Le dieci canzoni più belle di Ivano Fossati

Un ripasso delle sue cose migliori, nel giorno ufficiale del suo pensionamento con la puntata speciale di Che tempo che fa su Rai 3

Ivano Fossati aveva annunciato a ottobre, durante una puntata di Che tempo che fa, che avrebbe smesso di fare dischi. Stasera va in onda su Rai 3, con uno speciale dello stesso programma ricco di ospiti, il suo addio ufficiale alla musica, come lui stesso l’ha definito.
Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, aveva elencato nel suo libro Playlist
le dieci canzoni più belle del cantautore.
Ivano Fossati (1951, Genova)
Ivano Fossati ha una storia simile a quella di Paolo Conte, un decennio dopo. Prima autore di grandi canzoni per altri interpreti, poi cantautore idolatrato dallo stesso pubblico di Conte, e con una simile inclinazione intellettuale e schiva. Lui aggiunge al curriculum l’aver sbancato a inizio carriera con un pezzo anomalo ed eccitato come “La mia banda suona il rock”.

Di tanto amore
(La mia banda suona il rock, 1979)
“E magari morirò, di tanto amore”. Bellissimo primo verso. Lo si potrebbe migliorare solo così: “E magari morirò, di tanto amore. Magari no”. Fossati lo fece, avvedutamente. La mia banda suona il rock è il più bel disco di Fossati, in cui la canzone più celebre non è neanche la migliore. Da allora in poi, si è limitato a guadagnarsi una stima adeguata alle cose che sapeva fare già da tempo: “perché so, perché lo so: di tanto amore morirò”.

Vola
(La mia banda suona il rock, 1979)
“Vola” è più famosa nella versione di Mia Martini, per cui era stata scritta. Dapprima la casa discografica la girò a Patty Pravo, ma il rischio fu scongiurato. Cantata da Fossati è forse meno sofferta e appassionata ma questo le dà anche maggior equilibrio. Senti come canta “nessuno mi ha invitato alla sua festa”.

E di nuovo cambio casa
(La mia banda suona il rock, 1979)
“E di nuovo cambio casa” è bellissima, per come suona, ma anche perché i propositi di distrarsi, ricominciare, farsela passare sono da subito palesemente in contraddizione col tono in cui lui li canta: è chiaro che non ce la farà mai. E infatti “e gira gira e gira gira si torna ancora in primavera e mi trova che non ho concluso niente”.

La costruzione di un amore
(Panama e dintorni, 1981)
Spezza le vene delle mani. La più amata canzone di Fossati, capolavoro di poesia vera, con una sensazionale e aerea apertura nel ritornello (ma chiamarlo ritornello è riduttivo): “E intanto guardo questo amore che si fa più vicino al cielo, come se dopo tanto amore bastasse ancora il cielo”. Dopo la ricanterà ancora in La pianta del tè.

Le signore del ponte-lance
(La pianta del tè, 1988)
Due minuti e poco più di melodia nautica, con tanto di versi in francese. Leziosa e da crociera come Novecento di Baricco e altrettanto infallibile.

Italiani d’Argentina
(Discanto, 1990)
“Abbiamo l’aria di italiani d’Argentina” riprende l’idea della faccia un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova. E gli uni e gli altri si somigliano, in effetti. “E abbiamo piste infinite negli aeroporti d’Argentina”. Che “Argentina” suoni benissimo in una canzone – meglio di “Uruguay”, ma anche di “Brasile” – lo si sapeva dai tempi di “Don’t cry for me Argentina”. “Che la distanza è grande, la memoria cattiva e vicina, e nessun tango mai più ci piacerà”.

Il disertore
(Lindbergh, 1992)
Una lettera di renitenza alla leva, un testo pacifista di Boris Vian (tradotto da Giorgio Calabrese), un Piero che rifiuta di sparare molto prima di quello della guerra di Piero, e opportunamente: prima che sia troppo tardi. Fossati la canta con una partecipazione agguerrita (ops!) – “per cui se servirà del sangue ad ogni costo, andate a dare il vostro” – degna di certi francesi degli anni Settanta.

Naviganti
(Dal vivo vol.1, 1993)
“Siamo stati naviganti con l’acqua alla gola e in tutto questo bell’andare quello che ci consola è che siamo stati lontani e siamo stati anche bene e siamo stati vicini e siamo stati insieme”. La più bella poesia di Fossati, e metteteci il modo con cui la dice (non la recita, la dice). “Grandi corridori di corse in salita che alzavano la testa dal manubrio per vedere se fosse finita, allenati alla corsa, allenati alla gara, e preparati a cadere e a tutto quello che s’impara”. “Ma ora è il momento di mettersi a dormire, lasciando scivolare il libro che ci ha aiutati a capire che basta un filo di vento per venirci a guidare, perché siamo naviganti senza navigare mai”.

C’è tempo
(Lampo viaggiatore, 2003)
L’inimitabile elencazione dei tempi per ogni cosa, ripresa poi in mille e mille occasioni, risale al Salomone biblico, nell’Ecclesiaste. Fossati la declina in piccolo, trascura guerre e stagioni, e parla d’amore e di tram.

Il bacio sulla bocca
(Lampo viaggiatore, 2003)
Un valzer. “La mia sola canzone d’amore che finisce bene”, pare abbia detto lui una volta.