D’Alema: «Vorrei dire una cosa a Nichi»

Massimo D'Alema parla delle primarie, di Alfano segretario del PdL, di Montezemolo, della propria antipatia - negandola - e di quando disegnò una svastica

di Luca Sofri

Cosa sta succedendo in Italia, erano prevedibili i risultati elettorali recenti?
«Non c’è dubbio che quello che è accaduto in queste settimane, come spesso accade, in parte è merito dell’opposizione, ma in parte è andato oltre i nostri meriti e oltre le nostre attese. Si è messo in movimento qualcosa, penso soprattutto soprattutto ai giovani, che sono stati protagonisti della campagna elettorale e della campagna referendaria molto al di là di quello che ci si poteva aspettare. Io non credo che c’entri solo Berlusconi. C’entra anche lui, perché si è superato un limite di tollerabilità, ed è scattato un sentimento di riscossa civile, di indignazione, che è un sentimento salutare. Ma io credo che ci sia qualcos’altro, fenomeni più generali. Noi siamo un paese dove si oscilla tra il provincialismo e l’estremo cosmopolitismo. Nel senso che siamo un paese in comunicazione con il mondo, e nel mondo comincia a esserci un sentimento nuovo, perché una lunga stagione di liberismo privato, di dominio dell’economia, e tutti questi valori, che sono stati non solo una forma di governo ma, si direbbe con un linguaggio tranchant, un’egemonia, sono entrati profondamenti in crisi. E quindi le società occidentali sono scosse da una ventata culturale nuova che arriva anche in Italia, ed è un grande fatto positivo. Io non penso che la società italiana sia statica o che bisogni semplicemente affidarsi alla manovra politica: questa è una caricatura. Noi dobbiamo sapere interpretare il nostro cambiamento. Oggi questo paese è in movimento ed è in movimento verso una coscienza civile più avanzata. E il cambiamento politico che noi dobbiamo preparare, perché è urgente che ci sia un’altra guida politica nel paese, deve sapersi collegare a questa realtà.»

Secondo te il mondo lo cambiano più i leader, gli individui, o i popoli e le “masse” come si diceva prima?
«La mia cultura tende a pensare che sono i movimenti collettivi quelli che determinano i cambiamenti più profondi, più duraturi. Naturalmente la politica oggi è fortemente personalizzata, e ci vogliono leader in grado di interpretare questi movimenti collettivi: però un leader che non sia l’espressione di un movimento di fondo della società è un finto leader, e alla fine non produce nulla al di là delle sue fortune personali. Un leader che produce un cambiamento profondo nella società è la forma della leadership più moderna e più democratica. Quindi, sul tema della leadership io penso che si debba discutere e che dica delle cose molto sagge Pier Luigi Bersani quando dice “Noi dobbiamo ricostruire una dimensione collettiva dell’agire politico”. Un leader è il leader non perché scrive il suo nome sulla scheda al posto di un simbolo di partito. Un leader è il leader quando uno vede il simbolo di un partito e immediatamente sa chi c’è dietro, non c’è bisogno di scriverlo sopra. Questa forma esteriore della leadership, questa forma di personalizzazione che ha finito per cancellare la dimensione collettiva della politica, secondo me è dannosa.»

Però non trovi, in questo, che specularmente al centrodestra (dove hanno senz’altro un leader e invece una certa limitatezza di contenuti, progetti, visioni), il centrosinistra e il PD abbiano una tale ricchezza di contenuti, elaborazioni, visioni, progetti, programmi che forse appunto quello che gli manca è più veramente qualcuno che sappia esserne motore, modello, traino, guida, rappresentante e interprete?
«Guarda, è molto più difficile fare il leader in uno schieramento politico che è ricco di tante personalità, che non fare il leader in un’area politica che è più povera di storia, di personalità, e soprattutto tende anche culturalmente a una visione leaderistica della politica. La cultura della destra è molto legata a quella del capo, al riconoscersi nel capo. Noi veniamo da una cultura in cui c’è una fortissima componente libertaria, c’è poco da fare. Tanto più che, quando ci siamo liberati della tradizione comunista, noi abbiamo avuto persino uno sfrenamento, da questo punto di vista, di forme di libertà. Quindi è molto complicato guidare il centrosinistra. Secondo me l’idea che noi dobbiamo aspettare l’uomo della Provvidenza è un illusione»

