“Volgarmente detti farfalle”

Appunti di un lepidotterologo, su Doppiozero

Appunti di un lepidotterologo su Doppiozero, la rivista online diretta da Marco Belpoliti e Stefano Chiodi.

Molti decenni sono trascorsi dal momento in cui presi coscienza che le farfalle, questi delicati insetti – simbolo estremo di ogni metamorfosi – che nella loro esistenza si trasformano incredibilmente da “vermi” a stupendi arcobaleni volanti, erano davvero la raison d’être delle mie lunghe giornate all’aperto in quelle memorabili e interminabili estati dell’infanzia.

In effetti, al contrario delle rare giornate in cui oggi mi immergo nella natura – che si concludono velocemente (e con gran pena) in poche ore – chissà perché quei giorni gai d’infanzia non finivano mai. Parevano non finire mai neppure le estati, almeno nella loro prima parte (l’ultimo mese viaggiava alla velocità della luce): la mia percezione del tempo allora era quasi certamente alterata dall’entusiasmo giovanile, segno che, in fondo, il tempo non esiste se non nella nostra immaginazione ed interpretazione di ciò che avviene intorno a noi.

Ebbene, a quei tempi vivevo a Vallemosso, nel Biellese, paese tessile incassato in una stretta valle, ferito gravemente dall’alluvione del Novembre 1968. Qui, con Piscopo, l’amico d’infanzia dal bizzarro nome, entomofilo come me, mossi i primi passi verso la conoscenza approfondita dei lepidotteri, volgarmente detti farfalle. Mi attraevano più di ogni altro essere vivente, molto di più delle compagne di scuola, va sottolineato, grazie ad una situazione ormonale che è tipica delle età più spensierate e che precede le tempeste degli anni a venire. Già si era intravista questa curiosa passione per le farfalle due o tre anni prima, all’età forse di 4 o 5 anni, durante le avventurose passeggiate con mio nonno Battista lungo la via allora sterrata che conduceva da Miagliano verso la frazioncina di Lorazzo. La sabbia e il pietrame caldo per il sole estivo erano una perfetta pista di atterraggio per le vanesse che popolavano la zona. Ricordo vividamente l’ampia curva che stava appena prima del ponte sopra il quale scorrevano le rotaie del vecchio trenino proveniente da Biella. Qui, uno slargo di sterrato anticipava una ripa cespugliosa e boscosa diretta verso i binari.

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