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  • Sabato 21 maggio 2011

Perché i giochi ci rendono migliori e come possono cambiare il mondo

È uscito «La realtà in gioco», di Jane McGonigal, esperta e creatrice di videogiochi

di Jane McGonigal

Che cos’è esattamente un gioco?

Quasi tutti siamo prevenuti nei confronti dei giochi – persino i giocatori. Non possiamo farne a meno. Questo pregiudizio fa parte della nostra cultura, del nostro linguaggio, ed è addirittura insito nel modo in cui usiamo le parole “gioco” e “giocatore” nella conversazione quotidiana. Prendiamo per esempio un’espressione popolare americana, “gaming the system”, letteralmente “giocare il sistema”: significa sfruttare il sistema per il proprio personale tornaconto. Certo, tecnicamente si seguono le regole, ma non si gioca come si dovrebbe. In generale, è un tipo di comportamento che non ammiriamo; eppure, paradossalmente, spesso diamo agli altri un consiglio di questo genere: “È meglio che tu stia al gioco”.

Quello che vogliamo dire è: fai quello che devi fare per andare avanti. Quando parliamo di “stare al gioco” in questo modo, vogliamo dire di abbandonare, eventualmente, le nostre convinzioni morali ed etiche a favore delle regole di qualcun altro. Spesso poi usiamo il termine “giocatore” per descrivere qualcuno che manipola gli altri per ottenere quello che vuole. Diciamo anche che qualcuno “gioca con i sentimenti degli altri”, e non è un comportamento che ci piaccia. Di chi gioca, in questo senso, non ci fidiamo veramente. Dobbiamo stare attenti a quelli che “fanno i loro giochi (giochini o giochetti)” – ed è per questo che a volte avvertiamo il nostro interlocutore: “Non fare i tuoi soliti giochi con me”. Non ci piace avere l’impressione che qualcuno usi delle strategie contro di noi, o ci manipoli per il proprio divertimento personale.

Non ci fa piacere se qualcuno gioca con noi. E quando diciamo “Questo non è un gioco!”, quel che intendiamo far rilevare è che qualcuno si sta comportando in modo sconsiderato o che non prende la situazione sul serio. Un ammonimento simile presuppone l’idea che i giochi incoraggino o abituino le persone ad agire in modi che non sono appropriati per la vita reale. Se ci prestate attenzione, vi renderete conto di quanto siamo prevenuti nei riguardi dei giochi. Basta che guardiate il linguaggio che usiamo e vedrete quanto diffidiamo di come i giochi ci incoraggino ad agire e di quello che potremmo diventare se cominciamo a giocarli. Queste metafore però non riflettono in modo preciso che cosa significhi davvero giocare un gioco ben progettato. Sono solo un riflesso dei nostri timori peggiori nei confronti dei giochi. E in verità non abbiamo paura proprio dei giochi: quello che temiamo è perdere il senso di dove finisce il gioco e dove inizia la realtà. Se dobbiamo riparare la realtà con i giochi, però, dobbiamo vincere questi timori. Dobbiamo concentrarci su come funzionano effettivamente i veri giochi, e su come agiamo e interagiamo quando partecipiamo insieme allo stesso gioco. Cominciamo con una buona definizione di gioco.

I quattro tratti che definiscono un gioco

Non c’è mai stato nella storia umana un tempo in cui siano esistiti più forme, più piattaforme e più generi di gioco di quanti ne abbiamo a disposizione oggi. Abbiamo giochi per un singolo giocatore, per molti giocatori, e anche quelli massively multiplayer. Abbiamo giochi che possiamo fare sul personal computer, su una console, su un dispositivo portatile e sul cellulare – per non parlare dei giochi che ancora pratichiamo su campi erbosi o in terra battuta, con le carte o sulla scacchiera. Possiamo scegliere fra minigiochi da cinque secondi, giochi casuali da dieci minuti, giochi d’azione da otto ore e giochi di ruolo che vanno avanti indefinitamente per ventiquattro ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all’anno. Ci sono giochi che seguono il filo di una narrazione e altri che non hanno una storia. Ci sono giochi con e giochi senza punteggio. Ci sono giochi che mettono alla prova soprattutto il nostro cervello o soprattutto il nostro corpo – e una infinità di combinazioni intermedie. E tuttavia in qualche modo, nonostante tutte queste possibili varianti, quando giochiamo, sappiamo benissimo di farlo. C’è qualcosa di essenzialmente unico nel modo in cui i giochi strutturano l’esperienza.