Però la vittoria di Barack Obama negli USA, che non è sicuramente una vittoria del centrodestra, è una vittoria che sta molto in quella persona lì; e, fatte le dovute proporzioni, le recenti vittorie dell’opposizione nelle elezioni amministrative hanno a che fare molto con quelle persone in quel momento: Giuliano Pisapia, Piero Fassino, Luigi De Magistris…
«È vero, però è anche vero che se uno avesse detto tre mesi fa che Piero Fassino era un leader nuovo, ci avrebbero detto: “Voi riproponete sempre il vecchio.” Poi tu vedi che in realtà, quando una persona ha forza, competenza e personalità si afferma, in un determinato contesto, con una capacità di leadership. Io sono stato entusiasta che Giuliano Pisapia sia apparso come una grande novità della politica italiana, anche perché nei quindici anni in cui è stato deputato insieme con me abbiamo fatto amicizia. E penso che il fatto che lui sia un uomo che ha una lunga esperienza politica lo abbia molto aiutato e lo aiuterà moltissimo anche a fare il sindaco di Milano. Poi, se i giornali me lo presentano come nuovo, va bene. Però non raccontiamoci le favole, almeno noi»

Che cosa immaginavi del tuo futuro quando hai cominciato a fare politica?
«Per la mia generazione, per come sono cresciuto io, l’aspirazione fondamentale del mio impegno politico era quella di diventare segretario del partito comunista. Quando sono arrivato a quarant’anni non c’era più.»

C’è un’immagine pubblica di te come persona molto sicura del fatto suo, molto indipendente e autonoma nel giudizio, nel pensiero, nelle scelte e nelle decisioni, fino a essere disegnata e vista e letta anche da molti come una persona “antipatica”, lettura che immagino ti sarà assolutamente familiare…
«Ma che non condivido!»

Ma cosa ti dici del fatto che tu sia letto come antipatico, presuntuoso, persino spocchioso? Trovi che ci sia un inevitabile fondamento, oppure non te lo spieghi?
«Non lo so, è sempre molto complicato parlare per sè in questo modo. Che poi ognuno innanzitutto nella vita pubblica esiste per come esiste nell’immaginario collettivo, e indubbiamente mi si sono appiccicate addosso delle chiavi di lettura che io trovo deformanti, profondamente deformanti. Ma d’altra parte è più facile cambiare te stesso che non l’immagine e l’idea degli altri, che tende a resistere nel tempo, soprattutto quando poi l’informazione ne fa un cliché.»

E tu sei cambiato?
«Ma io tendo a cambiare, perché no? A sfumare, a chiarire. Poi nel corso della vita normalmente si smussano gli angoli, si capiscono gli sbagli che si sono fatti. Con l’andar degli anni c’è una maggiore tendenza, in realtà (almeno così la vedo io), non a indurirsi, ma semmai a intenerirsi. Quindi, a me non sembra di essere quella persona… A volte lo sono, nei confronti di un certo mondo, ma che è abbastanza limitato. L’avvocato Agnelli, di cui dopo abbiamo vissuto molte imitazioni, ma l’avvocato Agnelli, quello autentico, aveva dei difetti tipici della grande borghesia italiana (un certo cinismo, un certo distacco dal suo paese): ma era un uomo di grande cultura e di grande intelligenza col quale ho avuto un buon rapporto personale. E una volta lui mi disse una cosa, che io considero un grande onore. Mi disse: “Guardi, lei risulta e risulterà sempre più indigesto all’establishment di questo paese.” E lui se ne intendeva, e lo disse tutto divertito. Perché loro non sono abituati alla pretesa dei politici di essere così importanti. E questo è molto importante, perché il modo in cui ti vede l’establishment è il modo in cui ti vedono i giornali. Perché i giornali in Italia sono i portavoce dell’establishment, che ne sono i proprietari. E quindi io ho sempre avuto un grave problema con questo mondo, nel senso che, in un paese in cui la politica è sempre stata debole, io ho sempre avuto l’idea che la politica debba essere indipendente. A volte anche sbagliando, ma indipendente. E questo una parte dell’Italia che conta non l’ha mai potuto sopportare.»

