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  • Mercoledì 4 maggio 2011

La storia di Chernobyl

Prima che diventasse Chernobyl, e anche dopo

di Francesco M. Cataluccio

A sculpture depicting the former symbol of the USSR is set against the setting sun in the abandonned city of Pripyat close to Chernobyl on March 31, 2011. The project to build a new sarcophagus over the damaged Chernobyl nuclear reactor lacks some 600 million euros of the 1.5 billion needed, a Ukrainian official said. AFP PHOTO/ SERGEI SUPINSKY (Photo credit should read SERGEI SUPINSKY/AFP/Getty Images)
A sculpture depicting the former symbol of the USSR is set against the setting sun in the abandonned city of Pripyat close to Chernobyl on March 31, 2011. The project to build a new sarcophagus over the damaged Chernobyl nuclear reactor lacks some 600 million euros of the 1.5 billion needed, a Ukrainian official said. AFP PHOTO/ SERGEI SUPINSKY (Photo credit should read SERGEI SUPINSKY/AFP/Getty Images)

Alcune delle mie più strane avventure hanno avuto inizio nei negozi degli antiquari: luoghi di divagazioni incongrue, dove si scopre ciò che non si aspetta e molte cose rimangono in sospeso, senza una conclusione. Nel tiepido settembre del 1983, entrai in una piccola libreria parigina, tra rue Madame e rue du Vieux Colombier, affollata di mappe geografiche e stampe di antichi edifici egizi e babilonesi. Sembrava di stare in una specie di Loggia massonica. Avevo intenzione d’acquistare per un regalo un’antica carta della Polonia. Non ne avevano, e così mi fu proposta una mappa colorata dell’Ucraina: un bel cartiglio opera di Giovan Battista Homann (1663-1724) di Norimberga, che la incise nel 1705. In alto a sinistra, attorniata da alcune buffe figure con baffoni, colbacchi e sciabole sguainate, c’era una scritta: «Ukrania quae est terra cosaccorum».

Mentre, indeciso, la stavo esaminando, mi si accostò un altro cliente: smisuratamente alto, volto pallido e capelli biondi impiastricciati in un vezzoso riporto, intabarrato in un elegante, anche se un po’ consunto, pastrano nero. Si presentò bofonchiando dei nomi in comprensibili e asserendo di essere principe di non so dove: «traduttore e studioso di fenomeni chimici». Parlava un francese un po’ asiatico, ma poi passò con naturalezza all’italiano, con un beffardo accento napoletano. Mi sfilò delicatamente la carta dalle mani e la guardò abbozzando un ghigno. Percorrendo con l’indice ingiallito dalla nicotina la verticale al centro della carta, lungo la linea nera di un fiume, sussurrò: «È l’amaro Nipro, il Dnepr, menzionato da Erodoto col nome di Borysthénes, che in scita significava ‘ampia terra’; mentre i romani lo chiamavano: Danaper. Qui forma quasi un lago e, appena più sopra, in un reticolo di fiumi, incontra il Pripjat’, da prypec, che significa, come saprà, ‘riva sabbiosa’. Ecco, vede qui, nella prima ansa a sinistra, è segnata Czernobel o Chernobyl. Il nome della città deriva da una combinazione tra chornyi (nero) e byllia (steli d’erba o gambi). Il suo significato letterale sarebbe quindi: nero stelo d’erba. La ragione di questo nome non è ben nota e ci sono varie ipotesi, una di queste la fa derivare dalla parola ucraina che definisce l’artemisia (Artemisia absinthum): la componente principale dell’assenzio, assieme ai semi di anice verde, finocchio, issopo, melissa, mischiati ad angelica, menta, ginepro, camomilla e coriandolo».

