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  • Lunedì 27 giugno 2011

La cospirazione delle colombe

Il nuovo romanzo di Vincenzo Latronico parla di falchi e colombe, dei progetti che facciamo, dei fallimenti che subiamo, di Milano e di questi tempi

di Vincenzo Latronico

Nasce ogni tanto un uomo o una donna che un giorno concepirà in cuore il progetto di conquistare il mondo; e poco dopo averlo concepito partirà, in cerca di un luogo dove affilare i coltelli. C’è stata la scuola ufficiali, c’è stata la corte, c’è stata la strada che dal seminario conduce alla mitra. Ma il tempo passa, le mode cambiano: in mancanza di meglio, in un secolo che ignora gli eserciti, ride del papa e ricorda i suoi re solo sui rotocalchi, il primo passo per la conquista del mondo è l’ammissione alla Harvard Corporation of America.

Fra i laureati della Harvard Corporation of America si contano 8 presidenti degli Stati Uniti d’America, 22 presidenti di nazioni estere, 40 premi Nobel e alcune decine degli uomini più ricchi del mondo secondo la rivista Forbes; i suoi studenti si collocano mediamente entro il terzo percentile mondiale per quoziente intellettivo ed entro il primo per posizione patrimoniale. La retta d’iscrizione, comprensiva di copertura assicurativa, vitto e alloggio, si attestava nel 2003 intorno ai 70.000 dollari l’anno, il che, calcolò rapidamente un appena diciassettenne Alfredo Cannella quando lo apprese dal sito dell’università, corrispondeva all’incirca a 200 dollari al giorno. Anche la domenica.
La retta non costituiva un ostacolo per le sue tasche di veneziano perbene, di compratore di onori. Lo erano, però, certe idee dei suoi genitori, che quando gliene parlò svicolarono, lo invitarono a pensarci su, perché nessuno in famiglia era mai andato a farsi insegnare le cose dagli americani, che a scuola nemmeno fanno il latino. I genitori ne discussero in solitudine più tardi, la sera stessa, osservando il tramonto dal ponte di prua del loro settanta piedi in rada nel golfo di Positano, ma senza raggiungere una conclusione, tanto che a un certo punto l’argomento sfociò nel silenzio in cui, di solito, sfociavano gli argomenti fra loro.
“Se anche gli dicessimo di sì,” pensò il padre di Alfredo Cannella, “non lo prenderebbero.”
“Queste onde,” pensò nel frattempo sua madre, “assomigliano proprio a ghiaccio e martini.”
Il 21 aprile 2004 i coniugi Cannella convocarono il figlio sul ponte, di mattino, nella ruggente primavera del litorale campano, e gli dissero che sì, sarebbe potuto andare a Harvard – se lo avessero ammesso, cosa di cui comunque nessuno, o quasi, dubitava. Gli dissero che quell’estate avrebbe frequentato, lì, un corso di inglese, per farsi un’idea del posto. “Adesso però vai a fare una nuotata,” gli dissero anche, “c’è il mare stamani che pare un brodino,” ed era proprio così.
Al suo arrivo a Cambridge, a fine giugno, Alfredo Cannella fu assalito dall’odore di ozono folgorato nell’aria da un temporale recente, e dall’odore di soldi. Passò uno splendido mese in un appartamento affittato dalla segretaria di suo padre; apprese finalmente quando usare should e could e, sopra ciò, due o tre cose sul mondo. Passò molti pomeriggi a bere birra, che per legge non avrebbe potuto bere, immaginandosi negli anni venturi a traversare i viottoli cremisi che a grappoli si spandono appresso a Harvard Square. Si vedeva come i gruppi di studenti, quelli veri, quelli già ammessi, che aveva intorno: si vedeva ricco, bellissimo e smart, pronto a ricevere l’istruzione e il futuro migliore che un Occidente in declino avesse da offrire; pronto a esercitare il diritto borghese di perdere tempo; pronto a scopare. Spese molte serate con una diciottenne croata che era lì per le sue stesse ragioni. Si incontravano, dopo le lezioni, al ponte che da Cowperthwaite Street porta all’Accademia di Scienze Politiche. Lei voleva studiare Psicologia, e sulle panchine non si sedeva mai troppo vicina ad Alfredo e gli raccontava com’era l’America per chi ancora aveva in casa echi di guerra. Alfredo le parlava di musica e di denaro e di cosa significasse vivere a Venezia, dove lei non era mai stata ma che conosceva per via di alcuni viaggi del padre.
“Non sono mai stata a Venezia, capisci? Eppure è così vicina,” gli diceva, “o sembra vicina quando sono in Croazia. Da piccola mio padre mi raccontava che col bel tempo la si può quasi vedere dalla costa,” e quando il cielo era terso, gli disse, si convinceva di poter scorgere la sagoma di qualche guglia, o una gondola in lontananza, oltre l’Adriatico, “ma quello che vedevo quando andavo al molo,” gli disse, “non aveva nulla a che fare con Venezia. Capisci?”

