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  • Lunedì 17 ottobre 2011

Tutti i luoghi comuni sugli immigrati

Un capitolo del libro di Gianpiero Dalla Zuanna e Guglielmo Weber, che smentiscono con dati precisi molte solide credenze popolari italiane

di Gianpiero Dalla Zuanna e Guglielmo Weber

Nel nostro paese ci sono troppi immigrati
Nel secolo che va dal 1875 al 1975, venticinque milioni di italiani sono partiti alla ricerca di fortuna in paesi lontani, e un’altra immensa schiera ha lasciato le campagne e le montagne per cercare una vita migliore in altre regioni o città italiane. Ma a partire dagli ultimi anni del Novecento, tutto è cambiato.

Oggi nel nostro paese vivono più di cinque milioni di stranieri, e almeno 800 mila di loro sono immigrati nel biennio 2009-10, in piena crisi economica. L’arrivo di queste persone ha allineato il nostro agli altri paesi d’Europa con una lunga tradizione immigratoria. L’8% degli abitanti dell’Italia sono stranieri, più o meno come in Germania, in Inghilterra e in Francia. Le immigrazioni hanno cambiato in profondità la demografia italiana. La popolazione – stagnante negli anni Ottanta – ora aumenta rapidamente. Vent’anni fa, il censimento del 1991 contò poco meno di cinquantasette milioni di italiani, quasi lo stesso numero di dieci anni prima.

All’inizio del 2011 – tenendo conto anche degli stranieri irregolari stabilmente presenti – in Italia vivevano più di sessantuno milioni di persone, un numero mai raggiunto nella nostra storia. Anche nel 2009 e nel 2010, anni di crisi economica, ogni giorno più di mille stranieri si sono iscritti alle anagrafi dei Comuni italiani, e ogni anno sono nati 100 mila bambini con almeno un genitore straniero, su 570 mila nascite totali. Malgrado il continuo aumento della sopravvivenza degli anziani, anche l’invecchiamento è rallentato perché gli stranieri sono assai più giovani degli italiani: trent’anni in media, contro i quarantacinque degli italiani.

Anche il rimpiazzo delle generazioni è garantito. Grazie alle immigrazioni, i trentenni del 2011 sono in numero simile ai trentenni che vivevano in Italia nel 1981. Non è vero che il numero è potenza, che più siamo e meglio stiamo. Per quanto se ne sa, il numero «ottimale» di italiani potrebbe anche essere di otto milioni, come ai tempi dei Longobardi e di Carlo Magno, quando la densità del popolamento era la stessa che c’è oggi in Mozambico.

Vogliamo solo dire che non c’è alcun segnale di declino demografico, perché gli immigrati stanno «salvando» la popolazione del nostro paese. Senza di loro, a causa della bassa natalità, gli abitanti dell’Italia sarebbero invecchiati assai più rapidamente, con drammatiche conseguenze per tutto il sistema economico e sociale. Però la demografia non è tutto (anche se è molto… specialmente per i demografi). Il titolo di questo capitolo va preso molto sul serio, anche perché il dibattito sul numero giusto degli immigrati è molto animato in tutti i paesi ricchi, fra gli studiosi, i politici e la gente comune.

Recentemente, in un’intervista televisiva a reti unificate, il presidente Nicolas Sarkozy ha detto che in Francia gli stranieri sono troppi. Il Giappone – che pure ha una demografia ancora più «vecchia» di quella italiana – continua a tener chiuse le porte agli immigrati poco istruiti. In Germania, il cancelliere Angela Merkel, in un discorso al congresso del suo partito, ha affermato che il multiculturalismo in Germania si sta dimostrando un fallimento. Negli Stati Uniti le diverse posizioni di apertura o chiusura sulle immigrazioni si fronteggiano fin dai tempi di George Washington, con esiti alterni. È quindi un bene per l’Italia continuare sulla strada delle abbondanti immigrazioni? Oppure sarebbe meglio porre un freno ai nuovi arrivi? Per rispondere a queste domande è necessario interrogarci sulle conseguenze di questa rivoluzione demografica sull’economia e sulla coesione sociale.

