Le tasse della Chiesa e San Francesco

Emma Bonino spiega i privilegi fiscali concessi al Vaticano e le proposte per ridurli

di Emma Bonino

Nelle numerose puntate di questa infinita saga chiamata “manovra”, sono state annunciate e poi ritirate le proposte più balzane. Ne abbiamo sentite di tutti i colori – perfino l’idea di un’imposta di bollo sulle rimesse degli immigrati irregolari! – ma intervenire sui privilegi del Vaticano si è confermato ancora una volta un tabù inviolabile. E’ bastato proporre il taglio di alcuni di essi perché la politica, in maniera bipartisan, nascondesse di corsa la testa sotto la sabbia. È successo sabato scorso in Commissione Bilancio del Senato quando l’emendamento – a firma dei radicali Perduca e Poretti, oltre alla sottoscritta, e Chiaromonte (Pd) – sull’abolizione dell’esenzione dell’Ici per le attività commerciali del Vaticano è stato respinto all’unanimità, al netto del voto favorevole di 3 senatori del Pd: Agostini, Carloni e Vita. L’emendamento era volto a recuperare entrate valutate dall’Anci tra i 400 e i 700 milioni di euro l’anno.

Come abbiamo cercato di spiegare in tutti i modi, spesso invano a causa dell’intossicazione mediatica che ci ha travolti, non erano le attività di culto ad essere prese di mira ma quelle commerciali su cui, come ammette lo stesso Avvenire, l’area di elusione, tutta giocata sui dubbi interpretativi, non è irrilevante. Se a questo si aggiunge che gli enti ecclesiastici già godono di una riduzione dell’Ires (imposta sul reddito delle società) del 50%, sommandola all’esenzione dell’Ici si arriva a 2 miliardi di euro l’anno. In altre parole, si tratta di veri e propri aiuti di stato, non a caso sotto la lente della Commissione europea, a favore di chiunque faccia profitti da attività immobiliari, turistiche, sanitarie e scolastiche sul suolo italiano ma con lo scudo del Vaticano e in barba alle più elementari leggi della concorrenza.

Come delegazione radicale abbiamo anche presentato un ordine del giorno sull’otto per mille. Negli ultimi venti anni il suo gettito è aumentato di cinque volte, passando dai 210 milioni di euro del 1990 al miliardo di oggi, spesi soprattutto per pagare gli stipendi ai sacerdoti, costruire nuove chiese, finanziare i Tribunali della Sacra Rota, nonché le varie iniziative politico-culturali della Conferenza episcopale e la galassia di associazioni protagoniste della guerra al referendum sulla Legge 40 e contro Welby e Englaro. Non c’è dubbio che le autorità vaticane abbiano ottenuto dal concordato revisionato nel 1985 molto di più di quanto lo Stato italiano abbia previsto in sede di sua elaborazione. Paradossalmente, i Presidenti del Consiglio democristiani pre-revisione furono più avveduti nell’incrementare il vecchio “supplemento di congrua” e spesso i governi laici si sono dimostrati più clericali di quelli filo-cattolici. Poiché il metodo di distribuzione della quota dell’otto per mille, che attribuisce alla Chiesa (e a qualche confessione di minoranza che l’ha ottenuto nelle intese) non solo la quota di imposte dei contribuenti che l’hanno indicata come destinataria, ma anche la corrispondente quota proporzionale delle scelte non espresse, ciò smentisce l’affermazione di Craxi in Parlamento che cessava il finanziamento statale alla religione cattolica, sostituito dalla contribuzione dei fedeli attraverso lo strumento erariale pubblico. Infatti, le somme erogate sono quote ordinarie del prelievo fiscale obbligatorio, indipendentemente dal vincolo di destinazione. L’enorme esborso di risorse erariali costituito dall’otto per mille attribuito alla Chiesa è una delle risorse pubbliche sottratta a qualsivoglia controllo di spesa (per non parlare di censurabilità) da parte dello Stato. Per tutti questi motivi, nell’ordine del giorno abbiamo chiesto al governo di attivare le procedure necessarie, d’intesa con la CEI, per una diminuzione dell’aliquota, indicativamente nella misura del quattro per mille, come peraltro la stessa legge istitutiva prevede in caso di aumenti di gettito; di rivedere il meccanismo della ripartizione delle scelte non espresse in modo che l’otto per mille di chi non indica una destinazione rimanga nel bilancio generale dello Stato; di autorizzare l’accesso agli atti, finora negato, della Commissione paritetica, istituita dall’art.49 della legge 222/85, che ha un compito di revisione dell’otto per mille e il cui operato sembra essere coperto da un vero “segreto di stato”.

In breve: se, nel 2003, la CEI riuscì ad accantonare in un anno 80 milioni di euro come fondo di riserva, allora significa che qualche economia si può fare. Quando il Vaticano e le sue diverse ramificazioni costruiscono profitti con il loro immenso patrimonio immobiliare, con il turismo, con le cliniche e le università, non v’è ragione che non paghino le stesse tasse di tutti. Questo significa essere “nemici” della Chiesa? Di anticristiano c’è solo l’uso del denaro a fini del potere. Quel potere che rende meno libera la stessa comunità religiosa rispetto alla sua reale vocazione. Se questo significa essere nemici della Chiesa, allora lo era anche San Francesco. Non a caso nessun Papa ha mai scelto di chiamarsi con il suo nome.