• Mondo
  • Venerdì 21 ottobre 2011

La primavera araba e le donne

L'Economist fa il punto sulla situazione in Egitto e Tunisia dopo le rivoluzioni

An Egyptian woman casts her vote at a polling station in Al-Matariya district in Cairo on December 5, 2010 as Egypt holds second-round runoffs in a parliamentary election that the ruling party is poised to win almost unopposed in the face of an opposition boycott. AFP PHOTO / KHALED DESOUKI (Photo credit should read KHALED DESOUKI/AFP/Getty Images)

An Egyptian woman casts her vote at a polling station in Al-Matariya district in Cairo on December 5, 2010 as Egypt holds second-round runoffs in a parliamentary election that the ruling party is poised to win almost unopposed in the face of an opposition boycott. AFP PHOTO / KHALED DESOUKI (Photo credit should read KHALED DESOUKI/AFP/Getty Images)

Le rivoluzioni del 2011 in Medio Oriente e in Nordafrica hanno portato e porteranno ancora grandi cambiamenti politici e sociali. Circolano ancora, e giustamente, molti dubbi sugli equilibri di Stati che dovranno ricostruire le loro istituzioni e darsi governi democratici ed efficienti, ma appare a tutti evidente che anche soltanto la possibilità di avere un futuro migliore non potesse che passare per la deposizione dei regimi del passato. Se è ragionevole supporre che, col tempo, le cose possano lentamente diventare il più possibile “normali”, c’è una questione, una delle più rilevanti nei paesi a maggioranza islamica, riguardo la quale la cosiddetta “primavera araba” non garantisce di per sé alcun avanzamento, sostiene l’Economist. I diritti delle donne.

L’Economist analizza come la caduta dei regimi in Egitto e Tunisia, benché provocata da rivoluzioni che hanno visto una partecipazione rilevante delle donne, potrebbe non avere significati progressisti sul piano della discriminazione sessuale. Anzi: in alcuni casi si teme che la condizione femminile possa addirittura peggiorare. I timori derivano dal generale atteggiamento delle forze attualmente al potere, dai principali gruppi politici in corsa per le prossime elezioni, che sia in Egitto che in Tunisia sono di impronta islamica conservatrice, e da un’analisi delle trasformazioni della società irachena dopo la caduta del regime di Saddam Hussein.

[Le attiviste per i diritti delle donne] guardano con apprensione a ciò che è successo in Iraq, dove la caduta del tiranno non sembra essere stata di nessun aiuto per le donne. Le donne soffrivano sotto l’orrore generalizzato del regime di Saddam Hussein, ma erano libere di lavorare, di uscire di casa senza il velo e di andare a scuola. In molte zone dell’Iraq le cose sono cambiate col crescere dell’influenza di singoli gruppi religiosi. Nei primi anni di governo del regime Baath, le donne furono dichiarate pari agli uomini davanti alla legge e fu loro richiesto di seguire corsi di alfabetizzazione (anche se a molte fu impedito dalle famiglie più conservatrici). La posizione delle donne cominciò a diventare più precaria dopo la guerra del Golfo del 1991, quando Saddam decise di appoggiarsi a gruppi islamisti e tribali per rafforzare il suo potere, e sembra essere ulteriormente peggiorata in seguito all’occupazione americana. Più della metà delle donne intervistate per un rapporto Oxfam del 2009 erano state costrette ad abbandonare le proprie case dal 2003, per le violenze o per cercare lavoro. Circa quattro quinti di loro avevano smesso di frequentare scuole o università. Il 40 per cento delle madri non mandava i loro figli a scuola; la mancanza di sicurezza era la ragione principale per tenere i maschi a casa, ma le figlie non frequentavano le lezioni perché troppo costose o per divieti familiari.

La condizione dei diritti delle donne nei paesi a maggioranza islamica è da molto tempo fonte di preoccupazione per le organizzazioni a difesa dei diritti umani. Un rapporto del 2002 citava la condizione femminile tra i tre problemi principali, insieme alla limitata libertà politica e al basso livello di istruzione, che ostacolano lo sviluppo del mondo arabo.

In Egitto le donne hanno preso parte alla primavera araba al fianco degli uomini, emancipandosi dallo stereotipo che le vorrebbe oppresse dal patriarcato, e la loro presenza ha contribuito a definire la natura delle proteste. Con la caduta del regime, però, la loro posizione nelle rivolte è stata meno chiara. Molte di loro sono state invitate a tornare a casa dai loro figli e lasciare le piazze agli uomini. Il 9 marzo di quest’anno i manifestanti sono tornati in piazza Tahrir per rimarcare le loro richieste di libertà, giustizia e uguaglianza: l’esercito ha interrotto la manifestazione arrestando, tra gli altri, 18 donne, che in carcere sono state accusate di prostituzione, sottoposte a pestaggi e a un “controllo della verginità”. Il solo fatto di aver manifestato insieme a degli uomini – dormendo nelle tende insieme a loro: quella è la tacita accusa – veniva visto come un marchio d’infamia.