Il mito: l’immigrazione frena lo sviluppo economico e la modernizzazione dell’Italia
Il pensiero dominante è che le conseguenze negative delle immigrazioni sovrastino quelle positive. L’economista pessimista mette l’accento su almeno due effetti indesiderati dei sostenuti flussi immigratori. Egli dice che gli immigrati danneggiano lo sviluppo economico, perché una disponibilità praticamente illimitata di manodopera a basso costo induce gli imprenditori a non investire in innovazione, preferendo insistere su attività immediatamente profittevoli, ad alta intensità di lavoro poco qualificato. Ciò – alla lunga – impiomba le ali dell’economia, perché rallenta la creazione di prodotti ad alta gamma, indebolendo la presenza italiana sui settori tecnologici di punta ed esponendo l’Italia alla concorrenza di paesi a basso costo del lavoro.

Secondo questa prospettiva, le immigrazioni sarebbero una delle cause profonde del ristagno di produttività che affligge l’Italia ormai da un ventennio, e della sua perdita di terreno sui mercati mondiali. Questi discorsi sembrano in linea con i dati sui lavori svolti dagli immigrati, segregati in settori a bassa produttività (come i servizi alla persona e l’edilizia). Nel 2009, solo un lavoratore straniero su quattro era un «colletto bianco» (impiegato, dirigente, professionista) contro due italiani su tre. Inoltre, sempre secondo il nostro economista pessimista, gli operai italiani sono le prime vittime delle sostenute immigrazioni, perché – essendo gli stranieri disponibili a lavorare per pochi soldi e senza tutele – favoriscono il permanere di bassi salari e di insalubri condizioni lavorative. Inoltre, come in una reazione a catena, i bassi salari deprimono il potere di acquisto dei lavoratori, limitando i loro consumi e/o i loro risparmi, e spingendo verso il basso il tasso di crescita del reddito e della ricchezza nazionale.

Ancora più perniciosi e destabilizzanti sarebbero gli effetti dell’immigrazione sulla coesione sociale. Per il pessimista di destra, una popolazione continuamente rinnovata dalle immigrazioni non è più in grado di riconoscere se stessa, perché il vicino straniero resta inevitabilmente un estraneo, specialmente se proveniente da culture di matrice non cristiana. A poco a poco, con il progressivo incremento degli immigrati, i paesi e i quartieri delle città perdono la loro identità, diventando una galassia di mondi che non riescono né a parlarsi né a interagire, in perenne conflitto fra di loro. Anche i figli degli immigrati restano irrimediabilmente diversi dai loro coetanei italiani, poiché il milieu culturale italiano è il frutto di un’evoluzione lunghissima, irripetibile e quindi non assimilabile dai nuovi arrivati.