Barbara, l’amica polacca alla quale portai la mappa, pagata a caro prezzo, non apprezzò affatto il regalo. Anzi, si arrabbiò moltissimo e me la tirò dietro urlandomi con disprezzo: «Quell’Ucraina è sempre stata Polonia: non vedi che c’è anche Lublino, Leopoli e tutta la Podolia!». Così quella carta è rimasta a me. Ed è anche un po’ per colpa di lei se, quando scoppiò la Centrale nucleare, mi trovavo lì vicino: in una casetta, attorniata da un giardino di meli, alla periferia di Varsavia. A causa di Chernobyl sono diventato radioattivo. Quel nome si è insinuato prepotentemente, e subdolamente, dentro di me, costringendomi ad assumere qualche medicina, nociva soprattutto per la memoria e l’umore. Non foss’altro per scaramanzia, e per rassicurare i miei genitori.

Per qualche anno presi così a frequentare l’antica e profumata farmacia di San Giovanni. Il padrone aveva dei buffi occhialetti penzolanti dal collo, modi gentili e una erre moscia assai marcata. Era l’orgoglioso esponente di una genia di farmacisti io-la-so-lunga, ormai in via d’estinzione. Alle sue spalle, tra i cerulei scaffali pieni di vecchi barattoli, troneggiava la riproduzione del San Giovanni Battista di Leonardo da Vinci, con gli occhiacci ridenti e l’indice puntato verso il cielo. A me quel gesto, più che un monito a non perdere di vista ciò che è superiore, sembrava una beffarda manifestazione di trionfo, come fanno certi calciatori dopo aver segnato un goal. Senza dire che, nel mio caso, dal cielo cui il dito invitava era piovuta giù la peste radioattiva.

Il racconto che segue è l’evidente manifestazione della ristrettezza delle mie vedute, come al solito mascherata dietro molte storie e divagazioni, ma è anche un piccolo contributo per la rivalutazione di una cittadina, vittima dei demonii, che avrebbe aspirato ad altri, e più tranquilli, destini.

Lo scorso anno, in una gelida alba novembrina, mi ritrovai sul lungo marciapiede di fronte alla rugginosa stazione ferroviaria di Kiev. Su decine di pullman si riversavano donne di tutte le età che andavano a lavorare a giro per l’Europa. Proprio davanti a una moderna, ed esageratamente dorata, chiesa ortodossa, stava parcheggiato un piccolo furgoncino giallo munito di bandierina col simbolo della radioattività.

Appoggiati alla portiera c’erano due giovani, gli Accompagnatori: uno smilzo e barbuto, vestito di nero, con l’aria mistica di un prete ortodosso; l’altro, tarchiato, la faccia tempestata dai brufoli, i capelli con taglio militare e due orecchini per lobo. Attendevano i clienti e controllavano la loro registrazione su un nuovissimo iPad. Eravamo in sette: due fisici dell’Università di San Pietroburgo, una coppietta di allegri fidanzatini moscoviti, una psicologa bielorussa che somigliava a Juliette Binoche da bionda, un lituano armato di una ricca attrezzatura fotografica… Espletate le formalità ci fecero salire a bordo. La prima sorpresa fu che il portellone scorrevole non chiudeva bene.
Così, per tutto il viaggio, venni investito in pieno da una lama di vento freddo. Ma la cosa che mi dette più fastidio di quel pulmino fu la puzza di marcio, come scoreggie di cavolo e vodka. Usciti dalla città, si imboccò una specie di camionabile monotona e completamente deserta, affiancata da nere e fitte foreste. Di tanto in tanto, ferme sul ciglio della strada, macchine della polizia, seminascoste da impettiti poliziotti irrigiditi dal freddo.

Dopo una mezz’ora di assonnato silenzio, il tarchiato, che stava seduto accanto al malinconico autista, prese il microfono e recitò, guardando dritto davanti a sè, «una breve introduzione alla gita». Disse che non c’era più nulla da temere perché «è tutto in sicurezza». Per la prima volta sentii nominare la Zona: «Niente di commestibile potrà esser portato dentro la Zona e niente riportato fuori; niente potrà esser raccolto nella Zona; tutto quel che vi cadrà per terra dovrà esser lasciato là, nella Zona».

