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  • Lunedì 23 gennaio 2012

Perché Napster aveva ragione

Lo spiegano Michele Boldrin e David K. Levine nel libro Abolire la proprietà intellettuale

di Michele Boldrin e David K. Levine

LONDON - OCTOBER 9: The Napster website is seen on a computer screen October 9, 2003 in London, England. Falling sales of CD's and the relaunch of online music swapshop 'Napster' have forced retailers to slash their prices. (Photo by Scott Barbour/Getty Images)
LONDON - OCTOBER 9: The Napster website is seen on a computer screen October 9, 2003 in London, England. Falling sales of CD's and the relaunch of online music swapshop 'Napster' have forced retailers to slash their prices. (Photo by Scott Barbour/Getty Images)

Verso la fine del 1764, mentre si dedicava alla riparazione di una piccola macchina a vapore del tipo Newcomen, James Watt ebbe l’idea di permettere al vapore di espandersi e condensarsi in contenitori separati. Fino a quel momento tutte le macchine a vapore avevano effettuato queste due opposte operazioni nel medesimo contenitore con evidente spreco d’energia. Watt trascorse i mesi seguenti lavorando incessantemente alla costruzione di un nuovo modello di macchina a vapore che incorporasse tale principio: nel 1768, dopo aver ottenuto parecchi miglioramenti ed essersi per questo considerevolmente indebitato, si recò a Londra per presentare la sua domanda per brevettare il principio del condensatore separato. La faccenda non risultò per nulla semplice e Watt spese i sei mesi successivi a ungere gli ingranaggi del meccanismo amministrativo che avrebbe dovuto concedergli l’agognato brevetto; brevetto che riuscì ad avere solo nel gennaio dell’anno successivo. Una volta ottenuto, non se ne fece più nulla, nel senso letterale della parola: dal 1768 al 1775 James Watt non produsse una sola macchina a vapore che incorporasse la sua idea mettendo a frutto il brevetto così faticosamente conquistato.

Finalmente, nel 1775, grazie alle relazioni politiche del suo nuovo socio in affari – il ricco industriale Matthew Boulton – Watt si assicurò una legge del Parlamento che estendeva il suo brevetto fino all’anno 1800.
Assicurati i brevetti e iniziata la produzione (che tale non fu, come vedremo più avanti), Watt dedicò gran parte delle sue energie a combattere gli inventori rivali. Nel 1782 si assicurò un altro brevetto, reso «necessario come conseguenza […]. dell’essere stato così ingiustamente anticipato da [Matthew] Wasborough nel movimento a pedale». Nell’ultimo decennio del secolo, quando il motore di Hornblower, nettamente superiore a quello di Watt, venne messo in produzione, Boulton e Watt perseguirono Hornblower con tutti gli strumenti che il sistema legale metteva a loro disposizione.

Durante i trentuno anni di validità dei brevetti di Watt, il Regno Unito aggiunse al proprio stock di macchine a vapore un totale di circa 750 cavalli di potenza: una cifra oggi risibile, ma all’epoca davvero considerevole. Nondimeno, nei trent’anni successivi alla scadenza dei brevetti di Watt, la potenza installata crebbe al ritmo di più di 4.000 cavalli all’anno. Inoltre, l’efficienza delle macchine a vapore nell’utilizzo del materiale combustibile cambiò assai poco durante il periodo di validità dei brevetti di Watt, mentre tra il 1810 e il 1835 si stima che sia aumentata di cinque volte.
Dopo la scadenza dei brevetti di Watt si registrò un’esplosione nella produzione e nell’efficienza dei motori a vapore; la potenza da essi generata divenne la forza trainante della Rivoluzione industriale.

Nell’arco di trent’anni le macchine a vapore vennero enormemente migliorate e cominciarono a essere usate innovazioni cruciali quali la locomotiva a vapore, la nave a vapore e il filatoio intermittente. L’innovazione chiave fu la macchina a vapore ad alta pressione, il cui sviluppo era stato bloccato dall’uso che Watt aveva fatto dei propri brevetti. Molti nuovi miglioramenti apportati alla macchina a vapore – per esempio quelli di William Bull, Richard Trevithick e Arthur Woolf – infatti divennero utilizzabili solo dopo la scadenza del brevetto di Boulton e Watt, e più precisamente tra il 1800 e il 1804. Anche se sviluppate in anni precedenti, queste innovazioni restarono inattive fino alla scadenza dei brevetti di Watt e Boulton.