Alfredo però non capiva, perché era occupato a formulare graziose metafore per descrivere i suoi capezzoli, metafore con frutti. Erano immagini che sperava di poter usare più tardi, la notte, in momenti di intimità, dopo, e che però restarono inutilizzate. Alla fine dell’estate, Alfredo non aveva accumulato tutte le esperienze sessuali che si era augurato, ma per quelle, si disse, gli restava ancora un anno di liceo, in cui la sicurezza derivante da un futuro a Harvard gli avrebbe reso tutto più facile. Ovviamente, Alfredo Cannella si sbagliava.
C’era un’altra cosa su cui Alfredo Cannella si sbagliava: nonostante l’appoggio dei suoi professori del liceo, e nonostante una carriera scolastica sopra la media, nonostante il censo e le variegate attività extracurricolari – il nuoto, le lingue, i giovani del Lions –, la sua domanda di ammissione alla Harvard Corporation of America fu rifiutata. Il rifiuto gli fu comunicato da un laconico messaggio in una busta coperta di timbri e di veli di plastica, che atterrò a Venezia il 28 marzo del 2005 e giacque nella cassetta delle lettere per soli dieci minuti, prima di essere prelevata da mani molto ansiose. Il messaggio fu poi letto da suo padre in sala da pranzo, alla presenza di madre, domestica e cane.
“Non ti hanno preso,” gli disse suo padre. “Come no?” “I te ga segà.” “Ah,” fu sorpreso, Alfredo, e riuscì solo a puntare il piede sulla moquette del soggiorno, a puntarlo con la determinazione di una lancia lunghissima che da molto lontano trafigge qualcosa che non si aspetta di essere trafitto da una lancia.
Alfredo Cannella accettò il rifiuto molto peggio di quel che diede a vedere, e nessuno si accorse di quanto gli bruciò, alla fine, svegliarsi di mattina presto per prendere il treno che lo avrebbe condotto a Milano e lì sostenere l’esame di ammissione all’Università Commerciale Luigi Bocconi, dove non ebbe problemi a entrare.
Fu all’Università Commerciale Luigi Bocconi che conobbe Donka Berati. Si incontrarono al terzo anno di corso, quando Donka era appena arrivato da Cambridge. Al contrario di Alfredo Cannella, infatti, due anni prima Donka Berati era stato ammesso alla Harvard Corporation of America, e per di più con una borsa di studio. L’aveva frequentata con eccellenti risultati, almeno per un certo periodo, che, come talvolta accade, aveva avuto termine con la sua spettacolare espulsione.