Non è la prima volta che le donne, in Egitto, partecipano a proteste politiche. Nel 1919 un gruppo di donne velate marciò al Cairo contro l’occupazione inglese. Nel 1956 fu concesso il voto alle donne, e nel 1957 l’Egitto fu il primo paese del mondo arabo a eleggere una donna al parlamento. Piccoli progressi sono andati avanti fino agli anni Settanta, ma da allora il potere crescente di gruppi religiosi conservatori ha bloccato ogni innovazione sul piano politico e sociale. Per Mubarak le politiche di sostegno alla condizione femminile erano fondamentali per mantenere buoni rapporti con l’Occidente: sua moglie diede la spinta finale all’approvazione di una legge che vietasse la mutilazione genitale femminile, e grazie al suo intervento oggi in Egitto anche le donne possono diventare giudici. Ma queste leggi sono viste da molti dei ribelli come frutto dell’influenza occidentale, e condannate e respinte per via del loro essere figlie dei regimi.

Nel 2009 il parlamento egiziano aveva approvato una legge che riservava 64 posti sui 518 nell’Assemblea del Popolo alle donne. Dopo la caduta di Mubarak la quota è stata abolita, contestata come un’eredità del regime: nonostante si tratti di un passo indietro rispetto alla condizione precedente, però, la legge era molto criticata anche dalle attiviste. Le donne che andavano a occupare quelle 64 posizioni erano ricche, disinformate e prive di preparazione o esperienza, e secondo molte rovinavano l’immagine dell’impegno femminile in politica. Ora la legge è stata sostituita: a novembre le liste dei partiti che parteciperanno alle elezioni dovranno includere almeno una donna tra i membri candidati al parlamento. Questo rende minori le possibilità che venga eletta una delegazione femminile rilevante, ma al tempo stesso garantisce una maggiore serietà di coloro che ce la faranno.

In Tunisia la parità tra i sessi ha raggiunto livelli alti come in nessun altro paese arabo. Habib Bourguiba, che nel 1957 fondò la Repubblica tunisina e ne fu il primo presidente, bandì la poligamia, legalizzò l’aborto e garantì uguaglianza alle donne in caso di divorzio. Ben Ali, che gli succedette, proseguì le politiche paritarie, promuovendo l’istruzione e il lavoro femminili: nel 2004 la percentuale di donne sposate, vedove o divorziate prima dei vent’anni era quasi nulla, contro l’oltre 50 per cento degli anni Sessanta. In Tunisia due terzi degli studenti universitari sono donne: in Egitto le donne sono i due quinti. Per le donne tunisine il periodo post-rivoluzionario dovrà concentrarsi sul mantenimento di diritti acquisiti più che sulla conquista di nuovi.

Ciò che preoccupa le attiviste di entrambi i paesi, ora, è il possibile successo politico di partiti conservatori che sembrano avere grande popolarità. In Tunisia si vota domenica 23 ottobre e la scena è dominata da al-Nahda (Movimento della Rinascita), il principale gruppo islamico, l’unico grande abbastanza per inserire candidati donne in tutte le sezioni: persino il Partito Democratico Progressista, l’unico con una leader donna, ha potuto mettere delle donne a capo di solo tre delle sue 33 liste.

In Egitto, dove si voterà il 28 novembre, sondaggi recenti hanno dimostrato che più del 60 per cento della popolazione ritiene che la Sharia dovrebbe essere l’unica legge nel paese, e la scena politica è dominata dai Fratelli Musulmani. L’organizzazione, che sostiene il Partito per la Libertà e la Giustizia, contiene al suo interno la sezione delle Sorelle Musulmane, che apparentemente garantiscono una presenza politica femminile che potrebbe limitare la deriva dei soprusi. Ma poche attiviste ritengono che le Sorelle Musulmane possano essere determinanti per la causa femminile: sono succubi dei Fratelli e sostengono una visione tradizionalista del ruolo della donna, con un’enfasi costante sulla famiglia. Come spiega Fatma Khafagy, membro fondatrice del Partito Socialista, «la discriminazione contro le donne comincia tra le mura domestiche».

Le attiviste come lei, comunque, rappresentano una parte minima delle donne arabe. La maggior parte dei progressi sui diritti delle donne nel mondo arabo è arrivata come dichiarazione dall’alto, piuttosto che come conseguenza delle pressioni dal basso. Si tratta soprattutto di un problema delle elite, una sorta di hobby per le mogli dei presidenti; e ciò che viene dato con una mano può essere sottratto con l’altra. […] I diritti delle donne devono ancora diventare un problema capace di smuovere l’opinione pubblica. […] Quelli che insistono per il cambiamento, in Egitto e Tunisia, sono soprattutto dipendenti di associazioni non governative, attivisti, avvocati, accademici e politici.

foto: KHALED DESOUKI/AFP/Getty Images