Per ironia della sorte, Watt non solo usò il sistema dei brevetti come randello legale con il quale demolire la competizione, ma i suoi sforzi per mettere a punto una macchina migliore vennero intralciati dal sistema stesso dei brevetti. Una limitazione importante del motore Newcomen originale consisteva nella sua incapacità di fornire un moto rotatorio costante. La soluzione più conveniente, che implicava l’uso combinato di un pedale e di un volano, si basava su un metodo brevettato da James Pickard, il che impedì a Watt di poterne fare uso. Watt fece vari tentativi per trasformare in modo efficace il moto verticale in moto rotatorio, arrivando apparentemente alla stessa soluzione di Pickard; tuttavia l’esistenza di un brevetto lo costrinse a escogitare un dispositivo meccanico alternativo, molto meno efficiente, che egli chiamò «ingranaggio planetario».

Fu solo nel 1794, dopo la scadenza del brevetto di Pickard, che Boulton e Watt poterono adottare anche per le proprie macchine il pedale e il volano, soluzione decisamente migliore sia sul piano tecnico sia sul piano economico, ma resa inaccessibile, fino ad allora, proprio da un brevetto. Anche l’impatto economico che la scadenza dei brevetti ebbe sull’impero di Boulton e Watt merita attenzione. Come c’era da aspettarsi, alla scadenza dei brevetti vennero messe in piedi molte aziende per fabbricare macchine a vapore basate sul principio di Watt. La maggior parte dei concorrenti, però, puntava principalmente all’economicità piuttosto che alla superiorità tecnologica: di conseguenza, anziché fallire a causa della concorrenza, «Boulton e Watt per molti anni a venire mantennero i loro prezzi alti e incrementarono gli ordini» (e con essi i profitti).Infatti, è solo dopo la scadenza del loro brevetto che Boulton e Watt cominciarono effettivamente a fabbricare macchine a vapore.

Prima di allora, l’attività di entrambi consisteva nell’ottenere robuste rendite monopolistiche attraverso il rilascio di licenze per la costruzione e l’utilizzo, da parte di altri, di macchine a vapore dotate di un condensatore separato. Appaltatori indipendenti producevano la maggior parte dei pezzi, mentre Boulton e Watt si limitavano a sorvegliare il montaggio delle varie componenti da parte dei committenti. In quasi tutti i libri di storia, James Watt è descritto come un eroico inventore, il cui genio diede il via alla Rivoluzione industriale. I fatti suggeriscono un’interpretazione alternativa: Watt rappresenta uno dei tanti ingegnosi inventori che contribuirono al miglioramento della macchina a vapore durante la seconda metà del Settecento.

Meglio: fatti alla mano, le nostre pur scarse conoscenze ingegneristiche ci fanno ritenere che egli fosse probabilmente il più capace e dotato fra le tante persone che si dedicarono a questo obiettivo durante il mezzo secolo che va dal 1760 al 1810. Dopo aver superato, con una brillante idea, gli altri inventori, rimase in vantaggio non tanto perché continuò a produrre innovazioni superiori a quelle dei suoi concorrenti, ma a causa di un migliore utilizzo del sistema legale. Il fatto che il suo socio in affari fosse una persona facoltosa con salde relazioni in Parlamento fu un aiuto non secondario in questa impresa redditizia.

Il brevetto di Watt fu un incentivo necessario a innescare il suo genio creativo che altrimenti, come suggerisce la storia tradizionale, sarebbe rimasto sopito? O, piuttosto, non è il caso di pensare che la sua particolare innovazione sarebbe (e, di fatto, è) arrivata alla sua mente (o a quella di qualcun altro in sua assenza) indipendentemente dalla prospettiva di ottenere un brevetto di così lunga durata? Non suggeriscono, forse, i fatti che l’uso che Watt fece del sistema legale per inibire le imitazioni e la concorrenza rallentò la Rivoluzione industriale di un paio di decenni?