Quando li si spoglia di tutte le differenze di genere e delle complessità tecnologiche, tutti i giochi hanno in comune quattro tratti definitori: un obiettivo, delle regole, un sistema di feedback e la volontarietà della partecipazione.
L’obiettivo è l’esito specifico verso cui tende l’attività dei giocatori. Concentra la loro attenzione e orienta continuamente la loro partecipazione al gioco.
L’obiettivo dà ai giocatori un senso di finalità.
Le regole impongono dei vincoli al modo in cui i giocatori possono raggiungere l’obiettivo. Eliminando o limitando le modalità ovvie per raggiungere l’obiettivo, le regole spingono i giocatori a esplorare spazi di possibilità in precedenza inesplorati. Le regole liberano la creatività e favoriscono il pensiero strategico.
Il sistema di feedback dice ai giocatori quanto sono vicini al raggiungimento dell’obiettivo. Può avere la forma di punti, livelli, di una classifica o di una barra di avanzamento; o, nella sua forma più elementare, può essere semplicemente la conoscenza di un esito oggettivo: “il gioco finisce quando …”. Il feedback in tempo reale funge da promessa che l’obiettivo può essere effettivamente raggiunto e fornisce la motivazione per continuare a giocare.
Infine, la volontarietà della partecipazione richiede che chi gioca conosca e accetti di buon grado l’obiettivo, le regole e il sistema di feedback. Questa consapevolezza stabilisce il terreno comune che consente a più persone di giocare insieme. E la libertà di entrare nel gioco o di abbandonarlo quando si vuole garantisce che un’attività intenzionalmente carica di tensione e di sfida venga sentita come un’attività sicura e piacevole. Questa definizione forse vi lascerà stupiti per le cose che mancano: interattività, grafica, narrazione, ricompense, competizione, ambienti virtuali o l’idea di “vincere” – tutti tratti a cui spesso pensiamo, quando oggi si parla di giochi. Vero, sono caratteristiche comuni a molti giochi, ma non sono caratteristiche definitorie.

Quel che definisce un gioco sono obiettivo, regole, sistema di feedback e volontarietà della partecipazione. Tutto il resto è rafforzativo o migliorativo di questi quattro elementi centrali. Una storia attraente rende più seducente l’obiettivo. Una metrica complessa rende più motivante il sistema di feedback. Traguardi e livelli moltiplicano le occasioni di provare il brivido di un successo raggiunto. Le esperienze multiplayer e massively multiplayer possono rendere meno prevedibile o più piacevole un gioco prolungato. Grafica immersiva, suoni e ambienti 3D aumentano la nostra capacità di prestare una costante attenzione al lavoro che stiamo facendo nel gioco. E gli algoritmi che aumentano la difficoltà del gioco man mano che si va avanti sono solo modi per ridefinire l’obiettivo e introdurre regole più impegnative. Bernard Suits, grande compianto filosofo, riassume il tutto in quella che considero la più convincente e la più utile fra le definizioni di gioco che siano mai state avanzate:

Giocare un gioco è il tentativo volontario di superare ostacoli non necessari.

Questa definizione, in sintesi, spiega tutto quello che c’è di motivazione, gratificazione e divertimento nel gioco. E ci porta alla nostra prima “riparazione” per la realtà:

Riparazione 1: ostacoli non necessari
Rispetto ai giochi, la realtà è troppo facile. I giochi ci mettono alla prova con ostacoli volontari e ci aiutano a mettere meglio a frutto i nostri personali punti di forza.

Per vedere come questi quattro tratti siano essenziali a ogni gioco, sottoponiamoli a una rapida verifica. Questi quattro criteri possono descrivere effettivamente quel che rende così attraenti giochi molto diversi fra loro come, poniamo, il golf, Scrabble e Tetris?
Prendiamo il golf, per cominciare. C’è un obiettivo chiaro: far arrivare una pallina in una serie di buche molto piccole, con un numero di tiri inferiore agli avversari. Se non si trattasse di un gioco, si raggiungerebbe l’obiettivo nel modo più efficiente possibile: si prenderebbe in mano la pallina, si camminerebbe fino a raggiungere ciascuna buca e si lascerebbe cadere la pallina nella buca. Quel che fa del golf un gioco è che volontariamente si accetta di posizionarsi davvero molto lontano da ciascuna buca e di lanciare la pallina con una mazza. Il golf è coinvolgente perché voi, insieme a tutti gli altri giocatori, avete convenuto di rendere quel lavoro più impegnativo di quel che avrebbe ragionevolmente diritto di essere.

Aggiungiamo alla sfida un sistema di feedback affidabile – avete sia la misura oggettiva della distanza della pallina rispetto alla buca, sia il conteggio dei tiri che avete fatto – ed ecco un sistema che non solo vi consente di sapere se e quando avete raggiunto l’obiettivo, ma accende anche la speranza di poter raggiungere l’obiettivo in modi sempre più soddisfacenti: con meno tiri o contro più giocatori. Il golf è, in effetti la quintessenza di un gioco: è davvero una spiegazione elegante esattamente di come e perché siamo così pienamente coinvolti quando giochiamo. Ma che cosa possiamo dire di un gioco in cui gli ostacoli non necessari sono più sottili? A Scrabble, l’obiettivo è comporre parole lunghe e interessanti con tessere su ciascuna delle quali è incisa una lettera. C’è ampia libertà: si può comporre qualsiasi parola che si trovi nel dizionario. Nella vita normale, abbiamo un nome per questa attività: scrivere a macchina.