Questa impenetrabile diversità rischia di innescare nelle seconde generazioni – prima o poi – sentimenti di risentimento e di rancore verso il paese ospite, specialmente quando si innesta su precarie situazioni economiche e sociali. Ma anche per il pessimista di sinistra le immigrazioni rallentano la modernizzazione dell’Italia. Da un lato, egli condivide con il pessimista di destra l’idea di sostanziale irriducibilità fra le culture, anche se – come vedremo fra poco – le ricette che egli propone per mitigare questo problema sono molto diverse (anche se non meno discutibili). Inoltre, secondo il pessimista di sinistra, le immigrazioni di massa favoriscono il permanere di una condizione femminile arretrata, perché un gran numero di stranieri provengono da paesi dove le donne sono discriminate e penalizzate. Infine, gli immigrati favoriscono il permanere dei legami familiari forti, ossia di quello che – secondo il pessimista di sinistra – è uno dei tratti di arretratezza culturale e sociale dell’Italia e di tutta l’Europa meridionale. Egli sottolinea che la disponibilità quasi illimitata di badanti a basso costo ha impedito la nascita di un sistema pubblico di assistenza agli anziani, rallentando la rincorsa del nostro stato sociale verso i paesi guida del welfare moderno, come la Svezia e la Danimarca. Inoltre, a suo avviso gli stranieri ravvivano la cultura della famiglia a grappolo, perché provengono – in grande maggioranza – da paesi dove i legami familiari sono ancora più forti che in Italia. Come descritto nel primo capitolo di questo libro, la famiglia a grappolo è un gruppo di persone profondamente legato da legami di parentela, molto coeso al suo interno e ostile (o almeno fortemente competitivo) verso l’esterno. Ripercorriamo quanto detto finora, per mostrare come molto di questo sentire comune sia in realtà un mito, nato per colmare la nostra sensazione di insicurezza davanti a un mondo che cambia più rapidamente rispetto alle nostre capacità di interpretarlo.

Ma l’immigrazione rallenta veramente lo sviluppo?
È possibile che qualche imprenditore preferisca rallentare l’innovazione tecnologica grazie alla disponibilità di forza lavoro a buon mercato. Ma i dati degli ultimi decenni sull’Italia e sugli altri paesi dell’Europa occidentale mostrano – in generale – che avviene esattamente il contrario: è proprio la disponibilità di forza lavoro a buon mercato che spinge gli imprenditori a investire anche in nuovi macchinari, e le aree più dinamiche, dopo aver attratto l’arrivo di molti immigrati, continuano a restare all’avanguardia dello sviluppo. In Italia questo avviene da più di un secolo nelle zone più ricche del Piemonte e della Lombardia, che prima hanno attratto i piemontesi e i lombardi che vivevano in campagna o nelle valli, poi i veneti, i friulani e i marchigiani, poi i meridionali, e infine gli stranieri. Oggi questo processo si ripete in quasi tutte le province del Centro-Nord.

Come ha mostrato il premio Nobel per l’economia Simon Kuznets, immigrazione e sviluppo possono alimentarsi a vicenda, e per molti decenni. E poi, non bisogna sopravvalutare l’effetto dei mutamenti demografici sulla produttività. È sbagliato ragionare così: in Italia la popolazione invecchia, arrivano molti immigrati e la produttività è bassa: quindi, le immigrazioni e l’invecchiamento sono fra le cause della bassa produttività. In primo luogo, ci sono altri paesi (primo fra tutti la Germania) dove la produttività è molto più vivace che in Italia, ma la dinamica demografica è praticamente sovrapponibile a quella del nostro paese. Più in generale, secondo Pierluigi Ciocca: «da duecento anni i pro e i contro del nesso popolazione-crescita restano irrisolti, sia sul piano analitico sia sul piano teorico. Sul piano fattuale […] il rallentamento progressivo della crescita italiana degli ultimi decenni è interamente spiegabile alla luce dei fattori stricto sensu economici». Sempre secondo Ciocca, la produttività italiana viene frenata da altri motivi: il disastro della finanza pubblica (che ha quasi annullato gli investimenti statali in ricerca di base), le insufficienti infrastrutture materiali e immateriali (che scoraggiano gli investimenti delle imprese italiane e straniere), la scarsa concorrenza fra le imprese, fra le università e all’interno di molte categorie professionali (che tiene alti prezzi e tariffe e non incentiva comportamenti innovativi, poco razionali per chi può godere di rendite di posizione). Tutte cose che non hanno nulla a che vedere con le immigrazioni e con la demografia.

