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  • Venerdì 27 gennaio 2012

Zigulì, un libro e un figlio “in sequenza casuale”

La storia di Moreno, bambino handicappato, e di suo padre: che le racconta con poche reticenze, "con parole che di solito non si dicono"

Zigulì è il titolo di un libro pubblicato all’inizio dell’anno da Mondadori: lo ha scritto un sociologo milanese, Massimiliano Verga, per raccontare della sua esperienza di padre di un bambino con un grave handicap cerebrale sviluppato pochi giorni dopo la nascita, e che oggi ha otto anni. È un libro “forte” non solo per il contenuto, ma anche per l’approccio sincero e senza reticenze – “con parole che di solito non si dicono”, ha scritto qualcuno – con cui il padre racconta le sue sensazioni e il modo con cui vive questa esperienza. Approccio che è stato già criticato e discusso, oltre che apprezzato (stasera Verga sarà alle Invasioni barbariche, sulla 7). Queste sono le pagine iniziali del libro e il trailer prodotto da Mondadori.

Il cervello di Moreno è grande come una Zigulì. Quando ero bambino, mi piacevano molto quelle caramelle. Si diceva che fossero caramelle «sane». Ancora oggi le vendono in farmacia e nei supermercati, perché si vede che le mamme continuano a essere contente di fare del bene ai loro figli.
Il cervello di Moreno mi piace un po’ meno. A volte penso che sarebbe bello poterlo mangiare, proprio come una caramella. Ma se potessi farlo, non vorrei sentirne il gusto. Lo manderei giù come una pastiglia per il mal di testa, con un po’ d’acqua. Così sparirebbe del tutto e non ci penserei più. Ecco perché parlerò poco di Jacopo e Cosimo, i fratelli di Moreno. Soltanto lui ha una Zigulì nella testa. Gli altri due hanno un cervello più grande, anche se fanno di tutto per non farlo notare.
Il succo di quanto dirò è che sono, forse, un buon padre nelle intenzioni, ma non ancora per i miei bambini. Certamente non sono un buon papà per Moreno, anche se in giro c’è di peggio.
Se Moreno potesse leggere o capire quello che ho scritto, avrebbe tutto il diritto di incazzarsi con me. Ma, per mia fortuna, non può leggere, perché è cieco. E neppure capire, perché la Zigulì che ha sotto i capelli gli consente di riconoscere soltanto le tre parole che servono per sopravvivere: pappa, acqua, nanna. Meglio se ripetute più volte.
Insomma, uno dei vantaggi di avere un figlio handicappato è che puoi permetterti di essere un idiota e di trattarlo anche male. E io mi concedo spesso questo vizio.
L’ordine degli epitaffi risponde unicamente a un’esigenza di editing. Anche per scriverli ho dovuto seguire la regola «dell’uno dopo l’altro». Ma così come dalla mia testa sono venuti fuori tutti in una volta, allo stesso modo dovrebbero essere idealmente letti. Perché, come si dice, occorre dare un senso alle cose.
Quindi, per ridurre il caos, a ogni epitaffio ho attribuito un titolo, e poi li ho messi in fila facendo finta di giocare a tombola. Questo libro è perciò il risultato di una sequenza casuale, proprio come l’arrivo di un figlio handicappato.
A essere sincero, non sono tanto contento della sequenza che ne è uscita. Ma ogni tanto capita che il numero estratto non sia quello che desideravi. Magari t’incazzi, ma non puoi più rimetterlo nel sacchetto.
dicembre 2011
M.V.

la diagnosi
Che cosa è successo a tuo figlio? Che cos’ha? La risposta dovrebbe essere la diagnosi. Ma non sempre puoi conoscerla, anche perché non è detto che, anche volendo, i medici siano in grado di formularla.
Quando Moreno è uscito dall’ospedale, non mi hanno spiegato perché oggi è così. E dopo otto anni, ancora non lo so. Per dirla tutta, non hanno beccato nemmeno il problema della vista. Ci hanno preso soltanto sul fatto che ha un cervello grosso come una biglia e che è epilettico. Sul fatto che non potesse muoversi hanno invece preso una cantonata, perché Moreno cammina.
Ma ho capito l’utilità della diagnosi. Serve per le pratiche burocratiche. Anche se fasulla o incompleta, la diagnosi ti consente di avere la pensione d’invalidità e, gratis, i pannolini e la tessera del tram. Diciamo che non è del tutto inutile.
Però, la diagnosi non mi restituisce il futuro che mi è stato rubato. E, in fin dei conti, comincio a pensare che sia un falso problema. Perché il mondo reale non cambia. E comunque non è migliore per il solo fatto che qualcuno mi dice che cosa è successo.
Il quadro clinico è il mondo reale, non quello diagnostico. E il quadro clinico mi dice che Moreno è handicappato.

