Come funzionano le pensioni in Italia

Una guida per capire il sistema italiano e le proposte di modifica che circolano

di Emanuele Menietti

Prima di partecipare al vertice europeo di ieri a Bruxelles sulla crisi economica, pare che Silvio Berlusconi si fosse ripromesso di contestare la gestione a due di Francia e Germania dei destini dell’euro e chiedere maggiori spazi per le ragioni del nostro paese. Al termine dell’incontro, il PresdelCons ha, invece, dichiarato di voler seguire le richieste degli altri paesi europei e di voler adottare nuove misure per ridurre la spesa pubblica. A cominciare dalle pensioni.

L’idea, che non piace alla Lega, è rimettere mano ancora una volta al sistema previdenziale aumentando l’età a cui è possibile accedere alle pensioni di vecchiaia. Dal 1992 a oggi ci sono state numerose modifiche che hanno reso molto complessa e varia la gestione delle pensioni in Italia. Abbiamo provato a fare un po’ d’ordine, spiegando come funzionano ora le cose in generale e come potrebbero cambiare nei prossimi giorni.

Che cos’è la pensione
È il sistema di remunerazione previsto per quando si smette di lavorare, e può essere di natura pubblica o privata. In Italia è prevalentemente gestito dal settore pubblico attraverso enti di previdenza, dalle casse degli ordini professionali e in alcuni casi da quelle private. Esistono poi forme miste, dove la pensione pubblica viene cumulata con il privato nell’ambito di quella che si chiama previdenza complementare.

INPS
È l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale ed è l’ente previdenziale principale in Italia. Tutti i lavoratori del settore privato, alcune categorie del pubblico e buona parte degli autonomi sono obbligati a iscriversi. L’INPS raccoglie i contributi e provvede a pagare le pensioni. Per buona parte dei dipendenti dello Stato c’è un altro ente previdenziale: l’INPDAP.

Contributi
Sono i soldi che i lavoratori e/o i loro datori di lavoro devono versare obbligatoriamente per il sistema previdenziale. La cifra è una percentuale della retribuzione e viene pagata in parte dal datore di lavoro e in parte dal lavoratore. I lavoratori autonomi e i liberi professionisti versano il contributo totalmente a loro carico, salvo particolari eccezioni.

Pensione di vecchiaia e pensione di anzianità
Ci sono molte tipologie di pensioni in Italia e decine di eccezioni, tuttavia possiamo identificare due tipi principali di pensione: quella di vecchiaia e quella di anzianità. La pensione di vecchiaia è quella che si ottiene dopo aver raggiunto la cosiddetta “età pensionabile”: è quella su cui vuole intervenire il governo, ci torneremo sopra più avanti. La pensione di anzianità è quella che si ottiene prima di aver raggiunto l’età per ottenere la pensione di vecchiaia, dopo avere accumulato un certo numero di anni di contribuzione.

Sistema di calcolo retributivo, contributivo e misto
In seguito al progressivo cambiamento del sistema pensionistico italiano con le riforme Amato (1992), Dini – Treu (1995) e Berlusconi – Maroni (2004), attualmente esistono tre sistemi diversi in Italia. Il retributivo e il misto sono destinati a estinguersi man mano che tutti i lavoratori che li utilizzano andranno in pensione, quindi un giorno avremo solo il sistema contributivo.

Sistema contributivo
Viene applicato a tutti i lavoratori che hanno iniziato a versare i loro contributi per la pensione dal 1996. Si basa sulla somma dei contributi che i lavoratori hanno versato nella loro intera vita lavorativa, il cosiddetto montante contributivo, rivalutata sulla base di precise aliquote e tassi di rivalutazione. L’importo annuo della pensione viene calcolato moltiplicando il montante per un coefficiente di trasformazione, un numero che varia a seconda dell’età del lavoratore al momento in cui è andato in pensione.

Sistema retributivo
Era il sistema adottato in Italia fino al 1992 e fino alla progressiva introduzione di quello contributivo. Viene ancora utilizzato perché a oggi ci sono lavoratori che avevano iniziato a pagare i contributi con questo sistema. Si applica, infatti, ai lavoratori che a fine 1995 avevano versato almeno 18 anni di contributi. Si basa sulla media delle retribuzioni dei lavoratori nei loro ultimi anni lavorativi e per il calcolo della pensione vengono tenuti in considerazione tre elementi:

1. anzianità contributiva, il totale dei contributi versati;
2. retribuzione – reddito pensionabile, la media delle retribuzioni degli ultimi anni;
3. aliquota di rendimento, pari al due per cento della retribuzione.