Inoltre, è sbagliato pensare che più una società diventa ricca, meno avrà bisogno di persone che fanno lavori manuali. Perché essere ricchi (o anche solo moderatamente benestanti) vuol dire evitare di fare alcuni lavori noiosi e ripetitivi, non provvedere direttamente all’assistenza dei parenti anziani e dei bambini, andare spesso a mangiar fuori (per lavoro o per diletto), andare in vacanza, vivere in posti dove le strade e i servizi urbani sono ben curati, lavorare in uffici puliti e ben tenuti, eccetera. Tutti questi ineliminabili servizi sono garantiti da legioni di persone che ricche non sono. Infine, chi pensava che il futuro fosse dell’economia «immateriale», basata non si sa bene su cosa, con la recente crisi ha avuto un’amara sorpresa. L’economia «materiale», il manifatturiero, l’agricoltura, la produzione di energia sono tornati sotto i riflettori, riacquistando una centralità che – in realtà – non avevano mai perduto. Ma l’economia materiale ha bisogno di gente che costruisce le cose: di molti bravi ingegneri, di moltissimi tecnici, e di tantissimi operai e artigiani. E in Italia molte di queste figure professionali verranno necessariamente coperte da lavoratori stranieri.

Gli immigrati penalizzano i lavoratori italiani?
Le ricerche mostrano che nel Centro-Nord e in interi settori di impiego gli immigrati non rubano il lavoro a nessuno, ma fanno lavori che gli italiani possono permettersi di non fare. Un esempio numerico è più chiaro di molte parole. Nel quinquennio 2004-8 gli occupati dipendenti esordienti del settore privato del Veneto con meno di trent’anni sono stati 65 mila ogni anno. Di questi 65 mila nuovi posti di lavoro, 43 mila sono stati occupati da giovani italiani e 22 mila da giovani stranieri. Venticinque anni prima, negli anni 1979-83, nel Veneto sono nati ogni anno 43 mila bambini, praticamente tutti di nazionalità italiana, con una fecondità media di 1,41 figli per donna. Se nel 1979-83 i genitori veneti avessero avuto un numero di figli sufficiente per rimpiazzarli (ossia 2,10 figli per donna), nel Veneto sarebbero nati 64 mila bambini l’anno: quelli sufficienti a coprire, venticinque anni dopo, il fabbisogno di lavoratori. Invece, queste 21 mila mancate nascite sono state «sostituite», venticinque anni dopo, dall’ingresso nel mercato del lavoro di altrettanti giovani stranieri. Ciò non è avvenuto nel Sud. In un’economia più fragile, meno dinamica, in larga misura precaria e irregolare, gli stranieri spesso sostituiscono i lavoratori italiani, perché si accontentano di salari ancora più bassi e accettano condizioni di lavoro disumane. Si realizza quello che sembra un paradosso, con l’ingresso di nuovi immigrati – sia pure in misura molto più contenuta rispetto alle aree più ricche del paese – disponibili a fare lavori manuali, pur in presenza di una forte disoccupazione degli italiani.

Fenomeni non dissimili possono realizzarsi anche al Centro-Nord, per lo più confinati nei settori dove il lavoro è meno tutelato e strutturato (come l’edilizia e i servizi di pulizia). Quindi, al Centro-Nord i lavoratori stranieri raramente «rubano il posto» agli italiani. Inoltre, neppure i salari degli operai italiani sono stati penalizzati dall’arrivo di tanti stranieri. Ciò è accaduto perché nel decennio 2000-10, senza le immigrazioni, il numero di persone disposte a fare lavori manuali sarebbe drammaticamente diminuito, a causa di un numero di «colletti blu» pensionati molto maggiore rispetto al numero di nuovi lavoratori italiani disposti a fare gli operai. Quindi, l’arrivo di tanti stranieri non ha aumentato l’offerta di lavoro manuale, ma si è limitato a mantenerlo costante o lievemente decrescente. Ecco perché, periodicamente, le associazioni degli artigiani e degli industriali – anche in tempo di crisi – lanciano allarmi sulla difficoltà di trovare frigoristi, montatori di infissi, piastrellisti, idraulici, panettieri, ma anche tecnici diplomati. E siamo già sicuri che – nei prossimi vent’anni – le cose non cambieranno, perché in Italia, senza immigrazioni, ogni quattro persone che compiranno sessantacinque anni ci saranno solo tre persone che ne compiranno venti, e di questi uno solo è disposto a fare l’operaio.
A ben vedere, addossando ai lavoratori stranieri la «colpa» dei bassi salari dei lavoratori italiani, facciamo lo stesso errore messo in luce nel paragrafo precedente, sbagliando a individuare il colpevole della bassa crescita e della bassa produttività. In Germania gli stranieri sono quanti in Italia, ma i salari degli operai sono assai più alti (sia per i tedeschi sia per gli stranieri). Ciò può accadere perché in Germania la produttività è più alta, e quindi diventa più larga la torta da spartire fra l’impresa e i lavoratori. Va ribadito con forza che il problema dell’economia italiana (e dei lavoratori italiani meno garantiti) è una produttività bassa e stagnante, e che l’immigrazione con questo c’entra poco.