Scrabble trasforma la scrittura in un gioco limitando la vostra libertà in diversi modi importanti. Tanto per cominciare, a ogni mano ci sono solo sette lettere con cui lavorare. Non si possono scegliere i tasti – le tessere – che si possono usare. Bisogna anche basare le proprie parole sulle parole che altri giocatori hanno già creato. E ciascuna lettera può essere usata solo un numero finito di volte. Senza queste limitazioni arbitrarie, penso saremmo tutti d’accordo che compitare parole con tessere su cui sono incise delle lettere non sarebbe un granché, come gioco. La libertà di operare nel modo più logico ed efficiente possibile è proprio l’opposto del gioco. Ma aggiungeteci una serie di ostacoli e un sistema di feedback (punti, in questo caso) che mostra esattamente quanto siete bravi a scrivere parole lunghe e complicate nonostante tutti questi ostacoli, e avrete un sistema di lavoro del tutto non necessario che ha affascinato più di 150 milioni di persone in 121 paesi per gli ultimi settant’anni.

Golf e Scrabble hanno una condizione di vittoria molto chiara, ma la possibilità di vincere non è un tratto necessario dei giochi. Tetris, spesso definito “il più grande gioco per computer di tutti i tempi”, è un esempio perfetto di gioco in cui non si può vincere. Quando si gioca a una versione tradizionale 2D di Tetris, l’obiettivo è impilare i blocchi che cadono, evitando di lasciare spazi vuoti fra l’uno e l’altro. I pezzi cadono sempre più rapidamente, e il gioco diventa sempre più difficile. Non finirebbe mai: semplicemente aspetta il momento in cui dovrete dichiararvi sconfitti. Se giocate a Tetris, è certo che perderete. A prima vista, non sembra una cosa tanto divertente. Che cosa c’è di attraente nel lavorare sempre più faticosamente fino a che non si perde? E invece Tetris è, tra i giochi per computer, uno dei più amati – e il termine addictive, “che dà dipendenza”, è stato usato per Tetris probabilmente più che per qualsiasi altro gioco mai progettato. Quel che dà così tanta assuefazione in Tetris, nonostante l’impossibilità di vincere, è l’intensità del feedback che offre. Quando si riescono a sistemare bene i pezzi del rompicapo di Tetris, si ottengono tre tipi di feedback: visivo (si possono vedere le righe scomparire una dopo l’altra con un “puf” che dà soddisfazione); quantitativo (un punteggio bene in evidenza che sale costantemente); e qualitativo (si percepisce un incremento costante nella difficoltà del gioco).

Questa varietà e intensità di feedback è la differenza più importante fra i giochi digitali e quelli non digitali. Nei giochi per computer e nei videogiochi, il circuito di interazione è stretto e gratificante. Sembra non ci sia alcun ritardo fra le nostre azioni e le risposte del gioco. Si possono vedere letteralmente nelle animazioni e si può calcolare sull’indicatore del punteggio l’impatto che si ha sul mondo del gioco. Si può anche percepire come il sistema di gioco sia straordinariamente attento alle nostre prestazioni: diventa più difficile solo quando si gioca bene, creando un equilibrio perfetto fra difficoltà della sfida e possibilità di successo. In altre parole, in un buon gioco digitale si gioca sempre al limite del proprio livello di abilità, sempre sull’orlo del fallimento. Quando si cade, si sente il bisogno di ricominciare subito a salire. Questo perché praticamente non esiste nulla di altrettanto coinvolgente quanto questo stato di operare ai limiti estremi della propria abilità – quello che i progettisti dei giochi e gli psicologi chiamano flow, il “flusso”4. Quando siete in uno stato di flusso, volete rimanerci: sia smettere sia vincere sono esiti altrettanto insoddisfacenti.

La popolarità di un gioco in cui non si può vincere, come è Tetris, rovescia completamente lo stereotipo del giocatore come persona fortemente competitiva a cui vincere importa più di qualsiasi altra cosa. La competizione e la possibilità di vincere non sono tratti definitori dei giochi – né definiscono gli interessi delle persone che amano giocare. Molti giocatori preferirebbero continuare a giocare che vincere – perché in quel modo il gioco finisce. Nei giochi a elevato feedback, lo stato di coinvolgimento intenso può essere, alla fin dei conti, più piacevole che non la soddisfazione di vincere. Il filosofo James P. Carse ha scritto che esistono due tipi di giochi: i giochi finiti, in cui si gioca per vincere, e i giochi infiniti, in cui si gioca per continuare a giocare il più a lungo possibile. Nel mondo dei giochi digitali, Tetris è un esempio eccellente di gioco infinito. Giochiamo a Tetris semplicemente per continuare a giocare a un buon gioco.

