La Grecia affosserà l’euro?

Il tempo stringe e l'unione monetaria è a rischio, dice l'Economist

La prossima settimana i leader europei si incontreranno per decidere come gestire la crisi economica greca. Il rischio di una bancarotta incontrollata dello stato greco (sarebbe la prima dal 1948 in un paese avanzato) è alto, ma il default avrebbe ripercussioni pesantissime: poco tempo fa Barack Obama ha dichiarato che la ripresa statunitense dipende anche dalla risoluzione di quella crisi. Finora, però, gli stati europei hanno dimostrato parecchia incertezza intorno a diverse decisioni importanti, alimentando le paure dei mercati finanziari. L’Economist si è occupato di ricostruire la storia della crisi e di spiegare perché questa mette profondamente a rischio il progetto di integrazione europeo.

La crisi greca
La zona dell’euro, presa nel suo insieme, mantiene degli indicatori economici molto positivi: la crescita del PIL è stata superiore a quella del Regno Unito e degli Stati Uniti per i primi tre mesi del 2011, in primo luogo grazie all’ottima performance della Germania. Anche il deficit di bilancio complessivo è migliore di quello di molte altre economie avanzate. Ma il vero problema è legato al debito pubblico, ovvero all’insieme dei debiti che i singoli stati hanno accumulato nel passato nei confronti dei creditori.

La Grecia non entrò a far parte della moneta comune nel 1999, quando questa venne introdotta nella maggior parte dei paesi dell’Unione: i suoi parametri economici non rientravano nei limiti stabiliti dai famosi accordi di Maastricht, stabiliti nel dicembre 2001. In seguito si è scoperto, revisionando i conti sul debito pubblico, che non avrebbe potuto aderire neppure quando effettivamente lo fece due anni dopo, nel 2001. Lo scorso anno i nodi arrivarono al pettine, e i governi europei decisero, nel maggio 2010, di tamponare la prima grande crisi del debito pubblico con un sostegno economico di 110 miliardi di euro in tre anni. Ottanta miliardi provenivano dagli altri paesi europei, mentre i restanti trenta dal Fondo Monetario Internazionale, ancora guidato da Dominique Strauss-Kahn.

La situazione, dopo il primo tentativo di salvataggio, non è migliorata. I capi di stato europei si riuniranno a Bruxelles i prossimi 23 e 24 giugno per decidere se concedere un secondo prestito alla Grecia, ma la condizione principale è che lo stato acconsenta a varare un piano di riforme ancora più doloroso dei primi provvedimenti, tra cui una serie di privatizzazioni del valore di circa 50 miliardi di euro, il 20% dell’intero prodotto interno lordo del paese. Se la Grecia si prenderà questo impegno, l’Europa potrebbe assicurare altri 85 miliardi di qui al 2014. Il tempo a disposizione sembra essere poco: Standard & Poor ha deciso questa settimana di declassare il debito pubblico greco, nella classifica dell’affidabilità e sicurezza degli investimenti, da B a CCC, all’ultimo posto della classifica mondiale.

La situazione interna del paese non aiuta a tranquillizzare gli investitori. Tre giorni fa c’è stato uno sciopero generale in tutta la Grecia, e decine di migliaia di persone sono scese in piazza ad Atene per protestare contro le misure di austerità, causando anche violenti scontri con la polizia. Il primo ministro George Papandreou ha tenuto poche ore dopo un discorso alla nazione, in cui ha annunciato che non intendeva dimettersi ma che avrebbe formato un nuovo governo, sostituendo il ministro delle Finanze. Attualmente Papandreou è sostenuto da una risicata maggioranza in parlamento, dopo le defezioni di diversi parlamentari negli ultimi giorni in contrasto con le sue politiche. Anche l’opinione pubblica non sembra sostenerlo: l’Economist riporta un sondaggio di uno dei più autorevoli giornali greci, I Kathimerini (“Il Quotidiano), secondo cui l’87% della popolazione pensa che il governo non stia agendo nel modo migliore per uscire dalla crisi.

La difficile situazione greca si è estesa ad altri paesi dell’euro già nel corso dello scorso anno. A novembre, l’Unione è dovuta intervenire per sostenere il sistema bancario irlandese in difficoltà, e poco dopo è stato il turno del Portogallo.