La grande rapidità dell’assimilazione
Ormai anche nel nostro paese iniziano a diffondersi studi empirici che mettono a confronto gli italiani e gli stranieri. I risultati mostrano quanto siano infondati i pregiudizi del pessimista di destra. Pochi anni dopo il loro arrivo in Italia, gli stranieri condividono gran parte degli atteggiamenti e degli obiettivi di vita dei loro colleghi italiani. Questa assimilazione (nel senso di «diventare simili») è particolarmente lampante fra i bambini e gli adolescenti. Le aspirazioni e i sogni dei giovani stranieri che vivono in Italia da almeno quattro o cinque anni sono praticamente indistinguibili rispetto a quelli dei loro coetanei italiani. Italiani e stranieri vogliono fare gli stessi lavori, trascorrono allo stesso modo il tempo libero, non esprimono particolari preferenze «etniche» nella scelta dei loro amici. Semmai, gli stranieri hanno una marcia in più, perché riescono ad accostare al loro «sentirsi italiano» o «sentirsi veneto» (o toscano, o lombardo…) l’orgoglio di appartenere al paese d’origine dei loro genitori. È falso anche che l’assimilazione dei non cristiani sia più lenta e faticosa. Rapida è l’assimilazione dei giovani islamici tunisini ed egiziani, mentre grossi problemi si notano fra i giovani cattolici di origine ecuadoregna, peruviana e filippina, non per misteriosi motivi «etnici», ma per carenza di quello che i sociologi chiamano «capitale sociale»: i loro genitori – spesso impegnati nei servizi domestici – non sono in grado di seguirli dopo la scuola. Anche in Italia, quindi, gli stranieri vivono la pluri-appartenenza, proprio come è accaduto agli italo-americani e agli italoaustraliani. Dovremo abituarci sempre più spesso a parole come italo-cinese, italo marocchino o italo-rumeno (anche se questi termini invertono l’ordine del tempo storico… ma parole come cino-italiano o marocchinitaliano suonano proprio male!).