Schermata della prima stanza di Portal (Valve Corporation, 2007)


Mettiamo alla prova la definizione di gioco che abbiamo proposto con un ultimo esempio, un videogioco significativamente più complesso: Portal, un videogioco single-player che è in parte gioco d’azione e in parte rompicapo. Quando Portal inizia, ci si trova in una piccola stanza che sembra un po’ una stanza d’ospedale, priva di evidenti vie d’uscita. Non c’è molto con cui interagire in questo ambiente 3D: una radio, una scrivania e quella che sembra una sleeping pod. Si può girare per la piccola stanza e guardare fuori dai vetri delle finestre e basta. Non c’è niente di ovvio da fare: non ci sono nemici da combattere, tesori da raccogliere, né oggetti che cadono da evitare.

Con così pochi indizi su come procedere, all’inizio del gioco l’obiettivo è semplicemente capire quali siano gli obiettivi. Si può ipotizzare ragionevolmente che il primo sia uscire dalla camera sigillata, ma non è detto che sia proprio così. Sembrerebbe che l’ostacolo principale che si ha di fronte sia il non avere alcuna idea di quello che si dovrebbe fare. Bisogna imparare solo con i propri mezzi come andare avanti in questo mondo. Beh, non proprio solo con i propri mezzi. Se si fruga un po’ in giro per la camera, può succedere di raccogliere una cartellina che giace sulla scrivania. Questo movimento attiva un sistema di intelligenza artificiale, che si sveglia e comincia a parlarci. L’IA ci informa che stiamo per sottoporci a una serie di test di laboratorio. Non ci dice di che esami si tratta: ancora una volta sta a noi, il giocatore, riuscire a capirlo. Quello che alla fine si scopre, continuando a giocare, è che Portal è un gioco in cui si deve uscire da camere che agiscono secondo regole di cui non abbiamo consapevolezza. Si impara che ogni camera è un rompicapo, con trappole sempre più complicate, e che il gioco richiede la comprensione di una fisica sempre più complessa per poter uscire.

Se non si scopre da soli la fisica di ogni nuova camera (cioè: se non si riescono a capire le regole del gioco) si rimane prigionieri lì per sempre, costretti ad ascoltare il sistema di IA che continua a ripetere le stesse cose. Molti, se non la maggior parte, dei giochi digitali di oggi sono strutturati in questo modo. I giocatori all’inizio debbono affrontare l’ostacolo di non sapere che cosa fare e di non sapere come giocare. Questo tipo di impostazione ambigua è nettamente diversa da quella dei giochi storici, anteriori all’era digitale. Tradizionalmente, per partecipare a un gioco dovevamo avere le istruzioni; ora invece spesso siamo invitati a imparare mentre andiamo avanti. Esploriamo lo spazio del gioco e il codice informatico ci vincola e ci guida in modo efficace. Impariamo come giocare osservando con attenzione quello che il gioco ci consente di fare e come risponde ai nostri input. E così la maggior parte dei giocatori non legge mai i manuali di gioco: in effetti, è un truismo nell’industria dei giochi che un gioco ben progettato deve essere immediatamente giocabile, senza alcun tipo di istruzione.
Un gioco come Portal ribalta completamente la nostra definizione di “gioco”, ma non la distrugge. I quattro elementi fondamentali (obiettivi, regole, feedback, volontarietà della partecipazione) restano gli stessi – semplicemente si presentano in un ordine diverso. Un tempo ci venivano ammanniti direttamente l’obiettivo e le regole, poi avremmo dovuto cercarci il feedback andando avanti. Sempre più spesso ora, invece, la prima cosa che si scopre è il sistema di feedback, che ci guida poi verso l’obiettivo e ci aiuta a decodificare le regole. E questa è una motivazione fortissima a giocare: scoprire esattamente che cosa è possibile in questo mondo virtuale nuovo di zecca.