Tu pensi che questa immagine di te ti abbia giocato contro anche in politica?
«Io penso che pochi uomini politici abbiano subito delle campagne contrarie come è capitato a me, e che pochi siano sopravvissuti a queste campagne contrarie. E so benissimo quale oggi può essere utilmente il mio ruolo. Che è quello (come è anche ragionevole per una persona che è stata primo segretario del PDS, primo presidente del Consiglio a provenire dal PCI, vicepresidente del Consiglio…) a un certo punto nella vita politica, avendo ancora alcuni anni di onorato servizio – proprio sulla base delle tabelle dell’INPS – da offrire, svolge un ruolo di sostegno, di consiglio, di elaborazione culturale. Io in questo momento faccio un lavoro molto bello, il presidente di una fondazione culturale europea che ha un enorme lavoro. Poi ho molti impegni nella politica italiana. Ho moltissime cose da fare. Certo, in una dimensione diversa. Sono io stesso consapevole che se volessi aspirare a una posizione di leadership, diventerei un elemento di rottura e quindi un danno, e sono stato educato (e questo è molto importante) a concepire le ambizioni personali utili se servono a un disegno collettivo, altrimenti sbagliate. Ci penso io stesso a stabilire i limiti entro i quali svolgere il mio ruolo»

Girano degli aneddoti sui tuoi atteggiamenti di cui abbiamo parlato: uno recente è quella di una cena intorno a un tavolo ovale. Si fanno i posti e qualcuno chiede, essendo il tavolo ovale, “Ma capotavola dov’è?” e D’Alema dice “Capotavola è dove mi siedo io”.
«La battuta non è mia. È una citazione di un nobiluomo leccese, che era molto stimato, persona però piuttosto forastica, e quando andava al circolo cittadino gli dicevano: “Signor conte, lei non si mette a capotavola?” e lui diceva “Capotavola è dove sono seduto io.” È una battuta. Ho un difetto grave: non resisto mai alla tentazione di dire le battute. E siccome so che questa burla fa arrabbiare le persone… è un difetto che ho deciso di concedermi.»

Tua moglie che cosa pensa di questa tua “tentazione”?
«Mia moglie è una donna santa, io penso. Una donna che ha avuto un ruolo molto importante per la mia vita e che ha tuttora un ruolo straordinario nella mia vita, e che ha molta pazienza. È molto critica. Io ho un contesto familiare molto robusto e molto critico. Per nulla accondiscendente. Affettuosamente critico, salvo mia figlia (fortunatamente esistono le figlie femmine) la quale ama incondizionatamente il padre, ma per il resto… E mio figlio, che è un giovane militante del partito democratico, molto impegnato…»

Con kefia o senza kefia?
«Senza. Ben orientato, ma senza simboli esteriori. Mio figlio ha ereditato da me il sarcasmo. Una volta mi fece una battuta irresistibile, anche perché avrà avuto dieci o undici anni.. Io mi ero dimesso da poco da presidente del Consiglio: questo non era stato oggetto di discussione in famiglia, però insomma si erano accorti che era successo qualcosa ma c’era un grande rispetto, diciamo. La domenica mio figlio voleva andare a giocare col suo amichetto, io invece volevo portarlo da mio padre, e allora c’era un po’ di tensione. E io gli ho detto: “Senti Francesco, ti porto da nonno e poi ti porto a casa, così puoi fare quello che vuoi. E lui – aveva undici anni – si è girato e mi ha detto: “Un piano perfetto, come quello che avevi per rimanere al governo?”»

Hai letto l’ultimo libro di Walter Veltroni?
«L’ultimo, di ora? No, è in programma. Però è uscito adesso, da pochi giorni.»

Tu cosa pensi del risultato elettorale del PD veltroniano, molto dibattuto se fu un ottimo risultato, una sconfitta, il meglio che si poteva fare…?
«Fu un buon risultato per il partito, ma fu anche la più grande sconfitta del centrosinistra dall’inizio della seconda repubblica ai giorni nostri, perché noi raggiungemmo il 33% ma prendemmo credo 4 o 5 milioni di voti in meno della destra, il che non era mai accaduto, in nessuna delle elezioni precedenti, quindi il risultato aveva due facce…»

Però tu che sei un grande contestualizzatore, non puoi non contestualizzare anche quel risultato lì.
«Sì, ma infatti, una volta contestualizzato, il problema era come si usciva da quella condizione. E secondo me l’idea bipartitica, che era nel modo in cui Walter aveva concepito il progetto del PD, non era realistica e ci avrebbe confinato in una posizione minoritaria, non maggioritaria.
La cosa con Veltroni, del quale sono amico da infiniti anni, non era se siamo amici o siamo nemici. Noi siamo due persone serie. Abbiamo avuto delle discussioni politiche, non è che litighiamo… Oppure litighiamo, ma non è che ci confrontiamo perché ci stiamo antipatici o ci facciamo dei dispetti. Noi siamo cresciuti in un partito in cui si discuteva di politica, e si discuteva di politica con una durezza estrema. Io quando avevo 26 anni sono entrato nella direzione del PCI, ho visto come discutevano Amendola e Pajetta, e mi sono spaventato. Per sei mesi sono stato zitto. Ma non è che si stavano simpatici o si stavano antipatici: è questo tipo di narrazione giornalistica che io trovo insopportabile. Sono delle idee che si confrontano.»

