La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio – Episodio 13

Tredicesimo episodio del libro di Enrico Brizzi: gli autostoppisti, la signora che non va mai in albergo e il fascino degli archivi Rai

A pochi giorni dalla partenza per la nuova passeggiata lungo la Linea Gotica, Marcello e io fummo convocati a Roma. Qualcuno, in televisione, voleva vederci chiaro: cos’era, questa mania di camminare?
Il nostro ufficio stampa riuscì a condensare per noi tre appuntamenti in meno di ventiquattr’ore: la sera il mio socio e io saremmo intervenuti insieme a una trasmissione di RaiSat, da registrarsi a Saxa Rubra con termine fissato a pochi minuti prima della mezzanotte; a quel punto, mi avrebbero scortato per corridoi sino allo studio di Linea Notte, forse l’unico programma che ancora seguissi con regolarità: un’ora con Maurizio Mannoni, Roberta Serdoz e i loro ospiti, quindi una vettura dell’Azienda ci avrebbe ricondotti in albergo. L’indomani, ci attendeva l’inedito appuntamento con Fabrizio Frizzi, la risata più tellurica della televisione italiana, e il suo contenitore mattutino Cominciamo bene.
«Con un nome così, non si poteva rifiutare» osservai con Marcello.
«A quell’ora, ci guarderanno solo le mie zie» pronosticò. «Comunque andrà tutto bene: Fabrizio Frizzi non tifa Bologna?»
Dovevo averlo letto anch’io da qualche parte. «Andrà tutto bene sì» confermai. «E poi nulla più si frapporrà tra noi e i nostri zaini.»
Durante le due ore e quaranta minuti di viaggio in Eurostar, non vedemmo niente di quell’Appennino che avremmo presto solcato a piedi.

Un taxi ci condusse all’albergo, un posto tranquillo dalle parti di piazza Sempione.
Doveva essere un luogo abituale per gli ospiti dell’Azienda, ché subito dopo di noi entrò Bruno Gambarotta.
«Signorgambarotta, chepiacere!» lo salutò l’uomo alla reception. «Èsemprebellorivederla!»
A noi non aveva detto «beo», e proseguì a ignorarci per domandare: «Fattobuonviaggio, signorgambarotta?»
«Ottimo, grazie» rispose il canuto e brevilineo Bruno. «Se è ancora a disposizione, mi potrebbe dare la camera dell’altra volta?»
Sembrava un uomo di una cortesia rara. Poiché nessuno ci aveva presentati, però, ci guardò come fossimo due cacciatori d’autografi troppo timidi. «’Sera» ci salutò in ogni caso.
«Buonasera» salutammo in coro, e poi vedemmo l’uomo alla reception aprirsi in un sorriso.
«C’è!» annunciò. «Era proprio destino!» e consegnò all’autore de Il codice gianduiotto la chiave magnetica della solita stanza.
«Ubi maior» commentò con filosofia Marcello.
«E voi?» indagò il maestro di chiavi mentre Gambarotta si allontanava.
«Siamo ospiti anche noi» feci presente. «Brizzi e Fini. Ci dovrebbero essere due stanze prenotate.»
Quello controllò il foglio della prenotazione che riportava i nostri cognomi.
«È lei, Fini?» indagò spostando l’indice dall’uno all’altro.
«Io, io» si qualificò Marcello.
«Ma che è, parente de…» si fece piccino il maestro di chiavi. «Dell’onorevole, dico?»
Poco mancava che s’inchinasse.
«No» confessò Marcello, a mio avviso sbagliando. «Semplice omonimia.»

L’appuntamento con l’auto aziendale era fissato per l’ora del tramonto: cosa avremmo fatto a Saxa Rubra sino alle undici, era un mistero.
«Senti, Marcello, disdiciamola e prendiamo un taxi a un’ora più civile: che ci stiamo a fare, laggiù, per due ore?»
Il mio socio, però, era uno stoico e non aveva mai visto il Centro di produzione Rai dall’interno: ci lasciammo trasportare verso nord mentre il crepuscolo avvolgeva la Città Eterna.
All’ingresso, Marcello chiarì nuovamente di non essere parente dell’onorevole, e nemmeno del giornalista Massimo Fini; ciononostante, venimmo ammessi all’interno del recinto e avviati alla giusta palazzina.
«Che buio!» osservò il mio amico. «M’immaginavo un gran traffico, e invece qui è un deserto.»
«A quest’ora» sospirai. «Cosa ti avevo detto?»
«Be’, mancano quaranta minuti alla convocazione» osser­vò dopo avere controllato l’orologio. «Fumiamoci una siga­retta.»
Fermi nel buio davanti all’ingresso della palazzina, sentivamo fatalmente di avere un che di sospetto; nel caso una guardia ci domandasse qualcosa, però, avevamo i nostri badge da mostrare. Così ci rilassammo, e fumammo le nostre sigarette come fossimo davanti all’università, o sotto l’ufficio.
Solo il profumo vegetale della campagna e il canto degli uccelli notturni sembravano dirti che c’era qualcosa di ancora vivo, nella notte tiepida e dolce che avvolgeva le cubature mute di Saxa Rubra.
La porta della palazzina si aprì all’improvviso: ci venne incontro una ragazza, e domandò se noi eravamo proprio noi, e dove ci eravamo cacciati. Era l’assistente di produzione incaricata di reperirci, e l’avevamo fatta stare in pensiero. «Ora che vi ho visto, però, sto molto meglio» ci assicurò. «Fumate pure con calma. Quando volete entrare, ci trovate al piano tale, in fondo al corridoio lungo, e poi tutto a sinistra.» O qualcosa del genere.