Quindi accese un piccolo televisore, fissato al tetto del pulmino, e ci mostrò un documentario del National Geografic, intitolato The Battle of Chernobyl, che fece ancor di più gelare il nostro sangue, suscitando il desiderio di tornare immediatamente indietro. Ma ormai era troppo tardi: uno sgangherato posto di blocco militare ci sbarrò la strada. Ci obbligarono a scendere per esser identificati. A gesti, quasi avessero timore di aprir la bocca, ci fecero poi segno di attraversare a piedi una breve «terra di nessuno» dove razzolavano stancamente alcuni spelacchiati cani randagi. Quindi, di nuovo sul pulmino, a passo d’uomo, per una larga strada dritta con ai lati qualche casa di campagna in evidente stato di abbandono.

Un po’ più avanti, improvvisa frenata: tutti giù verso un sentiero laterale, a inseguire e fotografare un vecchietto con una carriola che si allontanava in fretta come un animale spaventato. Il paesaggio circostante diventava sempre più sfuocato. Non essendoci la neve, il colore dominante era il verde salvia e le betulle erano tutte basse e giovani. Quando giungemmo alla periferia della città di Chernobyl ci trovammo di fronte pochi edifici in stile sovietico, circondati da alberi attorcigliati.

Ci dissero che, in tutta la Zona, c’erano solo 700 abitanti: uomini e donne, per lo più anziani, che hanno scelto di tornare alle loro case, incuranti del pericolo, o lavoratori ai quali è permesso di stare lì solo per 14 giorni, obbligati poi a osservarne altrettanti per il riposo e i controlli sanitari. Aggiunsero che la città di Chernobyl, nonostante si trovi a soli 29 chilometri dalla centrale, fu relativamente poco colpita dagli effetti delle radiazioni: la polvere radioattiva, a causa del vento, si diffuse piuttosto verso nord, infestando la Bielorussia. Nell’ottobre del 1988 si parlò comunque di radere al suolo una parte della città, a causa dell’inquinamento radioattivo, soluzione poi abbandonata per l’enorme quantitativo di particelle radioattive che si sarebbero sollevate assieme alle macerie degli edifici demoliti.

Nel Centro di accoglienza, definito pomposamente sulla targa «Cernobyl Interform Agency», aleggiava un caldo profumino di zuppa di barbabietole. Venimmo ricevuti da un uomo in tuta mimetica, la nostra Guida, che ci ripeté le raccomandazioni già sentite e ci fece firmare un fascicolo dove ci assumevamo tutte le responsabilità per quel che avrebbe potuto accaderci. Lo guardai bene: il suo volto angoloso, severo e malinconico, mi ricordava un attore cinematografico. Ma di quale strampalato film? Assieme alla Guida, a due passi da lì, ci recammo nella vecchia stazione dei bus a… prendere un caffé e fare uno spuntino. Il piccolo e colorato negozio di alimentari, gestito da una rubiconda signora bionda con i denti tutti dorati, era pieno di leccornie: uova, verdure, vodka, birre, salumi e formaggi dai colori brillanti.

Tutto esposto all’aria, in bella vista. Io ero incuriosito dai piccoli cetrioli verde smeraldo. «Non sono buoni», mi rispose bruscamente la commessa. «Li tenete qui per decorazione?», chiesi. Sfoderò un sorriso aureo da Medusa e mi abbagliò. C’era anche un banco dei surgelati, sul quale si avventarono i miei compagni di viaggio, che passarono il resto della mattinata a estrarre dai tascapane barrette rosate di polpa di granchio e succhiarle come lecca lecca. Proseguimmo in direzione della parte vecchia della città: rare case a un piano abbandonate, qualcuna ancora in legno. Non si percepiva un tessuto urbano definito, poche volte le strade si incrociavano segnate da edifici ad angolo, di un secolo fa.