Queste domande, che sorgono spontanee dopo aver studiato il caso di James Watt, si traducono in quesiti più generali quando si allarga lo sguardo alle migliaia di altre innovazioni che, nel corso della storia umana, si sono venute accumulando. Le due componenti basilari del nostro sistema di proprietà intellettuale – brevetti e copyright –, nonostante i loro numerosi difetti, rappresentano forse un male necessario da sopportare per godere dei frutti della creatività umana? Oppure, brevetti e copyright sono solo un male inutile, reliquie di un tempo andato in cui i governi, per consuetudine, concedevano monopòli per favorire i cortigiani e raccogliere denaro? Questi i dubbi a cui cerchiamo di rispondere in questo libro.

Vale la pena osservare, per tornare all’esempio di Watt, come il suo talento creativo fosse mal investito: nel leggere la sua biografia si scopre che passava più tempo in azioni legali che nel migliorare e produrre la sua macchina. Watt era anzitutto un ingegnere e un inventore, sicché il suo contributo al progresso economico del Regno Unito sarebbe stato senz’altro maggiore se, invece di correre dietro agli avvocati per proteggere la sua macchina da soldi (il brevetto), la competizione con altri inventori l’avesse costretto a stare in officina a inventare altre macchine a vapore.

Da un punto di vista strettamente economico, Watt non avrebbe avuto bisogno di un brevetto così duraturo. Si valuta che nel 1783 – otto anni dopo la concessione e diciassette anni prima che il suo secondo brevetto scadesse – la sua impresa fosse già in pareggio economico, ovvero avesse rimborsato tutti i debiti pregressi, avesse coperto i propri costi e avesse guadagnato profitti ragionevoli sul capitale investito. Gli economisti chiamano «ricerca (e cattura) di rendite» l’attività che consiste nello spendere risorse umane e materiali al fine (vantaggioso sul piano privato, ma dannoso socialmente) di prevenire la competizione e ottenere privilegi particolari per vie legali e politiche. Per avere un’idea concreta di cosa si tratti, pensate a ciò a cui si dedicano in Italia, da sempre e con notevole successo, le associazioni di notai, farmacisti, avvocati e professionisti vari, via via sino ai tassisti: alla cattura di rendite. Non c’è infatti grande differenza fra il brevetto concesso al primo che si presenta all’ufficio brevetti e i diritti esclusivi di cui godono, per esempio, i notai: la storia e il senso comune mostrano che, in entrambi i casi, si tratta del frutto avvelenato del monopolio legale.

Il tentativo – riuscito – da parte di Watt di prolungare fino al 1800 la durata del brevetto del 1769 è un perfetto esempio di cattura di rendite: il prolungamento del brevetto, avvenuto nel 1775, non fu certo ciò che spinse Watt, nel 1764, a lavorare sulle invenzioni originali, le quali, se proprio vogliamo, già avevano ricevuto una ricompensa con il primo brevetto. Il motore di Hornblower fu una vittima importante: si trattava infatti di un miglioramento sostanziale rispetto a quello di Watt, poiché introduceva il nuovo motore a due cilindri. E fu quest’ultimo – non il progetto di Boulton e Watt – a porre le basi per un ulteriore sviluppo della macchina a vapore dopo la scadenza del loro brevetto.

Ma siccome Hornblower lavorava sulla base dell’invenzione precedente di Watt, furono Boulton e Watt a prevalere in tribunale e a bloccare lo sviluppo della sua macchina a vapore. Il monopolio su un’innovazione utile come il condensatore separato arrestò lo sviluppo di un’altra innovazione altrettanto utile, il motore a due cilindri, rallentando di conseguenza la crescita economica del Regno Unito. Un tale ritardo nell’innovazione è un classico caso di ciò che chiamiamo «inefficienza-PI», dove «PI» sta, ovviamente, per «Proprietà Intellettuale».