Penso sia corretto dire che la definizione di Suits, e poi la nostra definizione, si comportano molto bene rispetto a questi esempi, nella loro diversità. Qualsiasi gioco – digitale o meno – ben progettato è un invito ad affrontare un ostacolo non necessario. Quando vediamo i giochi in questa luce, le metafore pessimiste che utilizziamo per parlare di giochi si rivelano per quel che sono, timori irrazionali. I giocatori non vogliono “giocare” il sistema, ma vogliono partecipare a un gioco. Vogliono esplorare, imparare, migliorare. Si offrono volontari per svolgere un lavoro duro e non necessario – e hanno genuinamente a cuore il risultato della loro fatica. Se l’obiettivo è davvero attraente, e se il feedback è sufficientemente fonte di motivazione, continueremo a lottare con i limiti del gioco – creativamente, sinceramente ed entusiasticamente – per moltissimo tempo. Giocheremo fino a che non avremo del tutto esaurito le nostre capacità, o fino a che non avremo esaurito le sfide. E prenderemo sul serio il gioco perché non c’è niente di banale nel giocare un buon gioco. Il gioco è importante. È questo che significa comportarsi come un giocatore, essere una persona veramente amante del gioco. È così che diventiamo, quando giochiamo a un buon gioco. Ma questa definizione ci porta a una domanda che ci lascia perplessi. Perché mai ci sono così tante persone che si offrono volontarie per affrontare simili ostacoli, del tutto non necessari? Perché collettivamente passiamo 3 miliardi di ore alla settimana lavorando proprio ai limiti delle nostre capacità, senza alcuna ovvia ricompensa esterna? In altre parole: perché gli ostacoli non necessari ci fanno felici? Per capire come funzionano davvero i giochi, la risposta a questa domanda è cruciale quanto i quattro tratti definitori.

I giochi provocano emozioni positive

I giochi ci rendono felici perché sono un lavoro duro che abbiamo scelto noi stessi, e a quanto pare non c’è quasi nulla che ci renda più felici di un buon lavoro duro. Normalmente non pensiamo i giochi come un “lavoro duro”. In fin dei conti giochiamo, e ci è stato insegnato a considerare il gioco proprio l’opposto del lavoro. Ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. In effetti, come ha detto Brian Sutton-Smith, uno dei maggiori psicologi del gioco, “l’opposto del gioco non è il lavoro. È la depressione”. Quando siamo depressi, secondo la definizione clinica, due sono le cose di cui soffriamo: un senso pessimistico di inadeguatezza e una scoraggiata assenza di attività. Ribaltando questi due tratti, otterremo qualcosa come: un senso ottimistico delle nostre stesse capacità e un vigoroso impulso all’attività. Nella psicologia clinica non esiste un termine che descriva questa condizione positiva, ma è una descrizione perfetta dello stato emotivo di una situazione di gioco. Un gioco è un’occasione per concentrare la nostra energia, con ottimismo implacabile, su qualcosa in cui siamo bravi (o in cui diventiamo più bravi) e che ci diverte. In altre parole, gioco è l’esatto opposto emotivo della depressione. Se facciamo un buon gioco (se affrontiamo ostacoli non necessari) ci spostiamo attivamente verso l’estremo positivo dello spettro emotivo. Siamo impegnati con grande intensità e questo ci mette esattamente nella condizione mentale e fisica giusta per generare ogni tipo di emozione e di esperienza positiva. Tutti i sistemi neurologici e fisiologici che stanno alla base della felicità (i nostri sistemi dell’attenzione, il centro della gratificazione, i nostri sistemi della motivazione, i centri delle emozioni e della memoria) sono pienamente attivati dall’attività di gioco.

Questa attivazione emotiva estrema è la ragione principale per cui i giochi digitali di maggior successo di oggi danno così tanta dipendenza e migliorano così tanto l’umore. Quando siamo in uno stato concentrato di impegno ottimistico, di colpo diventa biologicamente più possibile avere pensieri positivi, stringere connessioni sociali e migliorare i nostri punti di forza personali. Condizioniamo attivamente le nostre menti e i nostri corpi a essere più felici. Magari il lavoro duro nel mondo reale avesse gli stessi effetti! Nelle nostre vite reali, il lavoro duro è spessissimo invece qualcosa che facciamo perché dobbiamo farlo: per guadagnarci da vivere, per tirare avanti, per soddisfare le aspettative di qualcun altro, o semplicemente perché qualcun altro ci ha dato un compito da portare a termine. Facciamo fatica a sopportare questo tipo di lavoro. Ci logora. Portavia tempo agli amici e alla famiglia. È circondato da troppe critiche. Abbiamo paura di sbagliare. Spesso non riusciamo a vedere l’impatto diretto delle nostre fatiche, perciò ben di rado ci sentiamo soddisfatti. O, peggio, il nostro lavoro nel mondo reale non è abbastanza duro. Ci annoia da morire. Ci sentiamo del tutto sottoutilizzati. Stiamo buttando via la nostra vita.

