La giornata di ieri in Val di Susa

Marco Imarisio racconta la battaglia dei No TAV a Chiomonte, e chi erano i suoi protagonisti

Marco Imarisio, giornalista del Corriere della Sera, ieri era a Chiomonte e ha seguito per intero la procedura di sgombero da parte delle forze dell’ordine dei blocchi posizionati dai movimenti No TAV, che volevano impedire l’apertura del cantiere della ferrovia Torino-Lione.

L’uomo che fugge aggrappandosi alle reti antifrane indossa una maglietta nera con l’immagine di Kabir Bedi quando era Sandokan. «Hanno sfondato, hanno preso il campo» . Lo guarda dall’alto, come fosse una Mompracem perduta. Poi ricomincia l’arrampicata, perché la nuvola di gas lacrimogeni sta salendo sul costone di roccia che incombe sul presidio. La libera repubblica della Maddalena finisce alle 9.30 del mattino tra i rovi e i massi della montagna Ramat, unica possibile via di fuga dai blindati di polizia e carabinieri che circondano la piazzola dell’eco-museo di Chiomonte, che per 36 giorni ha definito i confini di questa autoproclamata utopia. Non è un esercito in rotta, quello che si ritira sui dirupi di questo spuntone inospitale. Si tratta piuttosto di un gruppo eterogeneo proveniente dal Nord più antagonista che la scorsa notte, dopo una fiaccolata che ha raccolto 5.000 abitanti della Valsusa, ha preso possesso del campo. Con l’avvicinarsi dell’alba, annunciata dal rumore di elicotteri e blindati, i «civili» , vecchi e bambini, sono tornati a casa. Marisa Meyer, la cuoca ufficiale del presidio, si è invece chiusa nella sua tenda, a preparare pentole di caffè. «Con azioni aggressive— dice— rimarremmo isolati, mandando in malora 22 anni di lotta non violenta. Non la voglio, questa guerra». Alla fine non l’ha avuta, nonostante premesse tutt’altro che incoraggianti. Quel che si vede, per fortuna, è solo una rappresentazione del conflitto. Alle 4.30 via dell’Avanà, l’unica strada che porta dritta alla presidio, sembra un presagio. L’ingresso viene sbarrato da quattro pesanti lastre d’acciaio, dietro alle quali vengono posizionati estintori e molotov pronte all’uso. Ogni quindici metri c’è un posto di blocco dall’aspetto minaccioso. Il secondo è formato da alcuni pali di legno puntati verso eventuali aggressori, sembra un carro medievale, che al suo interno nasconde anche spranghe di ferro pronte all’uso. A sovrintendere alle operazioni ci sono decine di incappucciati, gente che nessuno ha mai visto prima d’ora. Sono i «matti», così li chiamano al campo base, convocati dai centri sociali torinesi come truppe di supporto, gente dell’area anarchica alla quale le sorti della Valsusa non interessano troppo.

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