La storia di James Watt rappresenta un ottimo esempio dei danni sociali (e dei benefìci privati, per gli ammanicati) che il sistema dei brevetti provoca. Come vedremo, non si tratta affatto di una storia insolita, bensì di un paradigma che si è ripetuto nei secoli e continua a ripetersi. Una nuova idea matura, quasi per caso, nella mente dell’innovatore mentre sta svolgendo un’attività di routine che mira a tutt’altro obiettivo; il brevetto arriva molti anni dopo e si deve, più che altro, a un misto di acume legale e abbondanti risorse che «lubrificano gli ingranaggi della fortuna». Una volta ottenuto, il brevetto viene usato principalmente come strumento per impedire il progresso economico e per danneggiare i concorrenti. Quella appena descritta è la regola, non l’eccezione, nel caso delle invenzioni brevettate. Ne vedremo esempi a bizzeffe nel corso di queste pagine.

La Rivoluzione industriale è storia di molto tempo fa, ma la questione della proprietà intellettuale è molto più attuale oggi che allora. Nello stesso anno in cui incominciavamo a scrivere questo libro, il giudice distrettuale statunitense James Spencer minacciava, da ben tre anni, di chiudere il servizio offerto da Blackberry per l’invio e la ricezione di posta elettronica via telefono mobile, un sistema usato da milioni di persone: tutto questo per una disputa legale sui brevetti in possesso di Blackberry. L’impresa Blackberry non è senza peccato: nel 2001 denunciò a sua volta Glenayre Electronics per violazione di un brevetto per «spedire informazione da un sistema ospitante a uno strumento mobile per la gestione di dati». Chi di brevetto ferisce…

Battaglie simili si combattono continuamente anche a proposito del copyright: a tutt’oggi, a dieci anni di distanza, la più celebre rimane quella che ebbe luogo attorno al 2000-2001, quando la rete per lo scambio di archivi digitali, creata spontaneamente da migliaia di consumatori utilizzando il software Napster, venne chiusa da un giudice federale americano perché tale condivisione di archivi protetti da copyright violava la legislazione vigente al tempo e in forza ancora oggi. Da allora la battaglia mondiale sul diritto dei consumatori a condividere, copiare e scambiarsi archivi digitali, contenenti materiale da loro legalmente acquisito ma coperto dalle restrizioni indotte dal copyright, si è andata estendendo e prolungando, senza che all’orizzonte sia apparsa una qualche soluzione. Questo sul terreno formale e giuridico, perché, sul terreno dei fatti concreti, la vittoria delle tecnologie e dei metodi di trasmissione degli archivi digitali introdotti da una qualche Napster è oramai totale. Ma è argomento su cui torneremo più avanti.

Mentre infuria l’arroventato dibattito a proposito di copyright e brevetti, esiste un accordo generale sul fatto che qualche tipo di protezione sia necessaria per salvaguardare i frutti del lavoro di inventori e creatori. La frase grondante retorica «l’informazione vuole essere libera» suggerisce che nessuno dovrebbe trarre vantaggi dalle proprie idee, il che, ovviamente, fa sorridere chiunque vive producendo idee utili. Nonostante alcuni sostengano che le idee debbano essere sempre e comunque gratuite, non sono molte le persone convinte che inventori e creatori debbano sopravvivere grazie alla carità altrui!

Al di là delle forti tensioni, entrambe le parti concordano sul fatto che la legislazione sulla proprietà intellettuale debba definire una qualche saggia via di mezzo tra la necessità di fornire sufficienti incentivi alla creazione e il desiderio di rendere più gratuite possibile le idee già esistenti. Detto altrimenti: nonostante litighino sul prezzo, entrambe le parti concordano sul fatto che i diritti di proprietà intellettuale siano una specie di male necessario che favorisce l’innovazione; il disaccordo è su dove dovrebbero essere tracciati i confini di tali diritti.

Per i sostenitori della proprietà intellettuale, gli attuali profitti di monopolio sono appena sufficienti; per gli avversari tali profitti sono troppo alti. La nostra analisi porta a conclusioni che sono in disaccordo con entrambe le parti. La logica del nostro ragionamento è la seguente: tutti vorrebbero essere detentori di un monopolio e nessuno vuole competere con i propri clienti, o con gli imitatori.