Sembrava un triste e fitto bosco, punteggiato qua e là da case senza luce nè vita. Slabbrate staccionate delimitavano quelli che erano stati fiorenti orti e giardini, che circondavano centinaia di case di campagna attaccatesi, nei secoli, le une alle altre fino a formare una verde città. L’epoca staliniana e la guerra hitleriana avevano già definitivamente provveduto a creare delle macchie disabitate, a scollare le pochi costruzioni che tenevano assieme quel mondo: cancellando soprattutto le Sinagoghe, i negozi e i palazzi dei mercanti. L’unico vecchio edificio pubblico rimasto in piedi, restaurato e colorato come un dolcetto di marzapane, era la vecchia chiesa ortodossa, con la facciata a campanile.

Si percepiva comunque che la vecchia Chernobyl, a differenza di tutte gli altri agglomerati urbani nell’arco di 30 chilometri, aveva una sua vecchia storia e il fascino di certe antiche città abbandonate, come quelle che si trovano in Siria, a nord di Aleppo. Davanti alla caserma dei Vigili del fuoco, c’è un grigio monumento moderno che, con tutti quegli idranti attorcigliati, ricorda la statua di Laocoonte, in onore dei pompieri che per primi accorsero alla Centrale e morirono poi tutti. La targa dice: «A coloro che hanno salvato il mondo».

Risalimmo sul pulmino e iniziammo a girare per una pianura completamente deserta. Dopo aver attraversato uno spettrale ponte sul fiume Pripjat’, trafitto da alti lampioni al neon, ci trovammo all’improvviso di faccia alla Centrale. Come tutte le cose immaginate, e anche viste in fotografia, apparve molto più piccola e innocua. La ciminiera la faceva sembrare un peschereccio, attraccato sul canale di raffreddamento che la circonda. L’acqua del canale era ferma e scura come pece. Un tempo pare fosse popolata da buffe rane dai riflessi rossastri. Il fisico pietroburghese chiese se oggi lì ci fossero pesci e ottenne una secca risposta: «Certamente, pesci attivi e radioattivi».

Un amico di Kiev, che mi aveva aiutato a sbrigare le pratiche burocratiche per ottenere il permesso di visitare Chernobyl e si era però rifiutato cortesemente di accompagnarmi («Ci sono già stato una volta, sono giovane e vorrei avere dei figli»), mi raccontò poi che, quando ci era andato, alcuni anni fa, con una delegazione di vicentini che ospitano periodicamente bambini delle zone colpite dalle radiazioni, aveva fatto lì un esperimento con una grossa pagnotta. Dal ponticello aveva gettato nel canale dei pezzetti di pane e dei pesci neri vi si erano avventati rapidamente. Poi gettò intero il mezzo filone rimasto, e dalle acque fece capolino un’enorme bestia che, spalancando le fauci, lo inghiottì in un solo boccone.

Più andavamo avanti nella «visita» e più capimmo che le domande non erano molto gradite. Quella che avremmo fatto tutti volentieri (ma ci tenemmo prudentemente in gola) era perché la ciminiera fumasse e si potesse notare un operoso via vai di persone all’interno del recinto: uomini che scendevano da pulmini con la bandiera blustellata dell’Unione europea e persino, ma forse fu una mia allucinazione patriottica, un camioncino con scritto Ansaldo. Era chiaro che qualcosa della Centrale era in funzione. Solo il Sarcofago di cemento, alla sinistra della ciminiera, che copre il cuore ancora pulsante del Reattore numero 4, appariva calmo e solenne come un catafalco babilonese. È una sorta di cerottone che contrasta con il baldanzoso colore rosso del vicino Reattore numero 5.

Ci facemmo delle foto davanti a una grande targamonumento, addossata al muro dietro la Centrale. Anche lì si ricordavano «coloro che hanno salvato il mondo». Ci fu ordinato però di non inquadrare gli altri edifici vicini. Ritornammo sul pulmino, convinti che la visita fosse finita; avessimo assorbito la nostra dose eccessiva di radiazioni; potessimo rientrare nel mondo normale a farci un buon pranzetto. Invece, il nostro traballante automezzo puntò decisamente verso Ovest e ci trovammo in poco tempo davanti a una di quelle sproporzionate scritte in cemento armato, indicanti il nome delle città sovietiche: Pripjat’.