Però non puoi nemmeno pensare che, in casi di rapporti umani molto forti e solidi, una sconfitta nel confronto non possa avere delle conseguenze sul piano umano…
«Non lo penso, questi elementi pesano, però io credo che per chi ha una responsabilità politica, prima viene la politica, dopo vengono i sentimenti. Noi siamo stati cresciuti così, non c’è niente da fare. Io credo nel rapporto di amicizia, ma penso anche che quando sono in gioco questioni di fondo venga dopo. Io ero convinto che si dovesse dare un’impronta diversa al PD. Anzitutto che si dovesse costruire un partito vero, e questo nella visione di Veltroni è meno importante. E poi che questo partito vero realizzasse la sua vocazione maggioritaria non in solitudine ma mettendosi alla testa di una coalizione democratica più ampia. Su questo abbiamo avuto una battaglia politica, ha prevalso questa visione, Bersani è la persona che ha saputo interpretarla, e io credo che le cose vadano meglio, con tutto l’affetto per la persona di Veltroni. Ma la mia convinzione era una convinzione politica, per questo ci siamo battuti, e io ritengo che alla fine, oggi, intorno a questa prospettiva nuova ci possiamo ritrovare tutti insieme.»

Forse lo credeva anche lui, di potersi ritrovare tutti insieme intorno alla sua prospettiva.
«Eh ho capito, ma mica ho deciso io, abbiamo fatto il congresso. E poi io rifiuto questa idea che la politica è la negazione dei sentimenti. La politica è passione. Quando io ero ragazzo, dopo un indimenticabile anno accademico di occupazioni, battaglie, eccetera, arrivato stremato alla fine di tutto questo, non pago di tutto quello che era successo – era il 1968 –  con un amico, a bordo di una sgangheratissima 500, partimmo per Praga. Perché pensavo che questa breve vacanza si dovesse fare nella primavera praghese, perché mi appassionava, perché non concepivo nulla al di fuori dell’impegno. E mi ritrovai a Praga il giorno in cui vi entravano i carri armati sovietici. E ricordo lo shock.

E mi ricorderò tutta la vita come in questa mattinata in cui scendemmo in piazza per protestare contro i carri armati sovietici feci una cosa che mentre la facevo capivo che non andava fatta, anche perché era rischiosa, ma all’epoca non avevamo il senso di quel rischio: e disegnai con un gessetto una svastica su un carro armato del patto di Varsavia. Ma dopo, mi ricordo che c’era lì un compagno che avevo incontrato pochi anni prima: era molto giovane ed era sindaco di un paesino emiliano, anche lui lì in vacanza. Stava guidando e a un certo punto la radio clandestina disse che bisognava suonare le campane, i clacson. E allora lui si mise a suonare il clacson della sua macchina e diceva: “Chi l’avrebbe mai detto che siamo qui e protestiamo contro l’Armata Rossa” e ci mettemmo a piangere. E io credo di aver pianto (per il dolore che mi aveva dato l’Armata Rossa, pensa tu) per due giorni. È stato uno dei più grandi dolori della mia vita, perché mentre capivo che bisognava essere contro… però il fatto che lì ci fosse l’Armata Rossa, per quanto io fossi uno del Sessantotto, un comunista italiano, fu un tale shock che mi produsse un dolore enorme (mi risollevai, diciamo, dopo aver visto il comunicato del PCI). Quindi la politica è fatta di emozioni, di dolori, di passioni, altrimenti che cos’è? Altrimenti perché uno farebbe politica tutta la vita?»

Tutta la vita fino a oggi. Nichi Vendola ha detto qualche giorno fa: dopo l’estate organizziamo le primarie e io mi candido. Che previsioni fai su questo? Sei d’accordo con questo progetto?
«Del progetto se ne dovrà discutere con Bersani, più che con lui. Io penso che noi dobbiamo cominciare a discutere molto seriamente di un progetto per il governo dell’Italia, perché è urgente trasformare questa opposizione che vince (questa è la grande novità: oggi l’opposizione rappresenta il 60% del paese), questa energia che si oppone a Berlusconi, in un’alternativa di governo, e lì bisogna definire un progetto per l’Italia condiviso. Ma noi non abbiamo mai discusso con Nichi di questo: con lui si parla solo delle primarie. E invece secondo me sono un passaggio essenziale, ma direi che giocano un ruolo secondario rispetto a quello che in questo momento è effettivamente primario: noi dobbiamo definire un progetto per il futuro dell’Italia.»