Attualmente i brevetti e il copyright accordano un monopolio ai «creatori» di certe idee (vedremo nel corso del libro perché quelle virgolette siano più che appropriate). Ora, è certo che pochissime persone fanno qualcosa in cambio di niente. I creatori di nuovi beni non sono diversi dai produttori di copie dei vecchi beni, per esempio le scarpe: entrambi vogliono vedere il proprio sforzo ricompensato. Tuttavia, c’è un’enorme differenza tra l’affermare che gli innovatori meritano una ricompensa per i loro sforzi e concludere che brevetti e copyright – ovverosia il monopolio intellettuale – siano l’unica o almeno la via migliore per garantire tale ricompensa.

Come vedremo, esistono molte altre strade per ricompensare adeguatamente gli innovatori, di gran lunga preferibili, per la società nel suo insieme, al potere di monopolio che brevetti e copyright attualmente conferiscono. Dal momento che – come mostreremo – gli innovatori possono ricevere e di fatto ricevono abbondanti compensi anche senza brevetti e copyright, risulta opportuno chiedersi: è poi vero che la proprietà intellettuale raggiunge il fine che si propone, ossia di creare incentivi per l’innovazione e l’invenzione? È vero, inoltre, che gli incentivi creati dalla proprietà intellettuale compensano i considerevoli danni sociali che essa provoca?

Questo libro esamina queste due domande sia teoricamente che empiricamente. E le conclusioni a cui siamo giunti sono le seguenti: i diritti di proprietà dei creatori di idee nuove possono essere ben protetti anche in assenza di proprietà intellettuale, la quale non stimola né innovazione né creazione. Nella nostra analisi il punto cruciale non sta nell’affermare che i produttori di idee nuove guadagnano troppo a causa di copyright e brevetti, ma che la proprietà intellettuale costituisce un male inutile, in quanto non genera maggiore innovazione ma solo ostacoli alla diffusione di ulteriori nuove idee. Dovrebbe pertanto essere progressivamente abolita perché ha come unico risultato la creazione di dannosi monopoli.

Questo libro si occupa di economia, non di giurisprudenza. Più precisamente, non si occupa di ciò che è la giurisprudenza in materia di proprietà intellettuale, ma di quello che dovrebbe essere.

Se vi interessa sapere se finirete o meno in carcere per aver condiviso i vostri archivi informatici in internet, questo non è il libro per voi; se vi interessa capire se è una buona idea che la legge vi impedisca di condividere i vostri archivi informatici in internet, allora il libro fa per voi.

Comunque, nonostante non ci si occupi qui di giurisprudenza, è necessario avere una qualche formazione in materia per capire le questioni economiche.

Esistono tre tipi generici di proprietà intellettuale riconosciuti nella maggioranza dei sistemi legali: brevetti, copyright (diritto d’autore) e marchi. I marchi hanno una natura diversa da quella dei brevetti e del copyright: servono per identificare i fornitori di beni, servizi o idee. Copiare – che sarebbe una violazione del copyright – è piuttosto diverso dal mentire sulla propria identità, che sarebbe una violazione del marchio. Non conosciamo nessuna buona ragione per permettere ai partecipanti al mercato di rubare le identità di altri o farsi passare per persone che non sono. Al contrario, sono evidenti i vantaggi economici nel permettere che i partecipanti al mercato si identifichino volontariamente e in modo veritiero.

Mentre possiamo chiederci se sia indispensabile assegnare a Intel il monopolio sull’uso della parola inside, in generale c’è poca discussione economica sul valore del marchio. Brevetti e copyright, le due forme di proprietà intellettuale sulle quali ci concentriamo, sono invece argomento di dibattito e disaccordo. Si differenziano in molti aspetti, a cominciare dal tipo di copertura che forniscono: i brevetti si applicano a specifiche realizzazioni di idee (sebbene, negli Stati Uniti, in anni recenti l’enfasi sulla particolarità della realizzazione che viene brevettata sia alquanto diminuita); i brevetti non durano per sempre: vanno dai quattordici ai venti anni con, negli Stati Uniti, un’estensione a venticinque per i farmaci. Variazioni a questi termini, specifiche da paese a paese, si applicano poi ad alcune particolari tipologie di invenzioni.