Quando non scegliamo da noi un lavoro duro, di solito non è il lavoro giusto, al momento giusto, per la persona giusta. Non è perfettamente personalizzato per quello che sappiamo fare meglio, non abbiamo il controllo del flusso di lavoro, non abbiamo un’immagine complessiva chiara di quello a cui stiamo dando un contributo, e non vediamo mai alla fine quale sia il risultato. Il lavoro duro che qualcun altro ci impone di fare semplicemente non attiva i nostri sistemi della felicità nello stesso modo: troppo spesso non ci assorbe, non ci rende ottimisti e non ci rinvigorisce. Che impulso darebbe alla felicità globale netta il poter attivare positivamente menti e corpi di centinaia di migliaia di persone offrendo loro un lavoro pesante migliore! Potremmo offrire loro missioni e compiti che le mettono alla prova, personalizzabili, da fare da sole o con amici e familiari, quando e dove vogliono. Potremmo fornire loro indicazioni vive, in tempo reale, dello stato di avanzamento e una visione chiara del loro impatto sul mondo circostante. Questo è esattamente quello che fa oggi l’industria dei giochi. Soddisfa il nostro bisogno di un lavoro duro migliore – e ci aiuta a scegliere da soli il lavoro giusto al momento giusto. C’è un vecchio proverbio inglese che dice “All work and no play makes Jack a dull boy”, “Lavorare soltanto e non giocare rende Jack un ragazzo annoiato”. Beh, potete dimenticarvelo. Ogni buona condizione di gioco è un lavoro duro. È lavoro duro che ci piace e che abbiamo scelto noi da soli. E quando facciamo un lavoro che ci sta a cuore, prepariamo la nostra mente per la felicità. Il lavoro giusto assume forme diverse in momenti diversi per persone diverse. Per soddisfare le varie esigenze dei singoli, da decenni i giochi ci offrono una gamma sempre più varia di lavori.

C’è il lavoro ad alto rischio, che è quello a cui molti pensano subito appena si parla di videogiochi. È quello veloce e orientato all’azione, che ci elettrizza perché ce la si può fare ma anche perché si può fallire miseramente. Che si facciano curve a gomito alla velocità massima in un gioco di corse come quelli della serie Gran Turismo o si combattano gli zombie in uno sparatutto in prima persona come Left 4 Dead, è il rischio di schiantarsi, di bruciare o di farsi risucchiare il cervello che ci fa sentire più vivi. Ma c’è anche il lavoro di routine, totalmente prevedibile e monotono. Questo genere di lavoro non è molto apprezzato nella vita reale, ma quando lo scegliamo noi contribuisce realmente a farci sentire tranquilli e produttivi. Che si tratti di spostare gioielli multicolori in un gioco casuale come Bejeweled o di mietere raccolti virtuali in un gioco sociale come FarmVille, siamo contenti di tenere occupate le mani e la mente concentrandoci su un’attività che produce un risultato ben definito. C’è poi il lavoro mentale, che fa salire di giri le nostre facoltà cognitive. Può essere a fuoco rapido e concentratissimo come i problemi di matematica da trenta secondi nei giochi di Brain Age per Nintendo, oppure molto tranquillo e complesso come le campagne di conquista di diecimila anni simulati nel gioco di strategia in tempo reale Age of Empires. In un modo o nell’altro, sentiamo un fremito di soddisfazione quando impegniamo al meglio il nostro cervello. E poi c’è il lavoro fisico, che fa battere più veloce il cuore, fa pompare più profondamente i polmoni e ci fa sudare come pazzi.

Se è abbastanza duro, il nostro cervello viene inondato di endorfine, le sostanze chimiche del piacere. Cosa ancora più importante, sia che tiriamo pugni in Wii Boxing o saltelliamo in Dance Dance Revolution, semplicemente ci godiamo questo processo che ci finisce per esaurire completamente. C’è il lavoro di scoperta, che sta tutto nel piacere di indagare attivamente oggetti e spazi che non ci sono familiari. Il lavoro di scoperta ci aiuta a sentirci fiduciosi, potenti e motivati. Quando esploriamo misteriosi ambienti 3D, come una grande città nascosta nel mare, nello sparatutto di ruolo BioShock, o quando interagiamo con personaggi strani come gli adolescenti morti che popolano la Tokyo del gioco d’azione di ruolo per console portatile The World Ends with You, ci godiamo l’occasione di essere curiosi di tutto. Sempre più spesso nei giochi digitali di oggi c’è il lavoro di squadra, che mette in primo piano la collaborazione, la cooperazione e la capacità di contribuire a un gruppo più ampio. Quando ci ritagliamo i nostri doveri speciali in una missione complessa come le incursioni per squadre di venticinque giocatori in World of Warcraft, o quando difendiamo i nostri amici in un gioco cooperativo a quattro giocatori nell’avventura a fumetti Castle Crashers, proviamo una grande soddisfazione nel sapere che abbiamo un ruolo speciale e importante da svolgere in un’impresa molto più grande. E infine c’è il lavoro creativo. Quando svolgiamo del lavoro creativo, prendiamo decisioni significative e possiamo provare quel senso di orgoglio che deriva da quello che abbiamo fatto. Il lavoro creativo può prendere la forma della progettazione di case e famiglie nei giochi Sims, o nel caricare i video delle nostre esibizioni al karaoke sulla rete SingStar, o nel costruire e gestire una squadra online nei giochi della serie Madden NFL. A ogni sforzo creativo che facciamo, ci sentiamo più abili di quanto non fossimo all’inizio. Lavoro ad alto rischio, di routine, mentale, fisico, di scoperta, di squadra e creativo: con tutto questo lavorare sodo nei nostri giochi preferiti, mi viene in mente una cosa che ha detto il drammaturgo Noël Coward: “Work is more fun than fun” – il lavoro è più divertente del divertimento.