La città, sulle rive dell’omonimo fiume, fu costruita, nel 1970, a 12 chilometri dalla Centrale, per ospitare gli scienziati, le maestranze e le loro famiglie. Ci vivevano 45.000 persone (delle quali 16.000 bambini), provenienti da ogni parte dell’Urss. I suoi abitanti erano, rispetto allo standard di vita della grande maggioranza degli altri cittadini sovietici, dei privilegiati: guadagnavano mediamente tre volte tanto; vivevano in case costruite in modo più solido e confortevole; ciascuno aveva l’appartamento indipendente e l’automobile, belle scuole, attrezzature sportive e un grande parco dei divertimenti; negozi forniti di ogni ben di Dio.
Era una trappola. Pochissimi erano al corrente dei rischi che correvano.

Dopo l’esplosione del Reattore fu il centro abitato più investito dalle radiazioni. Il 28 aprile, in gran segretezza, tutti gli abitanti vennero evacuati in 2 ore. Dovettero lasciare lì quasi tutto. La maggior parte fu trasferita in città della Siberia, per evitare che raccontassero la loro tragedia. Oggi, nonostante i molti anni trascorsi, le incursioni più o meno autorizzate per riprendersi le proprie cose e le razzie di sciacalli disperati, è ancora tutto lì: la città deserta sembra esser stata abbandonata da poco e ciò accresce la sua aura spettrale. Quello che fa impressione delle città contemporanee progettate a tavolino è la mancanza di coesione. I blocchi sono staccati l’uno dall’altro, come tante isole indipendenti e senza rapporti.
Pripjat’, nella sua desolazione attuale, rivela chiaramente la mostruosità di realizzazioni urbanistiche che non tengono conto delle esigenze vere degli esseri umani. Subito dopo il posto di blocco, che fa intuire come tutta la città sia circondata dal filo spinato, si passò accanto a un grande crocifisso ligneo policromo collocato all’imbocco di un viale alberato, costeggiato da alti palazzi in cemento.

Giungemmo nella grande piazza, con l’albergo, le fontane dalle forme ardite, e un enorme edificio tutto vetri e colonne, la Casa della Cultura, sovrastato da una scritta, un tempo al neon, oggi piuttosto beffarda: DOM KULTURY ENERGETYK. Ci fecero entrare in molti edifici, alcuni ancora con le finestre chiuse e i vetri intatti. Salimmo le scale ingombre di macerie e oggetti abbandonati e girellammo sfacciatamente negli appartamenti radioattivi. Visitammo e fotografammo tutto: la Piscina con il trampolino olimpico malinconicamente proteso verso il vuoto azzurrognolo della capiente vasca; le palestre con ancora intatto l’intreccio del parquet; l’elegante caffè-ristorante munito di terrazza sul limaccioso fiume, abbellito da una parete-mosaico di vetri colorati, come un caleidoscopio; la severa stazione di polizia, con le celle ancora chiuse e gli armadietti sventrati.

Durante una sosta, l’autista ci raccontò che il 27 sera del 1986, mentre era di turno come taxista, seppe dell’ «incidente» ascoltando alla radio Voice of America. Avvicinandosi al parcheggio vide la polizia che prendeva i taxisti per usarli per il trasporto della gente. Fuggì a casa e spedì la famiglia dalla madre in Crimea. Poi si nascose per parecchie settimane: «I miei colleghi che fecero la spola tra Pripjat’ e la stazione di smistamento sono poi morti tutti». Giungemmo infine all’Ospedale. Dinanzi all’ingresso c’era una poltrona per visite ginecologiche che pareva un malato con scomposti arti artificiali.