I brevetti forniscono una copertura relativamente ampia: nessuno può usare legalmente la stessa idea senza il permesso del detentore del brevetto, anche se l’ha scoperta indipendentemente; il copyright ha un raggio più ristretto, e protegge solo i dettagli specifici di una particolare implementazione mediatica di una idea generale, anche se il raggio di tale copertura è aumentato negli ultimi anni. Il copyright, in compenso, dura molto più a lungo dei brevetti: almeno cinquant’anni, per i molti paesi che hanno sottoscritto la convenzione di Berna; più di settant’anni in Italia e negli Stati Uniti. Nel caso sia dei brevetti sia del copyright, nella legge esistono due ingredienti dal punto di vista economico: il diritto di vendere e comprare copie di idee, e il diritto di controllare il modo in cui altre persone fanno uso di tali copie. Il primo diritto non viene qui messo in discussione.

Nella legge in materia di copyright, quando applicata al creatore, questo diritto è frequentemente chiamato «diritto di prima vendita». Ciò nonostante, esso si estende anche ai diritti legittimi di altri di vendere le loro copie, purché legalmente acquisite: il copyright non impedisce la vendita di libri usati. Ciò che è opinabile, e viene da noi messo in discussione, è il secondo diritto, che autorizza il proprietario del copyright a usare la proprietà intellettuale per controllare l’utilizzo del prodotto legalmente acquisito anche dopo che la vendita sia avvenuta. Questo diritto genera un monopolio, supportato dall’obbligo del governo di intervenire contro individui o organizzazioni che utilizzino l’idea in modi proibiti dal detentore del brevetto o del copyright.

In aggiunta alle forme conosciute di proprietà intellettuale – brevetti e copyright – esistono anche modalità meno note di proteggere le idee. Esse includono accordi contrattuali impliciti, come per esempio il contratto di licenza «a strappo» e quello denominato in inglese click-through: ossia quelle lunghe pappardelle contrattuali scritte in «legalese» che non leggiamo mai ogniqualvolta compriamo, o anche solo scarichiamo in rete, un software. Tra le tecniche di esclusione diverse dalla PI in senso stretto ma a essa collegate, va inclusa anche la forma più tradizionale di protezione delle invenzioni, ovvero il segreto commerciale, assieme alle sue svariate manifestazioni legali e contrattuali, come per esempio i vincoli di riservatezza e segretezza imposti ai dipendenti.

Come brevetti e copyright, tutti questi dispositivi legali servono ad aiutare il primo produttore di un’idea a perpetuare il proprio monopolio su di essa. Tali dispositivi legali risulterebbero alterati, e alcuni diventerebbero inservibili, se la legislazione su brevetti e copyright venisse modificata in modo sostanziale. Non siamo a conoscenza di alcuna argomentazione legittima secondo la quale i produttori di idee non dovrebbero trarre vantaggio economico dalle proprie creazioni. Pertanto, non prenderemo seriamente in considerazione quelle posizioni che sostengono la non commerciabilità delle idee, in quanto fondate su una visione utopista (e discriminatoria) del mondo secondo cui chi produce idee dovrebbe vivere della carità altrui e non del proprio lavoro.

A nostro avviso le (buone) idee non solo possono ma devono essere vendute, altrimenti non verrebbero prodotte o ne verrebbero prodotte assai poche. Di idee brutte, si sa, ce n’è sempre più del necessario… forse perché vengono distribuite gratuitamente. Nonostante le (buone) idee si possano vendere anche in assenza di un diritto legale di proprietà, i mercati funzionano meglio in presenza di diritti di proprietà chiaramente definiti. Si dà però il caso che, per far funzionare bene i mercati, dovrebbero essere protetti non solo i diritti di proprietà degli innovatori ma anche quelli di chi ha ottenuto legittimamente una copia dell’idea dall’innovatore originario, direttamente o indirettamente.