Semplificando, possiamo dire che se hai versato 35 anni di contributi ti spetta come pensione il 70 per cento della tua retribuzione, se hai versato contributi per 40 anni la percentuale è pari a 80.

Sistema misto
Il passaggio da sistema retributivo a contributivo ha lasciato in mezzo i lavoratori che a fine 1995 non avevano raggiunto i 18 anni di contributi. Per loro è stato adottato un sistema ibrido in cui la pensione viene calcolata in parte con il retributivo, per l’anzianità fino al 1995, e con quello contributivo dal 1996.

Cosa è meglio?
Il sistema retributivo offre pensioni in media più alte perché è basato sul calcolo degli ultimi anni di lavoro: gli stipendi di fine carriera in Italia sono generalmente più alti di quelli di inizio carriera. Il sistema contributivo prende in considerazione l’intera vita lavorativa e quindi offre pensioni che in alcuni casi sono soltanto la metà dello stipendio che si riceveva negli ultimi anni. Il retributivo era però più complesso da sostenere economicamente rispetto al contributivo.

Quando si va in pensione
Con l’attuale sistema contributivo, può andare in pensione di vecchiaia chi ha compiuto i 65 anni di età a patto che abbia versato almeno cinque anni di contributi. Nel caso del sistema retributivo c’è invece una differenza tra uomini e donne: i primi vanno in pensione con 65 anni di età, le seconde con 60 anni. Devono avere, inoltre, 20 anni di contributi versati.

Le pensioni di anzianità funzionano diversamente. Il calcolo si basa sugli anni effettivi di contributi. Ci sono diversi scaglioni, nel sistema contributivo, e richiedono 35 anni di contributi: nel biennio 2008 – 2009 ha potuto chiedere la pensione chi aveva compiuto 60 anni di età (61 se autonomo), nel periodo 2010 – 2013 la possono richiedere coloro che hanno compiuto i 61 anni di età (62 se autonomi) e dal 2014 potranno richiederla quelli con 62 anni di età (63 per gli autonomi). C’è poi la possibilità di richiedere la pensione a prescindere dall’età anagrafica, se sono stati versati 40 anni di contributi. Per il sistema retributivo il requisito è aver versato 15 anni di contributi per chi a fine 1992 aveva un’anzianità contributiva di 15 anni o per chi entro quell’anno aveva raggiunto l’età pensionabile.

I 67 anni
Dopo il vertice europeo di ieri, Silvio Berlusconi è tornato in Italia promettendo di impegnare il governo per una nuova riforma delle pensioni, tale da aumentare di due anni il limite per la pensione portandolo a 67 anni. Un’altra ipotesi è anche legata alla eliminazione delle pensioni di anzianità dato che, ha detto il PresdelCons, l’Italia è «l’unico paese ad averle». In questo modo sarebbe impossibile andare in pensione prima dei 67 anni di età, a fronte di qualsiasi numero di anni di contribuzione (ricordando che chi ha più anni di contribuzione alle spalle in genere percepisce una pensione più alta).

Le due soluzioni consentirebbero di ridurre la spesa pensionistica e ridurre l’aumento del debito. La modifica dell’età pensionabile non piace però alla Lega, che ha minacciato di scendere in piazza (e non piace nemmeno a larga parte dell’opposizione).

Tirare la cinghia
La pensione, specie dove è prevalentemente di natura pubblica, è resa possibile da un patto di solidarietà tra generazioni. Chi lavora paga con i propri contributi la pensione a chi ha finito di lavorare, nella speranza e nella fiducia che quando sarà il suo turno ci saranno altri lavoratori delle generazioni più giovani a pagargli la pensione. In Italia la proporzione è grosso modo di tre lavoratori per ogni pensionato, ma il dato evolve man mano che avanzano gli anni e aumentano quindi i lavoratori necessari per pagare una pensione.

L’incremento è dato da diverse variabili, legate anche all’aumento dell’aspettativa di vita e al minore tasso di natalità. Nel 1908 i cittadini oltre i 65 anni erano il 6 per cento, nel 2006 erano il 18 per cento e si stima che tra quarant’anni saranno circa un terzo della popolazione. Tutto questo contribuisce a far aumentare la spesa per dare le pensioni e al tempo stesso a ridurre l’ingresso di nuove risorse economiche per coprire le spese. L’aumento dell’età per andare in pensione serve per attenuare questi effetti, ma oltre ai problemi politici crea non pochi attriti nel patto tra generazioni: chi lavora oggi paga per mantenere pensioni più alte rispetto a ciò che potrà godere alla fine della propria vita lavorativa.