Quindi, non è vero che gli stranieri annacquano l’identità italiana. Semmai avviene il contrario. È l’identità straniera a modificarsi rapidamente. Perché migrazione è selezione: chi viene in Italia – quasi per definizione– è desideroso di entrare a pieno titolo nel suo nuovo ambiente, perché in questo paese, che rapidamente impara a sentire come suo, vuole giocare le sue chances di successo. È invece possibile che molti fra i figli degli immigrati sviluppino risentimento verso l’Italia. Ma ciò non avviene perché questi giovani si sentono poco italiani, ma perché si sentono troppo figli del Bel Paese. Essi troppo spesso non hanno gli strumenti per realizzare i loro sogni, che sono molto simili, quasi sovrapponibili, a quelli dei coetanei italiani. Le ricerche mostrano con chiarezza che il gap dei risultati scolastici fra italiani e stranieri si allarga fin dalle scuole elementari, diventando enorme nelle scuole medie inferiori e superiori. E la penalizzazione è fortissima anche per gli immigrati di seconda generazione, nati in Italia e quindi socializzati in lingua italiana. Perché – come ai tempi di don Milani – la scuola italiana perpetua le diseguaglianze familiari, favorendo chi ha una famiglia alle spalle dotata di cultura scolastica. Gli autori di questo libro (e specialmente le loro mogli) hanno passato e passano parecchie serate a ripassare con i loro figli il Risorgimento, l’oscuro Eraclito, le equazioni di secondo grado, l’apparato digerente e il Canto di Paolo e Francesca. Ma i genitori con meno cultura scolastica non possono farlo, specialmente se conoscono male l’italiano. A nostro avviso, questo è uno dei maggiori rischi indotti dalla rivoluzione migratoria. Ma non si tratta di un destino prescritto. Come si osserva nei paesi di più antica vocazione migratoria, il destino delle seconde generazioni è fortemente legato al tipo di politiche scolastiche del paese ospite. Se si dà loro più scuola e buona scuola, le seconde generazioni chiudono rapidamente buona parte del gap di partenza. Bisogna insegnare l’italiano a chi non lo sa, dare aiuti nei compiti a casa, dare borse di studio per spingere i più capaci e meritevoli verso percorsi scolastici più impegnativi. Sono le stesse cose che suggerivano gli studiosi negli anni Sessanta osservando le difficoltà dei bambini meridionali nelle scuole lombarde e piemontesi. Vecchie ricette poco attuate, ma non per questo meno necessarie e urgenti.

Gli stranieri non rallentano la modernizzazione
Quanto appena detto sfata anche alcuni pregiudizi del pessimista di sinistra. Non è vero che culture lontane sono fra loro irrimediabilmente irriducibili. Anzi, le migrazioni – facendo selezione – fanno arrivare in Italia proprio le persone più aperte al nuovo, più disposte ad accogliere con benevolenza e a guardare con simpatia la cultura che li ospita. I nostri emigrati italo-australiani sono orgogliosi della loro doppia appartenenza. Si sentono allo stesso modo italiani e australiani, perché nell’Italia riconoscono le loro radici, nell’Australia le ragioni del loro successo. La consapevolezza di ciò dovrebbe indurre – anche fra gli italiani sedicenti progressisti – comportamenti conseguenti. Non ha senso, ad esempio, espungere dalle scuole i simboli del cattolicesimo (il crocefisso, il presepe…) per timore di offendere chi cattolico non è, in nome di una mal posta politically correctness. Ha senso invece accogliere nella scuola anche nuovi simboli religiosi, spiegando a tutti i giovani – italiani e stranieri – il significato degli uni e degli altri.

È sbagliato anche sostenere in astratto che «i bambini sono tutti uguali» come se questa affermazione di principio (ovviamente condivisibile) potesse da sola colmare le diseguaglianze. Purtroppo, per la grande maggioranza dei bambini stranieri (e per i bambini italiani poveri) i gap linguistici e di apprendimento sono consolidati e destinati ad ampliarsi con l’età, a meno di politiche attive che in altri paesi – come l’Australia e la Svezia – hanno mostrato di poter colmare parte dello svantaggio iniziale. Non è nemmeno vero che le immigrazioni siano un ostacolo all’emancipazione femminile. Alcuni tragici fatti di cronaca mostrano quanto sia difficile – per alcuni uomini immigrati provenienti da paesi dove le donne sono cittadine di serie B – accettare comportamenti femminili che per le italiane di oggi sono la normalità: scegliere il proprio fidanzato e marito, uscire da sole, girare a braccia e a capo scoperti. Ma non bisogna confondere pochi casi – per quanto ripugnanti ed eclatanti – con la normalità.