Il primo tipo di diritti incoraggia l’innovazione, mentre il secondo incoraggia la diffusione, l’adozione e il miglioramento delle innovazioni. Perché mai, dunque, i creatori di un’idea dovrebbero avere il diritto di controllare l’uso che ne fanno gli acquirenti? Un tale particolare diritto conferisce ai creatori iniziali il monopolio su un’idea. Usiamo l’espressione «monopolio intellettuale» per enfatizzare che ciò che è discutibile in esso non è il diritto di proprietà sull’idea originale ma il monopolio su tutte le copie della stessa.

Questo monopolio, di fatto, uccide l’altro diritto legittimo, quello di comprare, vendere e liberamente utilizzare le copie di un’idea. Di solito lo Stato non permette il monopolio nella produzione di un bene o di un servizio – anzi, almeno teoricamente, lo combatte – poiché è ampiamente riconosciuto che il monopolio nella produzione di beni e servizi crea molti costi sociali e nessun vantaggio. Il monopolio intellettuale non è diverso, a questo riguardo, in nulla e per nulla dal monopolio nella produzione delle sedie o delle patate: esso sarebbe quindi giustificato solo se creasse dei benefìci evidentemente superiori ai suoi costi. Mentre la Costituzione italiana non si occupa direttamente di proprietà intellettuale, quella degli Stati Uniti tratta esplicitamente del problema. Essa accorda al Congresso il diritto di «promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, garantendo per periodi limitati agli autori e agli inventori il diritto esclusivo sui loro scritti e sulle loro scoperte».

La nostra opinione di fondo, in materia di brevetti e copyright, è molto simile a quella dei Founding Fathers statunitensi: il progresso della scienza e delle arti è un ingrediente cruciale del benessere economico di una società. Esso permette sia la risoluzione di problemi sociali tanto drammatici come la povertà e le malattie sia la riduzione di banali seccature quali la noia del sabato sera senza un film da guardare.

Da un punto di vista sociale, secondo l’esplicito avviso dei padri fondatori, lo scopo di brevetti e copyright non è quello di arricchire i pochi fortunati o ammanicati a spese dei molti che non lo sono. Nessuno dubita che J.K. Rowling e Bill Gates si siano arricchiti molto con la loro proprietà intellettuale, né è sorprendente che siano a favore di essa. Ma sia il senso comune sia la Costituzione degli Stati Uniti affermano che questi diritti speciali debbano essere giustificati dal fatto che portino benefìci a tutti noi. La Costituzione degli Stati Uniti, inoltre, afferma in modo esplicito che ciò che deve essere accordato ad autori e inventori è un diritto esclusivo – un monopolio – e che tale monopolio deve essere concesso per un tempo limitato.

La Costituzione degli Stati Uniti venne scritta nel 1787: a quel tempo l’idea del copyright e dei brevetti era relativamente nuova, i beni ai quali si applicavano erano pochi e i termini di scadenza di entrambi erano assai brevi. Alla luce dell’esperienza dei 223 anni successivi noi ci chiediamo: è vero che garantire legalmente un monopolio serve a incentivare il progresso della scienza e delle arti?

Il senso comune sembra suggerire che il monopolio concesso via PI dovrebbe incentivare sia la scienza sia le arti. Come può mantenersi un musicista se nel momento in cui si esibisce chiunque altro può copiare la sua musica e distribuirla gratuitamente? Perché mai una grande azienda dovrebbe pagare un piccolo inventore quando potrebbe semplicemente prendersi la sua idea? È difficile immaginare la vita senza internet, e al giorno d’oggi siamo tutti jet setters. L’esplosione di creatività umana a cui abbiamo assistito nei due secoli e un quarto trascorsi da quando è stata scritta la Costituzione americana non è, forse, la migliore testimonianza dellagrandissima utilità sociale della proprietà intellettuale?

Il mondo senza brevetti e copyright non sarebbe un mondo freddo e triste, privo di nuova musica e vuoto di quelle invenzioni meravigliose che ci permettono di fare cose un tempo impensabili? Per questa ragione la prima domanda che ci siamo posti, e che poniamo al lettore, chiedendogli uno sforzo di immaginazione, è: come funzionerebbe il mondo in cui viviamo in assenza del monopolio intellettuale?