Nel labirinto dei corridoi: provette e alambicchi rotti, sparpagliati per terra; letti aggrovigliati, ancora laccati di bianco; fascicoli e schede sfogliati dal vento; ammassi di garze e lenzuola; grandi vasi, davanti alle finestre, con arbusti di piante stecchite. Ora mi era più facile immaginare il Sanatorio all’insegna della clessidra di Bruno Schulz e L’ospedale dei dannati di Stanislaw Lem. Infine ci portarono al grande spiazzo del parco giochi, che in quella primavera era stato allestito per i festeggiamenti del primo maggio. È la zona più radioattiva di Pripjat’, essendo esposto direttamente verso la centrale di Chernobyl, e il giorno del disastro il vento portò qui le prime particelle radioattive, che investirono la foresta che si trovava proprio alle sue spalle: gli alberi morirono tutti in pochissimi giorni. Nel mezzo del parco giochi, tra i relitti delle giostre, troneggiava la grande Ruota panoramica. Per molti anni ho avuto sulla scrivania un carillon di legno con quella forma: di tanto in tanto la facevo girare e con la sua malinconoca musichetta mi ipnotizzava. Le Ruote panoramiche sembrano dei mulini a vento che scandiscono muti, come le ore sul quadrante dell’orologio, le tappe delle tragedie umane. Sono girandole della morte, un po’ lugubri, come la Ruota del Prater di Vienna che fa da sfondo al film Il terzo uomo di Carol Reed, con Orson Wells. Mentre fissavo con questi pensieri la Ruota, vidi la taciturna guida, nel crocchio degli altri «visitatori», lasciarsi andare sull’unica panchina nello spiazzo, accendersi l’ennesima sigaretta, e cominciare a narrare di avere un figlio in Italia, vicino a Milano, ma di non esserci mai stato… Ecco dove lo avevo gia visto!

La guida era lo stesso Vladimir Verbyzkij, reduce dell’Afganistan, ex tecnico di laboratorio alla Centrale, che accompagnò («proprio perché siete Italiani; non faccio più la guida»), il 25 giugno del 2005, il regista Davide Ferrario e lo scrittore Marco Belpoliti durante la lavorazione del bellissimo documentario La strada di Levi. Nel suo suggestivo «diario di viaggio», Belpoliti lo racconta così: «Si siede su una panchina, vicino alla grande Ruota dei bambini, e comincia a raccontare.

Quando è accaduto tutto lui aveva 25 anni, era sposato e aveva un figlio, di un anno e un mese. Hanno misurato la radioattività di tutti gli abitanti ed è risultato che il bambino aveva un livello cinque volte superiore a una persona adulta. Per questo dopo qualche tempo l’hanno mandato in Italia, in un paese vicino a Milano. Lì è stato anche battezzato; è diventato cattolico. Il matrimonio di Vladimir non ha retto, ha divorziato. Il figlio ora è grande, vive altrove, si è salvato anche grazie a quella convalescenza. Lui non è mai stato in Italia e ci vorrebbe andare». Evidentemente la crisi economica lo aveva riportato a fare quel lavoro rischioso. Ma lui lo interpretava come un consumato attore, senza sorrisi e con ferma gentilezza, ripetendo macchinalmente un copione che è anche la sua vita.

Nel libro che accompagna il DVD del documentario, il critico Andrea Cortellessa, sostiene che una scena come questa non potrebbe esser stata scritta nemmeno dal migliore sceneggiatore. Tra l’ottobre del 2004 e l’estate del 2005, Ferrario e Belpoliti hanno ripercorso il viaggio che Primo Levi fece, nel gennaio del 1945, per tornare dal campo di sterminio di Auschwitz a Torino, e che descrisse poi nel libro La tregua. Nella sua odissea, Levi raccontò l’Europa Centrale e Orientale sconvolte dalla guerra, mostrando popoli schiacciati da un’immane tragedia e allo stesso tempo speranzosi di una nuova esistenza. I due autori mostrano oggi gli stessi luoghi con le macerie dell’impero sovietico, la miseria e le contraddizioni di quel mondo, dopo la caduta del Muro. Assai più difficile è raccontare le devastazioni dell’Ucraina, degli anni Trenta.