Capisco, può suonare un po’ assurdo. Il lavoro diverte più del divertimento? Ma se parliamo di giochi è una cosa che si può misurare e dimostrare vera, grazie a un metodo di ricerca della psicologia, denominato campionamento dell’esperienza (ESM: experience sampling method). Gli psicologi usano questo metodo ESM per scoprire come ci sentiamo realmente in momenti diversi della giornata. I soggetti vengono interrotti a intervalli casuali da un cercapersone o da un messaggio testuale e debbono fornire due informazioni: che cosa stanno facendo e come si sentono. Uno dei risultati più comuni delle ricerche ESM è che quello che pensiamo sia “divertimento” è in realtà qualcosa di moderatamente deprimente. Praticamente qualsiasi attività che descriveremmo come un tipo di divertimento “rilassante” (guardare la televisione, mangiare cioccolato, andare a passeggio guardando le vetrine dei negozi, o solo starsene tranquilli) non ci fa sentire meglio. In effetti, di solito dobbiamo riconoscere di sentirci peggio dopo che non quando abbiamo cominciato a “divertirci”: siamo meno motivati, meno fiduciosi e nel complesso meno coinvolti. Ma com’è possibile che così tanti fra noi si sbaglino così clamorosamente su quello che è divertente? Non dovremmo avere una migliore sensibilità intuitiva per quello che ci fa stare davvero meglio? Certo abbiamo una forte sensibilità intuitiva per quello che ci fa sentire male, e la tensione negativa e l’ansia di solito sono in cima alla lista. I ricercatori dell’ESM sono convinti che quando cerchiamo coscientemente un divertimento rilassante, di solito cerchiamo di invertire queste sensazioni negative. Quando cerchiamo un intrattenimento passivo e attività a basso coinvolgimento, li usiamo per controbilanciare il senso di stimolazione e oppressione che percepiamo.

Ma, tentando di dedicarci a un intrattenimento leggero, spesso in realtà finiamo per oscillare un po’ troppo in direzione opposta. Passiamo dalla tensione e dall’ansia direttamente alla noia e alla depressione. Sarebbe molto meglio evitare l’intrattenimento leggero e cercare invece un divertimento robusto, o un lavoro pesante. Il divertimento robusto è quello che proviamo quando sperimentiamo uno stress positivo, o l’eustress (combinazione di stress, tensione, con il greco eu, che significa “buono”). Da un punto di vista fisiologico e neurologico, l’eustress è praticamente identico allo stress negativo (distress): produciamo adrenalina, i nostri circuiti di gratificazione si attivano e aumenta l’afflusso di sangue verso i centri di controllo dell’attenzione nel cervello. Quello che è fondamentalmente diverso è il nostro stato d’animo. Quando abbiamo paura di sbagliare o temiamo un pericolo, o quando una fonte esterna esercita su di noi una qualche pressione, l’estrema attivazione neurochimica non ci rende felici, bensì irritati e combattivi, oppure ci fa venir voglia di fuggire e di staccare la spina delle emozioni. Può anche innescare comportamenti di evitamento come mangiare, fumare o assumere droghe. In caso di eustress, invece, non proviamo paura o pessimismo.

Abbiamo generato la situazione di stress volontariamente, perciò siamo fiduciosi e ottimisti. Quando scegliamo il nostro lavoro duro, godiamo della stimolazione e dell’attivazione. Ci fa venir voglia di immergerci, di riunirci con altri, di fare. E questa tonificazione ottimistica risolleva l’umore molto più del rilassamento. Se ci sentiamo in grado di affrontare la sfida, dichiariamo di essere fortemente motivati, estremamente interessati e coinvolti positivamente nelle situazioni stressanti. E questi sono gli stati emotivi chiave che corrispondono a un benessere generale e alla soddisfazione per la vita. Il divertimento robusto ci fa sentire apprezzabilmente meglio di quando l’abbiamo iniziato. Perciò non sorprende che una delle attività per cui i soggetti dell’ESM dichiarano massimi livelli di interesse e di umore positivo, sia durante che dopo, è la partecipazione a giochi – ivi compresi attività sportive, giochi di carte, da scacchiera, al computer e videogiochi10. La ricerca dimostra quello che i giocatori già sapevano: entro i limiti della nostra capacità di sopportazione, preferiremmo lavorare duramente al farci intrattenere. Forse è per questo che i giocatori passano meno tempo davanti al televisore di chiunque altro sul pianeta.

