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  • Martedì 7 giugno 2011

Insicuri e spaventati

Lo dice il Censis degli italiani, lo dice il direttore del Post nel suo libro

Foto : Daniele Badolato / Lapresse
04/05/2011 Torino
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano partecipa alle celebrazioni per il 150 anniversario dell'esercito italiano 
Nella foto l'esercito schierato

Photo : Daniele Badolato / Lapresse
04/05/2011 Turin
Italian army 150th anniversary 
In the picture the army
Foto : Daniele Badolato / Lapresse 04/05/2011 Torino Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano partecipa alle celebrazioni per il 150 anniversario dell'esercito italiano Nella foto l'esercito schierato Photo : Daniele Badolato / Lapresse 04/05/2011 Turin Italian army 150th anniversary In the picture the army

«Siamo diventati insicuri e spaventati di esserlo: come sia successo tutto questo, è materia da sociologi», scrive Luca Sofri (il peraltro direttore del Post) nel suo recente libro Un grande paese. E i sociologi sono in effetti intervenuti sul tema: il Censis ha pubblicato ieri un’indagine sulla “Crescente sregolazione delle pulsioni” degli italiani. Ne scrive così la Stampa, oggi:

«Questo individualismo rende soli e sbandati, ed espone gli italiani a nuove dipendenze e vecchie fragilità psicologiche»

Questo è il capitolo “Non darlo a vedere” di Un grande paese.

*****

I’m Starting With The Man In The Mirror
I’m Asking Him To Change His Ways
And No Message Could Have Been Any Clearer
If You Wanna Make The World A Better Place
Take A Look At Yourself, And Then Make A Change.

(Michael Jackson, Man in the Mirror)

Garry B. Trudeau è l’autore della più famosa striscia a fumetti americana contemporanea, Doonesbury. Nel 2009, uno dei suoi personaggi, l’egocentrico e sciocco giornalista televisivo Roland Hedley, cominciò a usare Twitter per informare i suoi supposti fan di ogni suo più piccolo e superfluo pensiero. Trudeau voleva prendere in giro l’accelerazione nella comunicazione inutile di sé suscitata dalla diffusione di Twitter, e quando in un’intervista gli chiesero un’analisi più accurata della questione, lui rispose dicendo:

Guardate, siamo tutti narcisisti, chi più chi meno: ma la maggior parte di noi se ne vergogna quanto basta per cercare di non darlo a vedere.

È una frase definitiva, che spiega metà delle cose del mondo e tira una delle righe per terra più fondate delle molte che andiamo abbozzando ogni giorno: quella tra chi cerca di dissimulare la propria vanità e chi non ne è capace. La vanità è diventata il meccanismo che regola la stragrande maggioranza dei nostri comportamenti pubblici. Quasi tutto quello che facciamo, lo facciamo per farci notare: e anche quasi tutto quello che non facciamo, come raccontò Nanni Moretti con la leggendaria considerazione «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?».

Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce… voi mi fate «Michele, vieni di là con noi, dai!», e io «andate, andate… vi raggiungo dopo…». Vengo. Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo.

Ecce Bombo è del 1978. È un manuale ricchissimo di sociologia contemporanea, e contiene una quota cospicua delle citazioni di riferimento della mia generazione («giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose»): ce n’è almeno un’altra che ha a che fare con le cose di cui stiamo parlando («te lo meriti, Alberto Sordi»). Ma nel passaggio mi-si-nota-di-più è descritto il simultaneo entrare in gioco dei due fattori all’origine della catastrofe umana di questi decenni: da una parte l’ansiosa necessità di affermazione di sé e di riconoscimento da parte degli altri, e dall’altra l’inetta insicurezza dei propri mezzi e della propria capacità di soddisfare la suddetta necessità. Le due cose insieme convincono Michele di Ecce Bombo a non andare alla festa, dopo aver cercato i modi più infantili e pigri per farsi notare; e le due cose insieme orientano i fallimenti di ormai più d’una generazione di italiani incapace di autostima.

Non che la vanità sia un fattore recente, nei comportamenti umani. Fosse solo per loro, l’affermazione e l’esibizione di sé sono sempre state motori preziosi per fare grandi e proficue cose per l’umanità: che anzi, i sinceramente generosi e altruisti sono sempre stati una sparutissima minoranza e l’unico di cui si possa dire con certezza che lo fosse è morto giovane duemila anni fa. Ma i modi di soddisfazione della nostra vanità – che un tempo si appuntavano su comportamenti ritenuti socialmente encomiabili – si sono sempre più sbilanciati verso l’infantile, l’egocentrico e lo sfacciato, a dispetto dell’orgoglio di sé, dei propri successi e persino della soddisfazione di non darlo a vedere, come dice Trudeau.