Levi non potette notarle: se vide distruzione pensò ovviamente che fosse stata la recente guerra. Quando Levi scrisse della catastrofe di Chernobyl, non mancò però di dire: «La storia sovietica è costellata di incredibili censure, di smentite impossibili, di silenzi assurdi. Ne sono esempi celebri il ritardo con cui la popolazione seppe dell’invazione nazista, e la censura sui Lager e sullo sterminio di kulaki». E fece bene a sostenere, con la sua autorevolezza, che un incidente nucleare non è un affare interno a un paese, perché la radioattività dilaga come la peste, e che osava sperare che, dopo quella tragedia, ci sarebbe stata una svolta nelle scelte energetiche.

La vegetazione si è ripresa il controllo del luogo: le piante penetrano ovunque dalle finestre e, cresciute a dismisura, coprono la vista di molti edifici, che quindi compaiono di fronte all’improvviso, come fantasmi. Tra l’erba, fanno capolino grasse piante dalle foglie rugose, cespugli di fragili sterpi grigi e strani, delicati, fiori rossi con la corolla a mongolfiera, che da lontano sembrano capocchie di fiammiferi. Questo strano desolato inferno è diventato una specie di paradiso per gli animali. Molti esseri viventi non umani hanno occupato abitazioni e strutture abbandonate. Gli animali, passatisi evidentemente la voce che nella Zona nessuno li disturba, sono giunti là dalla limitrofa, e altamente contaminata, Bielorussia.

Non è raro incontrare un lupo, un orso o una volpe che attraversano la strada. Ma nessuno può sapere a quali mutazioni genetiche essi potrebbero andare incontro in futuro. Soprattutto i cervi e cinghiali sembrano aver trovato il loro habitat adatto tanto che ora sono talmente in sovrannumero che debbono essere abbattutti (anche perché non si sa bene quali siano le loro reali condizioni di salute). Guardie forestali, bracconieri, ma anche potenti dignitari di Kiev, si recano tra le boscaglie radioattive in battute di caccia che si concludono con allegri banchetti di carne alla brace. Anche gli animali domestici, che furono abbandonati da coloro che scappavano, e che riuscirono a non farsi sterminare nelle prime campagne di bonifica ambientale, si sono riprodotti, apparentemente senza evidenti mutazioni genetiche: gatti tozzi e di zampa corta e cagnetti sporchi si muovono diffidenti tra le case abbandonate in cerca di qualcosa da mangiare.

All’uscita da quel luogo gettai un’occhiata al cartello che indicava il pericolo di radioattività: una sorta di elica gialla, che sembrava quasi una ruota panoramica stilizzata. Poi tutto divenne surreale. Prima, passammo, a una ventina di chilometri dalla Centrale, nella frazione di Rossokha, accanto a una sorta di discarica, recintata dal filo spinato, dove giacciono arrugginiti e contorti veicoli militari, elicotteri, aerei, ruspe, gru. Stanno in un’enorme discarica a cielo aperto dei materiali usati per bloccare l’avaria della Centrale e decontaminare i terreni circostanti. Accantonati poi a causa dell’elevato quantitativo di radiazioni assorbite, formano tuttora una delle zone più contaminate di Pripjat’.

Tornammo all’imbrunire nel Centro di accoglienza di Chernobyl, al quale fanno capo vari edifici e laboratori lì intorno, che studiano in corpore vili gli effetti delle radiazioni:
«La mia idea personale è che noi tutti siamo il materiale sul quale vengono condotti esperimenti scientifici. Un laboratorio internazionale. Vengono qui da ogni dove. Si registrano i dati, si sperimenta. (…) Un gigantesco laboratorio del diavolo» (Nikolaj Prohorovic Žarkov, insegnante di applicazioni tecniche).