Come dice Tal Ben-Shahar, docente ad Harvard ed esperto di felicità, “Siamo molto più felici se ravviviamo il tempo invece di ammazzarlo”. C’è un altro beneficio emotivo, ancora più importante, nel divertimento robusto: è la fierezza ed è forse l’emozione più primitiva che possiamo provare. Fiero è proprio la parola italiana che i progettisti di giochi hanno adottato per descrivere una forma di euforia per cui la lingua inglese non ha un buon vocabolo. Fierezza è quella che proviamo dopo aver trionfato sulle avversità. La riconosciamo bene quando la proviamo – e quando la vediamo, perché quasi tutti la esprimiamo esattamente nello stesso modo: lanciamo le braccia in alto e urliamo. Il fatto che praticamente tutti gli esseri umani esprimano fisicamente la fierezza nello stesso modo è un segno certo che è in stretto rapporto con qualcuna delle nostre emozioni più primitive.
I nostri cervelli e i nostri corpi debbono aver evoluto questa esperienza di fierezza in una fase primitiva sulla scala del tempo della nostra specie – e in effetti i neuroscienziati la considerano parte dei nostri “circuiti da cavernicoli”. La fierezza, secondo i ricercatori del Center for Interdisciplinary Brain Sciences Research di Stanford, è l’emozione da cui è nato il desiderio di lasciare la caverna e conquistare il mondo. È una brama di sfide che possiamo superare, battaglie che possiamo vincere, pericoli che possiamo sconfiggere. Gli scienziati hanno documentato recentemente che la fierezza è uno dei picchi neurochimici più potenti che possiamo provare: coinvolge tre strutture diverse dei circuiti della gratificazione nel cervello, compreso il centro metacorticolimbico, che in particolare è associato alla gratificazione e alla dipendenza. La fierezza è una passione diversa da tutte le altre, e, quanto più impegnativo è l’ostacolo che superiamo, tanto più intensa la fierezza.

Un buon gioco è un modo speciale di strutturare l’esperienza e produrre emozioni positive. È uno strumento estremamente potente per ispirare partecipazione e motivare a un lavoro duro. E quando questo strumento è messo in campo su una rete, può ispirare e motivare decine, centinaia, migliaia o milioni di persone contemporaneamente. Qualunque altra cosa pensiate di sapere sui giochi, per il momento scordatevela. Tutto il buono che viene dai giochi (tutti i modi in cui i giochi possono renderci più felici nella vita quotidiana e possono aiutarci a cambiare il mondo) deriva dalla loro capacità di organizzarci per affrontare un ostacolo scelto volontariamente. Aver chiaro che questo è il modo in cui funzionano veramente i giochi può aiutarci a smettere di preoccuparci delle persone che potrebbero “giocare” i nostri sistemi e a cominciare invece a dare loro giochi reali e ben progettati da giocare. Se ci circondiamo attivamente di persone che giocano lo stesso nostro gioco, possiamo smetterla di diffidare dei “giocatori”, quelli che fanno i loro giochetti personali. Se sappiamo che cosa significa realmente giocare a un buon gioco, possiamo smetterla di ricordarci a vicenda: Questo non è un gioco. Possiamo invece cominciare a incoraggiare attivamente gli altri: Questo può essere un gioco.

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È uscito per Apogeo La realtà in gioco, di Jane McGonigal.

McGonigal è ricercatrice e designer di giochi, e ne studia la capacità di intervenire sul mondo reale. Tra i primi ad occuparsi di “alternate reality game” o ARG (una tipologia di gioco narrativo che utilizza il mondo reale come piattaforma spesso coinvolgendo diversi media, e raccontando una storia che può essere influenzata dalle idee e dalle azioni dei giocatori), è stata la creatrice di The Lost Ring, World Without Oil, Cruel 2 B Kind, e I Love Bees. È specializzata nell’applicare la teoria e il design di videogiochi e giochi al mondo reale e al mondo del lavoro, e ha sviluppato workshop basati sul gioco per alcune tra le più grandi compagnie tecnologiche in Asia, Europa e Stati Uniti.
Il suo sito è JaneMcGonigal, La realtà in gioco è il suo primo libro, dopo i due saggi This is not a Game, e A Real Little Game, scritti per l’Università di Berkeley, e disponibili online.