E quali sono secondo te i nodi eventuali di contrasto nella definizione di un progetto condiviso?
«Ma io non credo che debbano esserci dei contrasti. Il problema è che questo progetto va presentato agli italiani. E come giustamente ha detto Nichi, va discusso con gli italiani. Io farei premettere alle primarie»

Che però si faranno?
«Le primarie si dovranno fare: è giusto che venga data questa possibilità, fa parte di una procedura di costruzione di una coalizione. Ma prima viene la discussione con il paese e tra le forze politiche di un progetto che deve toccare tre nodi essenziali: uno è come si rimette in movimento l’economia, per dare una prospettiva soprattutto alla nuova generazione, che in questo momento è quella che paga il prezzo più alto in termini di esclusione. Secondo: come si riorganizza lo stato, perché questo è un nodo ineludibile. Terzo: che tipo di sistema politico e istituzionale vogliamo per questo paese. Cioè che razza di democrazia: del bipolarismo, dell’alternanza, ma organizzata come? Perché noi in questi anni abbiamo assistito alla crescita di una sorta di plebiscitarismo in cui gli italiani vengono chiamati a dare la delega a un capo, dopo di che non c’è più nulla. Non esiste più il parlamento, e questo non può essere il funzionamento.»

Il PD su queste cose ha già le idee chiare?
«Il PD ha tante idee chiare»

Tante…
«Certo. Comunque in un paese in cui il governo non ne ha nessuna, anche se noi ne abbiamo una di più non fa male. Noi abbiamo discusso lungamente e approvato delle posizioni estremamente impegnative. Per esempio abbiamo presentato un progetto per le riforme necessarie per rilanciare l’economia e anche per avere una società più giusta, perché una delle condizioni per far ripartire l’economia è ridurre le disuguaglianze sociali. Ci sono aspetti che sono più discussi, per esempio sulle riforme istituzionali e sulla legge elettorale c’è una certa pluralità di opinioni, anche se c’è una proposta prevalente. Però non voglio mettere le brache alla discussione: noi ora la dobbiamo fare con i cittadini. Quindi il primo passaggio è questo: lavoriamo da settembre a un grande confronto con la società italiana, per definire i punti qualificanti di un progetto di governo per l’Italia.

Poi compiuto questo percorso, anche in relazione a quando ci saranno le elezioni, faremo le primarie.
Però vorrei dire una cosa a Nichi: le primarie non le facciamo per scegliere il capo della sinistra, le facciamo per scegliere il candidato a governare l’Italia. Perché in lui l’ansia delle primarie risponde secondo me a un’esigenza un po’ diversa: Nichi pensa, attraverso le primarie, di affermare una sua leadership personale, della forza della sua personalità. Poi io gli voglio veramente bene, ho con lui un ottimo rapporto personale, totalmente riguadagnato. Anche perché lo conosco dal ’75, ’76, lui era uno dei miei contestatori: io ero segretario della FGCI e lui ai congressi mi votava contro. Siccome erano in tre o in quattro, io ci ho fatto amicizia sin da allora, perché sono sempre stato incuriosito dalla forza delle personalità: a quel tempo ci voleva personalità per votare contro il segretario. È molto intelligente ed è persino furbo: perché lui si è enormemente avvantaggiato della politica che abbiamo fatto noi. Lui non potrebbe governare la Puglia se non avesse un rapporto con l’UDC che lui gestisce con estrema intelligenza e che in parte gli abbiamo costruito noi. E lui lo sa. Quindi, al di là di ogni considerazione, bisogna che Nichi si renda conto che noi non dobbiamo fare le primarie per scegliere il capo della sinistra: noi dobbiamo fare le primarie per indicare la personalità che può guidare una coalizione per il governo del paese. E io ritengo – non solo per la forza della persona, ma anche perché è infinitamente ragionevole che il paese sia guidato dal leader del più grande partito italiano – che a queste primarie noi proporremo e sosterremo Pier Luigi Bersani. Perché è naturale che sia così. Ho sempre pensato che, così come avviene in tutti i paesi democratici europei, proprio tutti, il capo del governo debba essere il leader del più grande partito del governo. L’Italia a volte è sfuggita a questa norma democratica: io spero che con la nascita del PD, e quindi con la creazione del grande partito di governo del centrosinistra (prima non c’era, ce n’era più d’uno) noi possiamo dare anche all’Italia un governo più solido, perché io penso che se il governo del paese è guidato dal leader di un partito che ha più del 30% dei voti, e che quindi rappresenta da solo i tre quarti, i quattro quinti della maggioranza che governa del paese, questo dà più forza al governo del paese. Non è solo simpatia verso Bersani.