Molte ricerche mostrano che – silenziosamente – le cose stanno cambiando, e con grande rapidità. Le aspirazioni delle ragazze straniere – anche di quelle provenienti da paesi islamici, dall’India e dalla Cina – sono più orientate verso la carriera che verso la maternità. Sorprendentemente, le ragazze straniere desiderano avere un numero di figli più basso rispetto alle coetanee italiane, anche se provengono da famiglie più numerose. Non è vero neppure che le immigrazioni degli stranieri abbiano rallentato la trasformazione dell’Italia da una società basata sull’appartenenza familiare a una società basata sul rispetto dei diritti e dei doveri individuali. Innanzitutto di tale trasformazione non si vede traccia, e la famiglia a grappolo – basata sui legami di sangue – in Italia è più forte che mai. A ben guardare, sono proprio gli stranieri a venire penalizzati da questo tipo di struttura sociale. Gli italiani, quando andavano in Australia, in Germania o negli Stati Uniti, si trovavano a competere con famiglie «a legami deboli», dove i ragazzi a vent’anni uscivano di casa, e dovevano cavarsela da soli. Quando uno straniero viene in Italia – invece – e vorrebbe garantire al proprio figlio una vita migliore della sua, si trova a competere con la geometrica potenza di agguerritissimi e ben organizzati trust familiari, che aiutano i giovani italiani a trovare lavoro, li coccolano a casa durante la vita universitaria, li tutelano nei periodi di disoccupazione… Sono proprio gli stranieri, che raramente possono contare su un network familiare ben strutturato e ramificato, ad avere la necessità di politiche efficaci erga omnes, non basate sul presupposto di interloquire in prevalenza con cittadini dotati di un paracadute familiare. Tenendoli fuori dal gioco democratico – negando il diritto di voto e ponendo mille ostacoli all’acquisizione della cittadinanza italiana – impediamo che dagli stranieri venga un’importante spinta ad adottare politiche orientate verso i diritti e i doveri individuali e non sull’appartenenza familiare.

Infine, le badanti. È profondamente sbagliato considerarle un rimedio disperato alla mancanza di welfare per gli anziani. Piuttosto, l’assistenza domiciliare resa da donne straniere è la «via italiana» (ma anche greca e spagnola) alla gestione della non autosufficienza e dell’incremento degli anziani. Solo grazie alle badanti l’Italia mantiene il primato europeo nella minor proporzione di anziani in casa di ricovero (un terzo rispetto ai Paesi Bassi e al Regno Unito). Grazie a questo milione di signore che vengono da lontano, nel 2011 centinaia di migliaia di italiani possono restare a casa loro, accanto agli affetti e alle cose più care, e non in un istituto, magari attrezzatissimo ed efficientissimo, ma certamente meno amichevole delle pareti domestiche. Le badanti sono un dono del destino (o del crollo del muro di Berlino, se preferite). E come tale dovrebbero essere rispettate, tutelate e garantite, favorendo contratti di lavoro decenti, combattendo il «nero», stipulando accordi con i paesi di provenienza eccetera.