*****

Donka non lo sapeva, ma i falchi che fingono di essere colombe erano l’argomento centrale di un capitolo di quella che un tempo sarebbe stata la mia tesi di dottorato. In quel capitolo tentavo di analizzare il comportamento degli animali sociali dividendoli in due categorie, in base a come si rapportavano agli altri: i “falchi”, che in un incontro tendono a massimizzare il proprio profitto a discapito dell’altro, e le “colombe”, che preferiscono cooperare anche a costo di rimetterci qualcosa. È un falco, si potrebbe dire, chi è pronto a tradire; è una colomba chi, a costo di essere tradito, si fida. Il modello dell’“incontro” era un modello astratto, valido per analizzare le situazioni più disparate: poteva concretizzarsi nel rapporto predatore/preda (in cui il profitto del primo, il nutrimento, va a scapito della vita del secondo) o nell’interazione fra maschi dominanti della stessa specie (che in caso di una disputa territoriale possono, per esempio, combattere – risultandone un vincitore con territorio doppio e uno sconfitto morto – o accordarsi su un confine, rinunciando a un po’ di terreno per avere entrambi salva la vita). Il modello, valido per ogni tipo di comportamento sociale, si poteva applicare anche ai rapporti professionali o commerciali fra esseri umani.
Un risultato noto nella teoria dei giochi è che la selezione naturale tende a privilegiare i gruppi di colombe. Benché nel singolo incontro il falco abbia la meglio, infatti, alla lunga le colombe riterranno più efficace interagire solo con altre colombe, tenderanno a formare un gruppo a sé; e questo gruppo, collettivamente, prospererà molto più di quello dei falchi, rimasti senza prede da tradire. Il risultato ha qualcosa di paradossale: le colombe, che non possono mai “vincere” un incontro (ma al massimo pareggiare, se l’altro coopera), sul lungo termine hanno la meglio; i falchi, emarginati, non troveranno più nessuno disposto ad accordarsi con loro, e finiranno per estinguersi. Questo risultato è stato considerato una spiegazione della sopravvivenza dei geni dell’altruismo, che in teoria sono svantaggiosi per chi ne è portatore a favore di chi gli sta intorno. Il suo aspetto paradossale ha incoraggiato il proliferare di espressioni colorite nel descriverlo. Per parlare dell’importanza degli effetti a lungo termine (la “reputazione” negativa dei falchi, e quindi la loro emarginazione) si dice che l’ombra del futuro è lunga. Per parlare del fatto che, controintuitivamente, le colombe riescono nel giro di poche generazioni a sopraffare una qualunque popolazione di falchi, si parla di una cospirazione delle colombe.

“La cospirazione delle colombe” era il titolo di un capitolo della mia tesi. In esso sostenevo che, in società come quella umana, nella quale il comportamento può essere modulato in base alle possibilità di successo che garantisce, non c’è necessità di aspettare svariate generazioni perché la cospirazione delle colombe abbia successo. Se davvero l’essere una colomba garantirà guadagni maggiori, i falchi si convertiranno molto rapidamente: e, appunto, faranno finta di essere colombe. Questa è a tutti gli effetti una simulazione della morale: i falchi parteciperanno alla cospirazione e si comporteranno “bene”, rinunciando ai profitti immediati del tradimento, non per via di uno scrupolo di coscienza o per tema del giudizio divino, ma semplicemente in virtù di un profitto più alto nel lungo periodo.
Il successo della cospirazione delle colombe, scrivevo anche nella mia tesi, si basa sul fatto che l’ombra del futuro è lunga, e quella del presente breve. È necessario, cioè, che essere colombe convenga, come conviene nel modello astratto: altrimenti i falchi non fingeranno di esserlo: altrimenti saranno le colombe a cambiare sponda. Perché non tradire sia conveniente, occorre che non accada mai che un singolo tradimento porti un guadagno abbastanza alto da rinunciare a ogni interazione futura: altrimenti importerebbe poco l’essere cacciati dalla comunità delle colombe, si prospererà comunque. In natura i tradimenti sono cose da poco: prendere più della propria parte di preda, corteggiare una femmina altrui, sconfinare dal territorio: difficilmente permetterebbero di mantenersi per tutta la vita al di fuori della comunità di origine. È per questo che, in natura, il modello astratto della cospirazione delle colombe è ritenuto credibile, e viene esteso alla società umana: un tradimento tanto conveniente da cancellare l’ombra del futuro, in natura, è ovviamente inconcepibile.
Nella cartella del mio computer che conteneva la bozza della mia tesi di dottorato, nel file intitolato La cospirazione delle colombe, quest’ultima occorrenza del sintagma “in natura” era sottolineata due volte.

Vincenzo Latronico ha 27 anni e fa lo scrittore. Ha pubblicato Ginnastica e rivoluzione (2008, Premio Giuseppe Berto) e il testo teatrale Linee guida sulla ferocia (in Working for Paradise, 2009), entrambi per Bompiani. Ancora per Bompiani è uscito da poco il suo nuovo romanzo La cospirazione delle colombe, di cui pubblichiamo l’incipit e un passaggio che spiega il titolo e il tema. La foto che illustra la copertina è di Bruno Muzzolini (Paesaggio, 2009).