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  • Lunedì 21 novembre 2011

Che cosa tira giù le borse

Le voci sul declassamento della Francia ma soprattutto il fallimento dei negoziati sui tagli al debito degli Stati Uniti, che avevamo spiegato

FILE – In this Nov. 17, 2011 file photo, Sen. John Kerry, D-Mass., and other Democratic members of the supercommittee, comment to reporters as they emerge from a closed-door meeting at the Capitol, in Washington. Fanning out to the sets of various talk shows Sunday, Nov. 20, 2011, Democrat and Republican Supercommittee members exchanged blame for a deepening impasse that has all but doomed any chances for accord before the Wednesday deadline. (AP Photo/J. Scott Applewhite, File)

FILE – In this Nov. 17, 2011 file photo, Sen. John Kerry, D-Mass., and other Democratic members of the supercommittee, comment to reporters as they emerge from a closed-door meeting at the Capitol, in Washington. Fanning out to the sets of various talk shows Sunday, Nov. 20, 2011, Democrat and Republican Supercommittee members exchanged blame for a deepening impasse that has all but doomed any chances for accord before the Wednesday deadline. (AP Photo/J. Scott Applewhite, File)

I mercati finanziari occidentali – soprattutto quelli europei, soprattutto quello italiano – stanno conoscendo oggi un’altra pessima giornata, trascinati giù principalmente da due cose: le voci che continuano a circolare riguardo un imminente downgrade del debito francese da parte delle agenzie di rating (di cui si parla però da qualche mese) e il fallimento delle trattative della cosiddetta “super commissione” sul debito statunitense.

L’accordo tra democratici e repubblicani contratto lo scorso agosto riguardo il tetto del debito – trovato al termine di una trattativa complicata ed estenuante – prevedeva il taglio di 2,4 migliaia di miliardi di dollari di spesa pubblica, in due tempi: un primo pacchetto subito, un secondo dopo un ulteriore esame del Congresso, con un’altra scadenza. Quella scadenza era stata fissata per il 23 novembre, cioè dopodomani. Il Congresso aveva istituito una cosiddetta “super commissione” composta da 12 membri, 6 democratici e 6 repubblicani, dando loro mandato di decidere come e dove tagliare. L’accordo prevedeva un’altra clausola, allo scopo di incentivare i 12 a prendere delle decisioni condivise: stabiliva che in assenza di un accordo entro il 23 novembre, sarebbero entrati automaticamente in vigore una serie di tagli lineari per 1,2 migliaia di miliardi di dollari. Metà sulle spese militari, care ai repubblicani, e metà sui programmi di welfare, cari ai democratici.

Le borse oggi risentono di quanto accaduto negli Stati Uniti nel corso del finesettimana. Trovandosi ancora lontanissimi da un accordo, sei dei dodici membri della supercommissione hanno passato gli ultimi giorni prima della scadenza in tv e sui media, a commentare il fallimento delle trattative. Nessuna trattativa di emergenza è stata condotta, nessun tour de force dell’ultimo minuto: democratici e repubblicani considerano già impossibile trovare una posizione condivisa e quindi, di fatto, danno già per morta la supercommissione. Gli oggetti del contendere sono due. Uno è l’inserimento di nuove tasse. I democratici, spalleggiati dalla Casa Bianca, sostengono che il debito si debba ridurre non solo con i tagli alla spesa ma anche aumentando le tasse a chi ha redditi molto alti e paga troppo poco, meno di quanto paghi la classe media. I repubblicani hanno fatto una bandiera della loro tassativa opposizione a qualsiasi aumento delle tasse, a qualsiasi cittadino e a qualsiasi condizione, riproponendo così lo stesso atteggiamento oltranzista che gli aveva consentito di ottenere in agosto un accordo più che favorevole. L’altro punto in discussione sono i tagli. I repubblicani spingono per tagli pesanti sul welfare, soprattutto su sanità e istruzione: i democratici sono disposti a parlarne ma rimangono lontani dalla loro controparte.

Le trattative comunque sono andate molto a rilento, quasi non sono mai cominciate sul serio. Il New York Times scrive che la prima proposta concreta è stata fatta dai democratici ai repubblicani soltanto il 25 ottobre, e questi hanno replicato con una controproposta il giorno dopo. L’ultima sessione pubblica della supercommissione si è tenuta il primo novembre. Un’altra offerta era stata presentata dai repubblicani il 7 novembre, e per la prima volta prevedeva un leggero aumento delle tasse: solo temporaneo, però, perché poi sarebbero scese ulteriormente e soprattutto per i più ricchi, cosa che ha spinto i democratici a rifiutare. Oggi di fatto non è in piedi nessuna trattativa.

Il Congresso è chiamato a votare il 23 dicembre sull’eventuale accordo da parte della supercommissione. Senza un accordo scatterebbero a quel punto i tagli automatici. Il mancato accordo non genererebbe un default tecnico dell’economia americana, come sarebbe accaduto lo scorso agosto, ma avrebbe comunque conseguenze molto pericolose. Concretamente, i tagli lineari metterebbero a rischio alcuni programmi di welfare – non i più importanti – in un periodo di difficoltà economica, rischiando di compromettere i consumi e la ripresa, e costringerebbero il Pentagono a revisionare completamente le sue operazioni e le sue spese. Politicamente sarebbero una nuova dimostrazione dell’incapacità del Congresso di gestire i problemi degli Stati Uniti, e potrebbero quindi portare a ulteriori declassamenti da parte delle agenzie di rating. E sicuramente trascinerebbero in basso le borse di mezzo mondo, come sta accadendo in queste ore.

foto: AP Photo/J. Scott Applewhite, File