nella sua epoca aurea, Bim Bum Bam è stato il centro pulsante della cosiddetta «tv dei ragazzi» di cui Alessandra Valeri Manera, come capostruttura Fininvest e Mediaset per i programmi dei ragazzi, è stata la penna, e di cui Cristina D’Avena è stata la voce. Il loro rapporto, dopo quell’incontro a Bologna nel 1981, si è cementato con centinaia di sigle dei cartoni animati. Formalmente, Bim Bum Bam svolgeva il ruolo di contenitore pomeridiano di cartoni animati.
Alla conduzione si sono alternati, tra gli altri, Paolo Bonolis, Licia Colò, Manuela Blanchard Beillard, Debora Magnaghi, Carlotta Pisoni Brambilla, Carlo Sacchetti, Roberto Ceriotti, Marco Bellavia. Il successo di Paolo Bonolis, diventato uno dei volti più noti della televisione italiana giocando proprio su alcune abilità linguistiche e relazionali sviluppate grazie all’attenzione per il pubblico dei ragazzi, dimostra il ruolo di Bim Bum Bam come palestra di talenti, vera Scuola Superiore Pomeridiana. Bim Bum Bam era nobilitato dagli sketch dei conduttori (tra cui Uanathan dimensione avventura, o BatRoberto, in cui Roberto Ceriotti offriva una sua personale versione di Batman), dall’interazione con alcuni giochi, tra cui «Indovina chi?» e «Sapientino», dallo stretto rapporto con il parco giochi Gardaland, in cui sono state girate alcune delle sigle del programma.

Gardaland, per i bambini, rappresentava il luogo in cui la magia dei cartoni animati poteva diventare realtà. Un altro personaggio fondamentale è il Piccolo Alessandro Gobbi, un bambino suppergiù uguale agli altri che guardavano Bim Bum Bam, con la differenza che lui non si limitava a guardarlo, ma lo conduceva pure.
Questo rendeva Alessandro Gobbi un dio. D’altra parte, in Bim Bum Bam c’erano figure di rango superiore alla divinità. Mi riferisco ai pupazzi, tra cui spicca Uan, un cane rosa pallido con un ciuffo fucsia e una voce inconfondibile. Uan incarnava la rete Italia 1, in un’italianizzazione che ha anticipato il cosiddetto «globish». Non è possibile sottovalutare il ruolo dei pupazzi nella televisione di quegli anni: pensate per esempio al Gabibbo.
Torniamo all’ingiustizia di fondo. La Generazione Bim Bum Bam, la cui onda lunga comprende suppergiù i nati dal 1975 al 1990, non è mai stata considerata a dovere. Non è stata coccolata dai sondaggisti, impegnati con gli indecisi e l’elettorato cattolico. È stata snobbata da Giuseppe De Rita e dal Censis nei suoi rapporti annuali.
Il giornalismo non è esente da colpe. Nel corso degli anni, l’agenda politico-mediatica ha concesso uno spazio spropositato ad amenità come lo straripante voto d’opinione per la Rosa nel Pugno o l’egemonia dei cosiddetti «teodem» nel Partito Democratico o il dibattito élite sì, élite no, élite forse, élite di merda. Tutte queste stupidaggini non hanno nulla a che fare con la sopravvivenza dell’Italia e con le più importanti questioni strategiche della nostra epoca, al contrario di Bim Bum Bam. Anche perché la gente non è che pensa alla Rosa nel Pugno: pensa alle canzoni, e canticchia.

C’è un aspetto che vale la pena di sottolineare, legato alla Risposta precisa n. 7 alla Domanda precisa n. 7: la Generazione Bim Bum Bam, tuttora, non riesce a dire «noi», e rischia di restare muta. È un triste paradosso, ma la generazione rappresentata dalla voce di Cristina D’Avena non ha una voce. Le altre generazioni non sembrano ansiose di farsi carico di questo problema, con buona pace di Walter Benjamin e dell’appuntamento misterioso. I nati dal 1975 al 1990 hanno avuto pochissimo dall’Italia e avranno ancora meno nei prossimi anni. Come vedremo in seguito, le cose non stanno andando molto bene per la nazione del sangue e del mistero, e nessuno riesce a spiegare perché senza mettersi a litigare con qualcun altro.