Siamo diventati insicuri e spaventati di esserlo: come sia successo tutto questo, è materia da sociologi. Trudeau dice anche che se è normale aspettarsi una narcisistica perdita di remore da parte dei divi del cinema, dei ragazzini e dei politici, la stessa cosa è invece intollerabile nel caso dei giornalisti come il suo Roland (se nel suo ragionamento Trudeau fa un errore, è quando si illude che a vergognarsi della propria vanità sia ancora «la maggior parte di noi»: magari). Ma forse dentro questa considerazione accessoria c’è già una parte di spiegazione: mentre scomparivano dal nostro mondo gli esempi etici e costruttivi da seguire e da prendere come riferimento, a rimpiazzarli erano soprattutto modelli dello show business, per i quali – come sottolinea Trudeau – la spudorata esibizione di sé fa da sempre parte della professione (a cui molti professionisti si dispongono con naturale inclinazione e pochi si adeguano controvoglia, ma questo non importa). E proseguendo ancora, quei personaggi hanno perso le qualità che un tempo rendevano straordinarie le celebrità (talenti, attitudini, meriti), e la loro popolarità è rimasta legittimata solo dalla visibilità e dalla esposizione di sé, senza più niente dietro.

Così abbiamo imparato che – una volta spariti qualità e talenti – la differenza tra noi e le celebrità stava solo nella dimensione della smargiasseria e della pubblicità: differenza che si può agevolmente superare aumentando smargiasseria e pubblicità di sé, come ha notato Vanni Codeluppi nel suo libro Tutti divi (Laterza 2009):

Ciò che conta comunque è che il divo, di qualsiasi genere esso sia, tende sempre a operare come uno «specchio», vale a dire come un personaggio dotato di un maggiore livello di prestigio, ma simile alle persone comuni.

Okay, proviamo a ricapitolare. Possiamo quindi dire che una naturale inclinazione dell’uomo (e della donna, con qualche moderazione in più di cui qui non vale la pena tenere conto)1 verso l’egocentrismo e la vanità una volta era temperata (1) da minori o maggiori dosi di pudore, e (2) dal timore di essere sgamato. Poi però si è molto liberata da questi pudori e timori, col concorso (1) di modelli ineludibili e sfacciati di esibizione di sé e (2) di strumenti di esibizione di sé di inaudita potenza come quelli offerti dalle nuove tecnologie. Strumenti la cui efficacia induce in una continua tentazione che abbatterebbe un toro e le inibizioni più solide, e che a loro volta moltiplicano gli esempi e il fenomeno: se lo fanno tutti, di raccontare al mondo che si stanno lavando i piedi o che loro quel romanzo l’hanno già letto un sacco di tempo fa («e non era tutto questo granché»), allora lo faccio anch’io: il mondo è cambiato, si può.

Liberarsi delle inibizioni è sempre suonato un traguardo auspicabile, se non fosse che le inibizioni sono spesso regole o principi che abbiamo stabilito con qualche ragione. Inibirsi è una buona idea, se ci sono delle buone ragioni per farlo. E le cose migliori che trascuriamo di fare rapiti dalla nostra vanità sono certamente una buona ragione. Finiamo invece per avere come criterio delle nostre azioni la rassicurazione dell’attenzione altrui. La trasparenza della nostra vanità rende però meno credibile la maggior parte delle cose che facciamo e diciamo. Ci rendiamo ridicoli. E questa è un’altra ragione per contenersi.

In generale, tra noialtri esseri umani vige una certa sopravvalutazione della sincerità. A un certo punto abbiamo cominciato a spacciare per ipocrisia la buona educazione con cui sceglievamo cosa dire e cosa no, e a legittimare ogni accondiscendenza nei confronti di noi stessi definendola spontaneità: «io sono fatta così…», «ah, io dico quello che penso». Oppure, con ingenua simulazione di autocritica «ah, io non posso farci niente, dico quello che penso» o «io ho questo difetto, che dico sempre quello che penso».

Il problema è che è davvero un difetto, dire sempre quello che si pensa2. Perché se uno pensa delle fesserie – e capita sovente – poi le deve dire, e magari era meglio di no. Perché se uno pensa delle cose cattive, o sgradevoli, forse è meglio che non le dica. Perché se uno pensa delle cose violente, o stupide, forse è meglio che le reprima. E questo ci porta – dalle parole ai fatti – a uno dei più catastrofici alibi costruiti dal genere umano per autoassolversi e mettere in vacanza la propria responsabilità su di sé.

Sii te stesso.