Ci fecero salire su una sorta di traballanti bilance celesti che dovevano servire a misurare la nostra radioattività.
Poi ci ordinarono, come si fa con i bambini, di andare ai bagni con la raccomandazione di lavarci bene le mani con un unico striminzito sapone giallognolo. All’uscita, inaspettatamente, ci chiesero dei soldi per la cena e ci fecero accomodare in un saloncino appartato che sembrava uno chalet di montagna. La fame contribuì ad abbattere ogni residuo scrupolo. Ci vennero serviti da una baldanzosa cameriera in ciabatte: antipasti di salumi e affettati; cannelloni con dentro würstel; insalata di mele, porri, piselli, patate e maionese; zuppa di barbabietole rosse bollente; insalatina di carote e cavolo tagliati a julienne; uova sode e amare; stufato di pollo, fagioli e purè di patate; pandolce; brioche; mele rosse; composta di frutti di bosco.

Niente alcolici. Mentre mi ingozzavo di tutto quel velenoso ben di Dio, la mia commensale di sinistra (la bionda psicologa bielorussa), addentando una mela e tracciando con l’indice sul tavolo cerchi e linee per me incomprensibili, mi disse, senza esser stata interpellata: «Sai, Jung sostenne che il Mandala, osservato dal punto di vista psicologico, è un’immagine di Dio che sta alla base della psiche umana: è allo stesso tempo il centro e la totalitá della nostra psiche e sembra abbracciare l’unità dell’Universo. Disegnando, durante un periodo della sua vita, tutti i giorni un mandala, e osservando più tardi i suoi pazienti, Jung scoprì che le sue varie forme (stelle, cerchi, quadrati, ecc.) esprimevano differenti stadi dell’equilibrio interiore dell’individuo. Si hanno Mandala imperfetti quando tale equilibrio interiore è disturbato. In seguito però Jung giudicò che il Mandala non rispecchia solamente uno stato di ordine interiore, ma la sua armonia o la sua mancanza di armonia coinvolgono anche l’ambiente che circonda l’individuo. Avviene così che il Mandala abbia bisogno di un simbolo nel quale il mondo esteriore e quello interiore si fondono. C’è, secondo Jung, una realtà ultima oltre la materia e la psiche, che egli chiama ‘unus mundus’. La sua manifestazione empirica è il principio della sincronicità.

Negli eventi sincronici il mondo interiore si comporta come se fosse posto all’esterno ed il mondo esteriore come se si trovasse all’interno. Visto che il simbolismo del Mandala rappresenta l’ordine olistico di materia e psiche, il Mandala avrebbe dovuto essere studiato sia dai fisici sia dagli psicologi poiché esso riappare nei loro modelli empirici del mondo atomico. Il modello atomico di Niels Bohr è già un Mandala cosmico e i modelli che i fisici costruiscono oggigiorno per visualizzare i quark sono Mandala».

L’altro fisico di Pietroburgo, che ci sedeva di fronte e aveva ascoltato tutto, ci fece marameo col pollice della mano destra appoggiato sul grosso naso. La comitiva si alzò pigramente da tavola e risalì in silenzio sul pulmino. Al posto di blocco in uscita dalla Zona, ci fecero entrare in un salone freddissimo e avvinghiarci a delle grandi macchine, simili a quelle che si vedono nelle moderne palestre: le mani infilate in due speciali tasche, i piedi in una scanalatura gialla e la faccia rivolta verso uno schermo verde.

Dopo qualche secondo si accessero delle lampadine gialle e bianche. La Decontaminazione era terminata.

***
È uscito per Sellerio Chernobyl, di Francesco M. Cataluccio, “in parte reportage di viaggio in quel che rimane, in parte archeologia di situazioni umane da cui far riemergere lo spirito sepolto di luoghi abbandonati”.
Francesco M. Cataluccio (1955) ha studiato Filosofia e Letteratura a Firenze e a Varsavia. Ha diretto le case editrici Bruno Mondadori e Bollati Boringhieri ed è autore di numerosi saggi sulla cultura e la storia della Polonia e del Centro Europa. Oltre a
Chernobyl ha scritto Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi), e Vado a vedere se di là è meglio ed è curatore delle opere di Witold Gombrowicz (Feltrinelli) e Bruno Schulz (Einaudi).