I nostri sogni si sono scontrati con la realtà di un paese ostile, intento a coprire con un «largo ai giovani» le proprie lacune culturali sul ventennio di Bim Bum Bam e chiamare tutti i membri della «Generazione Bim Bum Bam» ragazzi. Solo perché hanno seguito la «tv dei ragazzi», essi sono ragazzi per sempre. Questa è una presa in giro. non esistono ragazzi di 30 anni. A chi li chiama ragazzi, i membri della Generazione Bim Bum Bam dovrebbero rispondere con la battuta immortale del gufo Anacleto nella Spada nella roccia, doppiato da Lauro Gazzolo: «ragazzo? ragazzo? non vedo nessun ragazzo». Il fenomeno della marginalizzazione della Generazione Bim Bum Bam, come approfondiremo in seguito, è legato anche a fattori demografici. Le cose sono destinate a peggiorare: nel 2020 i venti-trentenni (fascia di età tra 20 e 39 anni) verranno per la prima volta nella storia d’italia superati dai cinquanta-sessantenni (fascia di età tra i 50 e i 69 anni), senza che nella seconda fascia siano presenti esponenti della Generazione Bim Bum Bam.

Stiamo ai fatti: tutti i risultati che la Generazione Bim Bum Bam ha ottenuto sono inadeguati, perché non è mai stata riconosciuta. Il successo di Paolo «Piolo» Bonolis non ci ha mai appagato fino in fondo. Che ne è stato di Batroberto? Non sarà mica andato anche lui in Cina? E perché Uan non ha mai avuto un programma tutto suo? Nel corso degli anni, queste erano le domande che la Generazione Bim Bum Bam si poneva, osservando le evoluzioni del sistema radiotelevisivo e del sistema politico. La Generazione Bim Bum Bam ha sempre pensato che i grandi debbano ascoltare i bambini. Ora si tratta di realizzare il cambiamento, passando dai pensieri all’azione. Non dobbiamo ascoltare i pessimisti, secondo i quali ormai siamo fuori tempo massimo e peggio di noi solo Haiti. Bim Bum Bam può ricominciare, anche adesso, in mezzo ai cinesi. Non per una sterile nostalgia, ma perché ne abbiamo bisogno. Tutti abbiamo bisogno del Giappone, anche se non sappiamo il giapponese.

Domanda precisa n. 9: Perché i grandi dovrebbero stare a sentire i bambini?
Risposta precisa n. 9: Perché i grandi non si sentiranno mai attesi sulla terra, senza i bambini.
Domanda precisa n. 10: Se Bim Bum Bam è finito, come facciamo a riprendere il suo spirito?
Risposta precisa n. 10: Attraverso Internet.

Internet è la chiave per far sentire la Generazione Bim Bum Bam attesa sulla terra, una volta per tutte. Grazie a internet, possiamo riguardare all’infinito le sigle dei cartoni animati. Ogni persona in grado di collegarsi a YouTube può avere un’idea degli effetti del sodalizio di Alessandra Valeri Manera e Cristina D’Avena. Stiamo parlando di un patrimonio enorme, di cui fanno parte, tra gli altri: I Puffi, Lady Oscar, Hello Spank, Il Tulipano Nero, C’era una volta Pollon, L’incantevole Creamy, Kiss me Licia, Occhi di gatto, David gnomo amico mio, Memole dolce Memole, Mila e Shiro due cuori nella pallavolo, Holly e Benji, È quasi magia Johnny, Ti voglio bene Denver, Il mistero della pietra azzurra, Gemelli nel segno del destino, Sailor Moon, Piccoli problemi di cuore.

Domanda precisa n. 11: Questo è un elenco di cartoni animati giapponesi. Cosa diavolo c’entra la politica?
Risposta precisa n. 11: Entrambe sono avventure collettive. Come del resto il Giappone.
Domanda precisa n. 12: Quindi parlare di politica significa fare gli interessi della Generazione Bim Bum Bam?
Risposta precisa n. 12: No, perché una generazione non è un partito: è un popolo.

Il patrimonio enorme sopra citato va analizzato con attenzione, per capire la distinzione tra partito e popolo. La Generazione Bim Bum Bam è un popolo più numeroso del popolo delle primarie, dei popoli delle manifestazioni, delle libertà e di tutto il resto. We the people. Un partito sa di rappresentare una parte della nazione. In questa capacità di andare oltre, un popolo deve saper riconoscere i propri limiti, e per questa capacità inedita in Italia la Generazione Bim Bum Bam è l’unica speranza. La nostra analisi, partita dalla ferrea legge della demografia, può proseguire grazie ai numeri. Per esempio il numero di fan su Facebook di C’era una volta Pollon, Occhi di gatto, Mila e Shiro due cuori nella pallavolo, Holly e Benji: circa mezzo milione, per ognuno di questi cartoni animati. I cartoni animati, difatti, sono per loro natura popolari. Su Youtube, i membri della Generazione Bim Bum Bam si incontrano, nelle loro camerette socchiuse, e mettono in comune il loro patrimonio generazionale. Come può verificare chiunque, la stragrande maggioranza dei commenti alle sigle cantate da Cristina D’Avena e scritte da Alessandra Valeri Manera sono entusiastici. Ascoltiamo il famoso Paese reale:

Mi dispiace solo per i bambini di adesso… cosa si sono persi! (commento alla sigla di Bim Bum Bam).