Già, bravi. Sii te stesso. E se uno è stronzo? «Sii te stesso», con tutta l’aura di grande dignità che si porta dietro, è una tra le peggiori predicazioni della storia. E sta dentro questo grande inganno autoassolutorio per cui l’impegno, l’applicazione, il lavoro di comprensione delle cose giuste e di quelle sbagliate, l’aspirazione a essere migliori, finiscono per essere disprezzati come artificiose ipocrisie, di fronte alla pretesa nobiltà del pigro e vile affidarsi alla propria natura3. Ma la propria natura, nella totalità dei casi, è ben lontana dalla perfezione: a meno di non essere Gesù Cristo, evento che è capitato una sola volta nella storia del mondo, che si ricordi.

E pure quella volta lì, poi, ci fu la vicenda dei mercanti nel tempio e persino lui ebbe per una volta una reazione un po’ sopra le righe.

Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e disse loro: «La Scrittura dice: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri».

Matteo 21, 12

Perché Gesù, uomo mai violento, quel giorno lì si accanì così contro quei poveri commercianti, venditori di colombe, persino? Li chiamò ladri, rovesciò tutto, perse evidentemente il controllo di sé? Possiamo giudicare l’episodio come una rivelazione che la suprema e angelica perfezione di Cristo non era altro che il frutto di una costante e proficua applicazione, e che il giorno che si lasciò invece andare a essere se stesso gli effetti furono piuttosto spiacevoli? Oppure anche quella intemperanza sta dentro la sua divinità, perché quanno ce vo’ ce vo’, pure per le divinità? (c’erano dei precedenti ancora più irascibili, a partire da suo padre quella volta col diluvio, e prima ancora con la mela).

Naturalmente per gli atei è più avvincente la prima ipotesi: che Gesù fosse solo (solo?) uno che si impegnava molto. Ci offre la possibilità di credere che con concentrazione e assiduità possiamo fare grandi cose. Ed è una tesi più attraente anche per il discorso che stiamo facendo qui. Vuol dire che per fare bene, per essere felici di sé, «essere se stessi» è la strada sbagliata, e ingannevole. Quella giusta è cercare di essere qualcun altro4.

«Tu ti credi Dio!»
«E a qualche modello dovrò pure ispirarmi!»

Sembra solo una buona battuta, quando Woody Allen la dice in Manhattan. Invece è anche piena di senso. Intanto la battuta funziona grazie alla distanza tra ciò che si pensa davvero di sé («tu ti credi Dio») e ciò che invece si vorrebbe essere e non si è («a qualche modello dovrò pure ispirarmi!»). E per questo la risposta di Isaac, il personaggio di Allen, ha perfettamente senso. Cercare di essere Dio è una buona e saggia cosa, come cercare di essere qualunque altro modello positivo. Lo è per due ordini di ragioni, corrispondenti a un mezzo e a un fine, a un percorso e a una meta. Primo: la ricerca e l’applicazione ci migliorano, comunque, rispetto alla rassegnazione e all’indolenza. Il solo lavorare per ottenere un obiettivo è un risultato che arricchisce e rende migliori e soddisfatti di sé. Ma – secondo – naturalmente lo è anche ogni successo nell’avvicinamento a quell’obiettivo (d’altra parte i migliori modelli sono quelli che non saremo mai in grado di raggiungere).

Dalla politica arrivano ai cittadini esempi distruttivi, trasversali, costruiti sulle impunità ostentate, sugli scandali, sulle spiate. Uno scivolamento nel delirio della libertà assoluta dell’individuo, libero da tutto anche dalle leggi perché tanto i peccati e i reati sono opinabili, non valgono se non li si sente come tali. Così la riforma della giustizia si tramuta nel campo dell’antagonismo per eccellenza. E degenera irreparabilmente in duello. Non si sa chi abbia iniziato, se Berlusconi, i pm di Milano o gli ex Dc. Si sa solo che è avvenuto e che non si riesce a tornare indietro. L’origine sta nell’affermarsi del principio di essere se stessi. Se si ha la libertà di essere se stessi nella famiglia con l’aborto, il divorzio, l’eutanasia alla fine l’essere se stessi diventa una valore per tutto. Berlusconi ne è l’esempio. Ha lanciato il messaggio: «Fate come me, diventate tutti piccoli imprenditori», cioè siate liberi di essere voi stessi. Liberi da tutto, dunque anche dal processo, dal giudizio, dall’esito, dalla condanna. Ormai nella cultura collettiva nessuno è più capace di certificare, di testare un comportamento e una condotta con autorità ed autorevolezza. Non si chiama più il peccato o il reato con i loro nomi.