Una storia difficile
Il trattato di Maastricht prevedeva un’unione monetaria senza che, allo stesso tempo, si sviluppasse una politica fiscale comune e delle istituzioni di governo comunitarie sufficientemente forti. I requisiti per l’ammissione erano un’inflazione e dei tassi di interesse sui titoli di stato a lungo termine sufficientemente bassi; le finanze dello stato dovevano avere un deficit di bilancio (sostanzialmente, la differenza tra entrate e uscite su base annuale) inferiore al 3% del PIL e un debito pubblico (la somma di tutti i debiti dello stato) inferiore al 60%. Non era previsto alcun prestito per i paesi in difficoltà.
Il debito pubblico italiano (così come quello belga) superavano abbondantemente il 100% del PIL, ma si decise di ammettere ugualmente i due paesi perché il debito stava gradualmente diminuendo.

Le differenze tra i diversi paesi europei crebbero nel corso del tempo, principalmente a causa della diversa flessibilità nel mercato del lavoro e nella produzione dei beni: in passato, gli squilibri in questi due indicatori erano compensati dai governi svalutando la moneta. Nell’ottica dei rapporti economici tra i paesi, la svalutazione portava a diminuire le importazioni, perché i beni esteri costavano troppo, e viceversa a rendere più appetibili i beni prodotti in patria, che iniziavano a costare meno. Ma una moneta comune impedisce ai singoli paesi di ricorrere allo strumento della svalutazione monetaria e rende più pesanti le diversità nella flessibilità dell’economia.

I paesi europei, insomma, una volta entrati nell’euro con i conti (sommariamente) in ordine secondo i parametri di Maastricht, avrebbero dovuto continuare a “comportarsi bene” seguendo le indicazioni del Patto di Stabilità. Ma quando, nel 2005, i due paesi politicamente più importanti dell’Unione, la Germania e la Francia, non furono in grado di rimanere all’interno di quelle indicazioni, il patto venne rivisto e reso molto meno restrittivo. Le economie inizialmente più deboli, come la Spagna e l’Irlanda, erano invece in pieno boom economico, e di questo boom stavano approfittando proprio le banche tedesche, che trovando un mercato stagnante in patria si esposero pesantemente “in periferia”.

Questo meccanismo aveva un punto debole: paesi come la Grecia e l’Irlanda aumentavano il loro debito nei confronti dei paesi più forti, che un giorno avrebbero iniziato a voler indietro i loro soldi, senza migliorare le disparità nel costo del lavoro e nella competitività. Nel 2007 l’Irlanda aveva un debito pubblico molto basso, circa il 25% del PIL, ma ora che le banche sono passate a chiedere indietro i loro soldi, e la bolla del mercato immobiliare si è sgonfiata, questo è esploso fino a un impressionante 112% del PIL previsto per quest’anno dalla Commissione Europea. Un simile meccanismo interessa anche il Portogallo (che supererà il 100%) e la Grecia (che raggiungerà almeno il 160%).

Poco tempo a disposizione
Le misure di austerità che richiedono l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale sono tese a sanare lo squilibrio nella competitività con un’improvvisa (e dolorosissima) liberalizzazione dei mercati, e comprendono anche una forte diminuzione dei salari per diminuire il costo del lavoro. In una sorta di circolo vizioso, però, queste misure sono incompatibili con la crescita economica, perché se la gente riceve stipendi più bassi ha meno soldi da spendere, e la produzione di beni deve necessariamente diminuire.

Dal punto di vista politico e sociale, la gestione comunitaria della crisi sembra aumentare drammaticamente i conflitti, sia tra i paesi che rendono disponibili i capitali per il prestito, sia tra chi i prestiti li deve ricevere. In Germania, molta gente pensa che anche il primo sostegno alla Grecia sia stato un errore. I tedeschi rifiutano fortemente l’idea di un’Unione sbilanciata in cui i paesi forti sostengano economicamente i paesi in difficoltà, probabilmente anche per conseguenza dei grandi costi della riunificazione che la Germania occidentale si è dovuta fare carico dopo l’unione con l’ex Repubblica Democratica Tedesca. Tra i paesi in difficoltà, invece, molti irlandesi si sentono vittime che pagano con i loro soldi la salvezza delle banche, per evitare che i creditori stranieri ci rimettano i loro soldi, investiti massicciamente negli scorsi anni, quando la crisi sembrava lontana.

Le previsioni dell’Economist, in sostanza, non sono ottimistiche. Difficilmente il prossimo incontro dei capi di stato a Bruxelles sarà in grado di trovare una soluzione decisiva al problema greco, che continuerà a rimanere abnorme. Finché la situazione si manterrà così in bilico, i mercati continueranno a scommettere su una bancarotta greca.

foto: LOUISA GOULIAMAKI/AFP/Getty Images