Io sono dell’89 e posso dirvi che risentire queste sigle mi mette tanta nostalgia e piango… sniff sniff… sono cartoni memorabili ke hanno fatto della mia infanzia una cosa unica al mondo… e poi lady oscar con la love story di André e oscar… insomma è uno dei miei cartoni preferiti in assoluto… insieme a quelli con cui sono cresciuta… grazie x la sigla… (commento a Lady Oscar).

Ho dedicato alla mia macchina il nome di Creamy. ogni volta che aveva un guasto che non mi sapevo spiegare dicevo parin pam pù e subito dopo, la macchina riprendeva vita. allora l’ho chiamata Creamy, dopo mai più problemi (commento all’Incantevole Creamy).

Tra i primi ricordi della mia vita prima delle elementari ho presente un giorno in cui, appena finito un episodio di Robin Hood, dovevamo uscire con i miei e loro mi hanno spento la televisione prima che la sigla fosse finita… Ancora ho presente i pianti e la sofferenza provata in quel momento!!!! ne andavo letteralmente PAZZA!!! (commento a Robin Hood).

Joooooohnny è quasi magia Joooohnny io provo e riprovo Joooohnny ma non ci riesco proprio mai!! Mamma mia ho 20 anni e sono qui a cantarla come se ne avessi per 2 minuti di nuovo 8!! (commento a È quasi magia Johnny).

Guardo questo video e penso: “che merda che è stata la mia vita negli ultimi 10 anni… quanto ero felice all’epoca” (commento al Mistero della pietra azzurra).

Anche da questi commenti, è facile individuare i due rischi principali per la Generazione Bim Bum Bam e per il suo programma politico: a) la nostalgia e b) la divisione.
Il rischio della nostalgia sterile è sempre dietro l’angolo. La nostalgia, in ultima analisi, è una variante del piagnisteo. Sostenere che non esistono più i cartoni animati di una volta non basta. Sostenere che i bambini di oggi sono meno fortunati dei bambini di ieri non basta. Piangere non basta. Bisogna sempre fare qualcosa.
La divisione è un altro male incurabile, perché ritarda il momento in cui ci si sentirà, finalmente, attesi sulla terra. Se la Generazione Bim Bum Bam si perderà nelle sue divisioni, fallirà l’obiettivo fondamentale: diventerà il solito partito, magari raccontando, con disonestà, di essere un popolo. Le divisioni sterili sono il male dei popoli. Come si può rinnovare il «plebiscito di ogni giorno» con cui decidiamo di stare insieme se siamo sempre divisi? Ma le divisioni esistono. Per esempio, le divisioni tra i fan di cartoni animati giapponesi in lingua originale e i fan dei doppiatori. Per esempio, le divisioni tra gli adepti di Piolo Bonolis negli anni ottanta e quelli che rivendicano il ruolo del Piccolo Alessandro Gobbi negli anni novanta. Per esempio, le divisioni tra i bambini degli anni novanta e il Movimento italiano genitori (MoiGE). Cominciamo ad ammettere qualche verità scomoda: se qualcuno crede di poter cambiare qualcosa in Italia mettendo d’accordo i fan dei cartoni animati giapponesi in lingua originale e il MoiGE si sbaglia. Questo non accadrà mai. Il potere della divisione può essere terribile.

In un momento critico per la storia del nostro paese, Bim Bum Bam deve allargare la coalizione a cartoni animati trasmessi da altre reti (tra cui capolavori come I cavalieri dello zodiaco e Conan il ragazzo del futuro, di cui parleremo in seguito), e ad altri momenti della cultura popolare televisiva di quegli anni. Insomma, l’incontro tra Alessandra Valeri Manera e Cristina D’Avena rimane il motore della Generazione Bim Bum Bam, ma non basta. Forse c’era di mezzo qualcun altro.

Domanda precisa n. 13: Ehi, chi era il datore di lavoro di Alessandra Valeri Manera?
Risposta precisa n. 13: Silvio Berlusconi.

È uscito per Mondadori Generazione Bim Bum Bam, di Alessandro Aresu, che racconta la generazione nata tra il 1975 e il 1990.
Aresu è nato a Cagliari nel 1983. Oltre a
Generazione Bim Bum Bam ha scritto anche Filosofia della navigazione, e ha curato con Matteo Scurati il libro di Guido Rossi Perché filosofia. Scrive per La Nuova Sardegna e per Limes, ed è tra gli autori del sito Lo spazio della politica.