E quindi per tutte queste ragioni – anche se è del tutto legittima la candidatura di Nichi – penso che ciò che noi proponiamo sia più significativo. Bisogna decidere adesso un percorso condiviso che parta dal progetto per l’Italia. Dopo di che, ho sempre pensato che Nichi Vendola rappresenti una sinistra che vuole misurarsi e si misura col governo del paese, di cui c’è bisogno. Credo che lui eserciterà un ruolo importante nella prospettiva futura di governo. Noi non saremo mai uno schieramento di un solo capo: ci saranno sempre più personalità. E oltretutto uno dei grandi meriti personali di Bersani, in un partito come il nostro, complicato per tante ragioni, è che lui si sia affermato anche perché ha uno stile politico che lo ha tenuto sempre lontano dagli eccessi di personalismo e di riscontri personali. Il che ne fa anche la persona più adatta a guidare uno schieramento composito, vario, di tante personalità come continuerà a essere il centrosinistra.»

Se si vota l’anno prossimo, secondo te, chi è il candidato del centrodestra?
«Io penso che loro non siano in grado di sostituire Berlusconi, per come si è costruita la destra italiana, che non è un partito, ma un insieme di forze intorno a una personalità. L’unica possibilità che hanno è che Berlusconi ne nomini un altro, ma a quel punto il senso di questa operazione sarebbe il seguente: Berlusconi nomina un altro per il governo del paese e riserva a sè la candidatura alla presidenza della repubblica. Perché le prossime elezioni politiche saranno anche le elezioni per decidere il presidente della repubblica. E lasciamelo dire, io sono sgombro da una logica di demonizzazione, ma ritengo che se è stato duro avere Berlusconi capo del governo per la credibilità del nostro paese, averlo presidente della Repubblica sarebbe insostenibile.»

Tu attribuisci qualche rilievo e qualche sviluppo alla novità di Angelino Alfano segretario del PdL, per un rinnovamento e cambiamento del PdL?
«Ho notato che, nel giro di pochi giorni, moltissimi italiani se ne erano già dimenticati. Almeno sinora l’impronta di questa leadership non si è vista, però si può ben sperare per il futuro. Io gli ho fatto una battuta quasi amichevole: “Vedi Alfano, fare il delfino di un pescecane è un mestiere rischiosissimo”.»

Un’ultima cosa. C’è un elemento un po’ letterario negli sviluppi politici degli ultimi tempi, che adesso sembra temporaneamente messo in secondo piano: l’eventuale ingresso in politica – la “discesa in campo” – di Luca Cordero di Montezemolo. Cosa ne pensi?
«Io penso che il paese ha bisogno urgentemente di tornare alla politica. Non abbiamo bisogno di nuovi commissariamenti delle istituzioni. Per cui se Luca di Montezemolo vuole impegnarsi nella vita politica, sicuramente potrà dare il suo contributo, è un uomo che ha capacità, abilità. Però deve appunto impegnarsi nella vita politica. L’espressione “discendere in campo” mi ricorda solo due immagini: una negativa, Berlusconi, e l’altra positiva, Benigni. Non so se ti ricordi quell’irresistibile gag di Benigni: il padre che “scendeva in campo” perché in casa non avevano la toilette. Io userei in modo più sobrio “impegnarsi nella vita politica”. Se Luca di Montezemolo vuole impegnarsi per contribuire a dare al paese una prospettiva di governo, penso che noi non avremo difficoltà a…»

Ma lo appoggereste come leader di uno schieramento?
«Ho appena finito di spiegare che ritengo sano per il paese, al di là delle qualità personali, che a guidare il governo sia il leader del più grande partito italiano, che al momento si chiama Pier Luigi Bersani e non Luca di Montezemolo.»

Questa intervista è una sintesi della conversazione pubblica che Massimo D’Alema ha avuto venerdì con il direttore del Post alla Festa della Politica di Bagnacavallo.