Chi è Jaron Lanier

Il New Yorker ha pubblicato un ritratto del visionario teorico della realtà virtuale divenuto riferimento delle critiche all'uso delle nuove tecnologie

Dice Jaron Lanier nella conclusione del suo ritratto pubblicato questa settimana dal New Yorker:

«Se mia madre non fosse morta, penso avrei avuto un successo più convenzionale: forse sarei un professore a Harvard o qualcosa del genere. Mio padre invece era più su “sii un Buckminster Fuller o un Frank Lloyd Wright”, l’estroso outsider che diventa influente. Che è tipo come è andata a finire»

Lanier si è meritato tanto spazio sul New Yorker diventando un personaggio ammirato, amato e contestato tra le avanguardie intellettuali della rete, delle nuove tecnologie e della realtà virtuale. Il culto del suo lavoro e del suo pensiero data ormai ad almeno un decennio fa, ma è stato rinnovato ed esteso con la pubblicazione l’anno scorso del suo libro “Tu non sei un gadget“, diventato riferimento di un ampio ed eterogeneo movimento di critici della tecnologia dall’interno della rivoluzione di questi anni. Riferimento spesso equivocato e tirato per la giacchetta da neoluddisti o professionisti dell’anti-internet, laddove il discorso di Lanier è assai distante da “Google ci rende stupidi” e ruota intorno alla richiesta che le tecnologie restino al servizio della creatività e dell’inventiva umana, piuttosto che sostituirle: “Lanier non si lamenta che la tecnologia si sia impossessata delle nostre vite, ma che non ci abbia dato abbastanza in cambio”.

Ma la biografia di Lanier e il suo personaggio aggiungono ulteriore e più accessibile fascino alle sue filosofie. La foto di Martin Schoeller con cui il New Yorker illustra l’articolo è già metà della storia.

Jennifer Kahn, l’autrice dell’articolo, spiega che Lanier vive a Berkeley con sua moglie e la bambina nella foto, in una casa occupata da una costante quantità di disordine e oggetti di ogni genere, tra cui una sterminata collezione di strumenti musicali che Lanier è in grado di suonare. La consuetudine con una gestione caotica e precaria della vita gli viene da un’infanzia decisamente complicata e anomala. Sua madre, pianista e pittrice, morì in un incidente stradale quando lui aveva dieci anni, e Lanier se ne diede sbagliando la colpa per molto tempo. Suo padre, architetto, scrittore, insegnante, lo prese con sé in uno spiantato girovagare costellato di costruzioni di case avveniristiche, abitazioni in tenda, intensa solitudine e grandi curiosità tecnologiche. Lanier fece un paio di tentativi con l’istruzione ufficiale, per abbandonarli rapidamente. Intanto aveva sviluppato una grande passione per la matematica e le scienze. A vent’anni cominciò a lavorare nella progettazione di videogiochi e di hardware per videogiochi, che lo avrebbe portato a dedicarsi alla realtà virtuale, di cui è oggi uno dei più importanti esperti al mondo, nei suoi aspetti tecnici ma soprattutto nelle sue implicazioni ideali. Dopo una serie di piccoli successi e fallimenti, vendette a Google un brevetto sul riconoscimento facciale e fu arruolato in Microsoft, dove lavora tuttora come consulente molto ben pagato ed ha collaborato alla creazione del nuovo Kinect, l’accessorio di Xbox per gestire i giochi col movimento del corpo. Il rapporto con la realtà virtuale di Lanier si è nel frattempo un po’ ridimensionato, da quando pensava che avrebbe creato un mondo nuovo con straordinarie opportunità di interazione del pensiero e delle esperienze, ma ci lavora tuttora: e al centro delle sue ambizioni c’è ancora oggi la costruzione di nuove e più efficaci opportunità di relazioni umane e sociali attraverso la tecnologia.

Oggi, spiega Kahn, Lanier è spesso definito un “visionario” delle nuove tecnologie e un pensatore influente (Time lo ha messo tra i primi cento del mondo), anche se lui ha per carattere una tendenza ad ammorbidire rapidamente la perentorietà delle sue opinioni e insiste sul volersi sottrarre alla definizione di guru e al circuito delle lezioni e dei convegni pubblici, da Davos al TED (di cui ha criticato l’indulgenza verso i narcisismi degli intervenuti). La sua critica nei confronti della piega presa dalla rete in questi anni si concentra soprattutto sulla passività indotta negli utenti, in particolare da Facebook e da altri servizi che tendono a ingabbiare in modalità costituite da altri e poco duttili le nostre attività e i nostri potenziali ideativi e creativi. È un agguerrito contestatore dei teorici della grandezza e superiorità delle macchine, come Ray Kurzweil e tutto il giro della “Singularity” E al festival SXSW di Austin del 2010 chiese al pubblico di non twittare, bloggare o diffondere il suo intervento fino a che non fosse terminato.

«Se prima ascoltate, e scrivete poi, quello che scriverete avrà avuto il tempo di passarvi attraverso il cervello, e voi ne farete parte. Questo vi fa esistere. Se diventate soltanto trasmittenti di informazioni, esistete davvero?»

foto di Luca Vanzella

Tu non sei un gadget, di Jaron lanier
Luca Sofri sul libro di Jaron Lanier, febbraio 2010