Gli immigrati: da capro espiatorio a spinta alla modernizzazione
L’idea sbagliata che le immigrazioni frenino la modernità e lo sviluppo trae origine dall’insicurezza che i grandi cambiamenti sempre generano. Quando tutt’intorno si respira insicurezza, le società umane vanno in cerca di capri espiatori, qualcuno su cui accanirsi per ritrovare sicurezza e compattezza. Perché il meccanismo del capro espiatorio è antico, semplice e terrificante: non importa che la vittima sia veramente colpevole, l’importante è che tutti la credano tale. Invece, è proprio diventando una società a colori che l’Italia potrà fare un passo importante sulla strada della modernizzazione e dello sviluppo. Non c’è nulla di più sbagliato del termine «barconi di disperati», tanto spesso utilizzato dalla stampa e dalla televisione parlando di chi approda – stremato – sulle coste dell’Italia del Sud. Chiamiamoli morti di fame o straccioni, se vogliamo. Ma certamente non disperati. Perché se quegli uomini e quelle donne hanno affrontato disagi per noi difficili da immaginare, è proprio perché sono pieni di speranza. Sono le persone più intraprendenti delle loro povere comunità. Gli immigrati possono dare una formidabile spinta all’Italia perché – trasferendosi nel nostro paese – portano con sé dosi massicce di capitale umano: desiderio di successo, disponibilità al sacrificio, volontà di superare le difficoltà. Sono le prime qualità necessarie in una società capitalistica e dinamica. Come le immigrazioni degli straccioni cattolici irlandesi, italiani e polacchi (e poi messicani, portoricani…) non hanno frenato lo sviluppo degli americani bianchi, anglosassoni e protestanti, così i milioni di poveracci che sono arrivati e arriveranno in Italia – anche se provenienti da culture spesso per noi difficili da comprendere – potranno aiutare l’Italia a uscire dal vicolo cieco del basso sviluppo e della bassa mobilità sociale.

Per saperne di più
Sono uscite di recente alcune ottime rassegne sulle immigrazioni in Italia. Di taglio classico: I nuovi contesti del lavoro: l’immigrazione straniera, di Corrado Bonifazi e di Francesca Rinesi, in Demografia del capitale umano, a cura di Massimo Livi Bacci (il Mulino, 2010). Di ampio taglio storico internazionale – ma attento anche a cogliere le peculiarità del tempo presente e della situazione italiana: In cammino. Breve storia delle migrazioni, di Massimo Livi Bacci (il Mulino, 2010). Gran parte delle osservazioni qui riportate sulle relazioni fra immigrazione ed economia in Italia sono state rese possibili da: Invecchiamento, immigrazione, economia, di Nicola Sartor (il Mulino, 2010). In questo volume vengono analizzate criticamente le più recenti ricerche sul tema – in gran parte opera del Servizio Studi della Banca d’Italia – riferite alla situazione italiana. Per approfondire lo studio delle condizioni delle seconde generazioni in Italia si vedano i risultati dell’indagine Itagen2, sintetizzati da Gianpiero Dalla Zuanna, Patrizia Farina e Salvatore Strozza: Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese? (il Mulino, 2009). Per un approfondimento di taglio sociologico sul servizio domestico straniero in Italia: Badanti & Co. Il lavoro domestico straniero in Italia, a cura di Raimondo Catanzaro e Asher Colombo (il Mulino, 2009). La citazione di Pierluigi Ciocca è tratta dal libro Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, 2007, pp. 342-343. Per le relazioni fra migrazioni e sviluppo vedi anche Sviluppo economico e struttura, di Simon Kuznets (il Saggiatore, 1969).

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È uscito per Laterza Cose da non credere. Il senso comune alla prova dei numeri, di Gianpiero Dalla Zuanna e Guglielmo Weber. Gli autori del libro prendono in esame otto luoghi comuni molto radicati, tra cui: “Non ci sono più le famiglie di una volta”, “Italians do it better”, “Stiamo diventando sempre più vecchi: ci aspetta un futuro di povertà, Ci vogliono far lavorare fino a cent’anni”, “L’unico investimento sicuro è il mattone” e “Nel nostro paese ci sono troppi immigrati” e li confrontano con i dati precisi che descrivono i diversi fenomeni sociali.

Gianpiero Dalla Zuanna è professore straordinario in Demografia all’Università di Padova. Si è occupato di comportamento coniugale e riproduttivo (in particolare, delle peculiarità dell’Italia rispetto agli altri paesi ricchi), e di integrazione delle seconde generazioni di immigrati.
Guglielmo Weber è professore ordinario di econometria presso l’università di Padova.

foto: NICOLAS ASFOURI/AFP/Getty Images