Giuseppe De Rita, intervistato da «La Stampa», 1° novembre 2009

Sii te stesso5. Sii te stesso un corno. Non siate voi stessi e non insegnatelo agli altri, a cominciare dai vostri figli e dai vostri allievi. Non dite loro «Mi basta che tu sia felice»: già l’espressione «mi basta» rivela che è un desiderio di ripiego. In realtà vorreste qualcosa di più, e avete ragione: vorreste dei figli che dedichino la loro vita a qualcosa di più che godersela prima che finisca, vorreste che la loro esistenza avesse un senso, vorreste averli messi al mondo per qualche ragione che non siano solo il vostro personale conforto e la rimozione del senso di colpa per averli consegnati a un mondo di sofferenze. Vorreste che appartenessero ancora all’«istante, lunghissimo, in cui, ereditando intuizioni che venivano da lontano, un’élite intellettuale iniziò a immaginare che l’uomo portasse dentro di sé un orizzonte spirituale non riconducibile, semplicemente, alla sua fede religiosa»6. «Mi basta che tu sia felice» è nascondere la mano dopo aver lanciato il sasso per la paura di aver centrato la persona sbagliata. Una ritirata.

Certo, bisogna scegliere bene i propri modelli7. Quello adottato da Isaac può non essere giudicato positivo sotto alcuni aspetti (una certa inclinazione alla collera, alla violenza, alla presunzione eccetera). Gesù, con quella solita eccezione del Tempio e di qualche altro capriccio, ebbe comportamenti più moderati e umani. E così convincenti che poi ci hanno costruito sopra l’ideologia più potente e inaffondabile della storia del mondo8.

Ma ognuno si sceglie i modelli che vuole, e a volte i più efficaci sono a maggior portata di mano. Quello che spesso succede è che poi finisci per costruirti un modello che non è un’altra persona, né un sistema fisso e rigido di principi e ambizioni: è il tu che vorresti essere. C’è sempre un tu che vorresti essere, a meno che non te la racconti. E come dice Michael Jackson, comincia a cambiare te stesso e questo cambierà il mondo. Hai voglia ad alzare le spalle.

Sopra il mio letto, tengo la riproduzione di un quadro famoso di Caravaggio, quello che rappresenta la vocazione di Matteo, che sta a San Luigi dei Francesi a Roma, dove Gesù, nella penombra di una volgare osteria, indica con il dito l’esattore delle tasse Matteo, e quello gli si rivolge stupefatto e sembra dire: «Chi, io, proprio io?». Non succede sempre così, nella realtà, e nessun Dio scende dalle nuvole per chiamare a nuovi doveri. È la tua coscienza, la tua intelligenza, la tua capacità di ragionamento sul mondo che ti inducono verso una strada, che ti convincono a dedicare la tua esistenza a qualcosa che non appartiene alla sfera della sopravvivenza, del successo o dell’arricchimento, alla sfera della cosiddetta felicità privata, ma a qualche cosa che dia valore e sostanza all’idea dell’uomo che tu ti fai e che l’umanità si è fatta nei momenti migliori della sua storia.

Goffredo Fofi9

***

1. Tra i vari elementi della cultura dell’uomo cacciatore e in competizione riproduttiva c’è pure la maggiore predisposizione naturale ad avercelo più lungo.

2. «L’oscenità di cedere all’universale tentazione di essere se stessi che costituisce il comandamento dell’epoca», Bernard-Henri Lévy, in Nemici pubblici, Bompiani 2009
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3. «Sii te stesso» non solo assolve alla funzione di legittimare ogni pigrizia e ogni mancanza di impegno, ma implica che il «se stesso» abbia di per sé delle qualità comunque, guidandoci in una direzione assai frequentata in questi anni di compiacimento e concentrazione su ciò che si fa. In quanto io, sono interessante. C’è un effetto collaterale e parallelo di questo atteggiamento che riguarda le nuove tecnologie e le opportunità che offrono di mantenere i propri interessi strettamente intorno a orizzonti ristrettissimi: segnalando libri, musica, amici che ci potrebbero interessare a partire da ciò che già ci piace. Finiamo per leggere solo cose con cui siamo d’accordo. Limitando quindi le possibilità di incontri e scoperte davvero nuovi, di adozione di pensieri finora ignorati, in favore di piccole variazioni sul nostro mondo di sempre: noi stessi.
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4. «La libertà sostanziale è quella che dà facoltà di cambiare se stessi e le cose intorno» (Michele Serra, «la Repubblica», 1° luglio 2010).

5. C’è una frase di solito attribuita a Gandhi – «Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo» – che distruggerebbe efficacemente da sola la pigra incompletezza del «sii te stesso», se venisse presa in considerazione non soltanto al momento dell’acquisto della maglietta.
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6. Alessandro Baricco, I barbari, Feltrinelli.
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7. L’Italia di oggi, tornando a quella sera del 1982, sembra aver adottato come modello quello di Stielike.
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8. «Rimane dunque un cristianesimo demitizzato, ridotto alla sua sostanza morale e, per quello che strada facendo è andato perduto, un grande rispetto e scarsa nostalgia» (Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano).
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9. Goffredo Fofi, La vocazione minoritaria, Laterza.
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(Foto Daniele Badolato / Lapresse)