I brevetti e il copyright non sono sempre esistiti e ancora meno hanno avuto una copertura così ampia come quella attuale su tutto il mondo delle idee. Risulta quindi naturale esaminare le circostanze storichee i settori dell’attività umana nei quali il monopolio legale delle idee non era disponibile (o era addirittura proibito) per verificare se, in tali circostanze, innovazione e creatività abbiano prosperato o siano invece state soffocate. Si dà il caso, tanto per prendere i due primi esempi che ci vengono in mente, che né internet né il motore a getto siano stati inventati nella speranza di assicurarsene i diritti esclusivi attraverso un brevetto: se così è accaduto per due invenzioni che, platealmente, hanno trasformato il mondo e definiscono lo stile di vita contemporaneo, non è forse possibile che così sia anche per delle altre? Per molte altre? La risposta è affermativa.

Vedremo che, quando il monopolio sulle idee è assente, la competizione fra potenziali innovatori è feroce, con il risultato che innovazione e creatività progrediscono. Quale che sia la forma che un mondo privodi brevetti e copyright potrebbe assumere, tutta l’evidenza a nostra disposizione assicura che non sarebbe un mondo privo di nuova musica e di nuove medicine utili. Avrete dedotto ormai che siamo alquanto scettici sul monopolio intellettuale. Stabilito questo fatto, la nostra seconda preoccupazione sarà l’esame dei costi sociali creati da copyright e brevetti. Dopo tutto, i monopoli creati da brevetti e copyright potranno anche essere preoccupanti, ma se questo è il prezzo da pagare per avere dei bei film, nuove automobili e vaccinazioni contro l’influenza, la maggioranza di noi è preparata a sopportarlo.

Questa è la posizione tradizionale degli economisti, molti dei quali sono altamente favorevoli a brevetti e copyright, almeno in linea di principio. La posizione teorica dell’economista tipico è che il monopolio intellettuale sia un male inevitabile se vogliamo godere di un costante flusso di innovazioni. Esamineremo quindi le argomentazioni teoriche che, nel campo economico, sostengono il monopolio intellettuale. Fatto questo, rivolteremo la frittata chiedendoci come il monopolio intellettuale possa danneggiare anziché favorire le attività creative.

Come spiegheremo, i soli argomenti teorici sono inconcludenti e non ci permettono di decidere se il monopolio intellettuale aumenti o diminuisca l’attività creativa. In ultima analisi l’unica giustificazione della proprietà intellettuale è che incrementerebbe – de facto e sostanzialmente – l’innovazione e la creazione. Cosa ci hanno insegnato gli ultimi trecento anni circa? La scelta dei tre secoli (e qualcosa) non è fatta a caso: come vedremo più avanti, anche se i primi esempi di brevetti vengono dall’Italia rinascimentale, la legislazione contemporanea su brevetti e copyright affonda le proprie radici in provvedimenti adottati nel Regno Unito all’inizio del Settecento. Ma non facciamoci prendere dall’entusiasmo per la storia, per ora, e ritorniamo al punto che qui ci interessa: è o non è un dato di fatto che il monopolio intellettuale stimoli maggiore creatività e innovazione? Il nostro studio dei dati non ha rivelato evidenza alcuna che il monopolio intellettuale raggiuga il proposito desiderato. Poiché esso non porta benefìci, non c’è ragione che la società ne sopporti i costi: la proprietà intellettuale è un male inutile.

È uscito per Laterza Abolire la proprietà intellettuale, un libro di Michele Boldrin e David K. Levine (l’edizione originale è in inglese e si intitola Against Intellectual Monopoly).

Boldrin è fellow della Econometric Society e research fellow del Centre for Economic Policy Research di Londra. Ha lavorato all’Università di Chicago, alla UCLA, alla J.L. Kellogg Graduate School of Management e all’Università del Minnesota. Dall’autunno del 2006 lavora presso la Facoltà di Economia della Washington University a St. Louis e come ricercatore presso la Federal Reserve Bank di St. Louis. È coautore di Tremonti, Istruzioni per il disuso. Levine insegna Economia alla Washington University di St. Louis. Ha lavorato alla UCLA e all’Università del Minnesota. Oltre a Abolire la proprietà intellettuale ha scrittoThe Theory of Learning in Games.