tua madre
Non sono un ragazzo padre ed è chiaro che Moreno non l’ho fatto da solo. Del resto, se conoscessi il modo per fare un figlio da solo, saprei anche come sostituire la biglia nella testa di Moreno e non starei qui a metterla giù tanto lunga. Potrei perfino occuparmi delle menate degli altri, a titolo di passatempo.
Ma non sono io quello che risponde al citofono dei miracoli.
Da me ci si aspetta, forse, che parli anche della mamma di Moreno. E sono certo che, a molti, il mio silenzio risulterà assordante. A lei stessa, anzitutto.
Credo che Francesca possa capire meglio di chiunque altro le mie parole, perché non sono il solo a ricordare i primi anni con Moreno. Anzi, penso che, in altro modo, molte lei le abbia già pronunciate, sottovoce o urlando, magari nelle orecchie di chi non ha saputo ascoltarle.
Ma ho sempre usato poco volentieri il plurale dei verbi. E anche adesso preferisco prendere in prestito soltanto due occhi, i miei. Non per nascondere il ruolo che Francesca ha avuto con Moreno in questi anni. E nemmeno per non riconoscere che entrambi abbiamo un futuro da condividere, anche se non viviamo più nella stessa casa. Più semplicemente, perché penso che condividere un figlio,
non soltanto Moreno, non significhi anche condividere fino in fondo le emozioni che nascono dal rapporto con lui. Le emozioni possono essere condivise, nel migliore dei casi, soltanto nel racconto che si illude di tradurle. Ma è impossibile andare oltre.
Due genitori possono condividere molti aspetti della loro vita con i figli. Anzi, è auspicabile che sia sempre così, altrimenti è un casino. Per i figli, intendo. Ma la corrente ha sempre una tensione diversa. E le parole sono vuote di fronte all’intima essenza di quelle emozioni, che è sempre personale. Mia, sua. Mai nostra.
Non è una questione di meglio o di peggio. E non c’entra nulla essere il padre o la madre. È che quando zoppichi con Moreno al parco-giochi, che sia rabbia o gioia, quel fuoco lo accendi o lo spegni soltanto da solo.

pari opportunità
Per una riflessione in tema di handicap, occorre sempre partire da due concetti fondamentali: quello di «pari opportunità» e quello di «integrazione». Seguono, in ordine di importanza: la rava e la fava, la Niña, la Pinta e la Santa Maria.

il dolore
Non esiste un metro per misurare il dolore. Ma abbiamo la necessità di quantificarlo, perché ci aiuta a raccontarlo e a condividerlo.
Anche l’idea di condividerlo è, però, un’illusione: il dolore non si può condividere davvero, fino in fondo. Un pezzetto resta sempre dentro di noi, non c’è modo di farlo uscire.
Mi capita spesso di parlare con altri genitori di figli disabili. Ma pure con loro non riesco ad aprire del tutto la ferita. Un po’, perché sono geloso anche del mio dolore. E un po’ perché, se li mettiamo sulla bilancia, uno dei due figli è sempre più handicappato dell’altro.

il modello sedia a rotelle
Regola numero 1: su ogni sedia a rotelle che incontriamo c’è una persona diversa.
Regola numero 2: per strada, i disabili sono più delle sedie a rotelle che vediamo.

ventiquattro ore
Mi risulta che le giornate siano fatte di ventiquattro ore per tutti. Però, ogni tanto, mi chiedo come mai le mie sono sempre più brevi o più lunghe, a seconda di come gira.

bistrot «Il Sole»
Enrico è stato il mio primo lettore. Mi sembrava la persona più adatta a farlo. Se non altro, perché ci tocca condividere due dolori enormi: entrambi abbiamo un figlio handicappato e tutti e due siamo fottutamente interisti.
Da quando lo conosco, il mio repertorio di parolacce è più ricco, e ascolto musica che prima non conoscevo.
A lui devo anche l’idea che, non potendo fare a meno di essere incazzati, tanto vale prendersi per il culo come si deve. In compenso, Enrico mi deve ancora quella birra che mi ha promesso tre anni fa. Ma non me la meno più di tanto. Perché non è la memoria che gli manca, ma soltanto il tempo di berla con me. E, a differenza di altri, io capisco che si
possa aspettare tanto, anche per una birra.
Perché quando hai un figlio handicappato, ti viene quasi
sempre concesso di non ricordare le cose, ma quasi nessuno accetta che tu possa essere anche pigro.