Si allontanò con un sorriso, e Marcello disse che la trovava ansiosa ma simpatica.
Restò  a bocca aperta, quando entrammo nella palazzina e vide il corridoio presidiato sulla destra da una teoria senza fine d’armadi in alluminio beige, ciascuno chiuso con catena e lucchetto, che contengono le registrazioni dei programmi trasmessi anno dopo anno. «Guarda che roba!» esclamò. «C’è tutta la storia d’Italia, qui!»
È sempre stato un ragazzo preciso e di mestiere fa il bibliotecario: la catalogazione è un’arte che conosce a menadito, e le collezioni non lo lasciano mai indifferente, ma non serviva essere degli specialisti per restare impressionati di fronte alla quantità di registrazioni accumulate dietro quelle ante metalliche.
«Scommetto che a Mediaset la tengono meglio, la roba» sussurrò a metà del corridoio. Poi prese a spiegarmi nel dettaglio come funzionava il servizio Teche Rai, che ci avrebbe fatto comodo per la nostra documentazione.
«Posso aiutarvi?» domandò una voce femminile proveniente dalla nostra sinistra.
Ci arrestammo, guardammo da quella parte, e vedemmo che la sequenza di porte chiuse su quel lato conosceva un varco: la voce ci parlava dal buio, rischiarato solo da due braci di sigaretta, della piattaforma d’una scala antincendio.
Spiegammo dove eravamo diretti. Una delle braci si abbassò con un sospiro, la voce di prima si fece più morbida: «Siete al piano sbagliato, regà». Ci spiegò daccapo la strada, e noi ringraziammo per tornare sui nostri passi, senza poter vedere chi ci aveva parlato, né chi era insieme a lei.
Per un po’ vagammo nel labirinto, rimbalzati da informazioni in apparenza contraddittorie, sentendoci come Asterix e Obelix nella Casa che rende folli.
Alla fine, però, approdammo alla nostra meta: eravamo ancora in anticipo, così accettammo volentieri l’ospitalità di alcune redattrici. Mentre lavoravano fra telefoni e computer, ci sistemammo in un angolo a discutere del nostro viaggio imminente. Quando emerse la possibilità di ordinare una pizza, erano le dieci e mezza passate: non avevamo mangiato niente dall’ora di pranzo, così ci unimmo senza indugio alla più informale delle cene di lavoro.
Quando le pizze arrivarono, divorai la mia a quattro palmenti.
«Fame, eh?» notò una delle ragazze.
Spiegai che Maurizio Mannoni era uno dei pochi volti rassicuranti della televisione italiana, e non ci tenevo a svenire in diretta di fronte a lui.
Quella domandò comprensiva: «Hai problemi di pressione?».
«È un modo di dire» la tranquillizzai. «Avevo solo una gran fame.»
«Ah be’» fece lei. «Perché ogni tanto capita.»
«Cosa?» indagò Marcello.
«Che qualche ospite abbia un mancamento» fece lei. «A volte l’emozione gioca brutti scherzi, ma di solito basta un bicchiere di acqua e zucchero.»
Controllai Marcello: non sembrava pallido.
«Sai com’è» minimizzai. «Ne capitano tante.»
Con RaiSat ce la cavammo in un quarto d’ora: quando finì l’intervista, ci eravamo appena scaldati.
L’assistente di prima, risbucata dai meandri del Centro di produzione, ci scortò sicura come Arianna verso la nostra nuova meta.
Da Mannoni, prima della diretta, si respirava un’aria distesa e cordiale; il conduttore scherzò con me e l’ospite abituale Bruno Trefiletti, rappresentante dei consumatori, che occupava la seduta alla mia sinistra; mentre ci aggiustavano i microfoni comparve anche Roberta Serdoz, più bella che in video: non capii se indossava un paio di scarpe nuove o se le avevano abbassato il touchscreen orizzontale, ché per lanciare le notizie sfiorandolo con le dita doveva chinarsi. L’inconveniente, tuttavia, sembrava divertirla più che dispiacerle.
Quando la luce rossa della diretta si accende, tutto torna al presente.
A trentacinque anni, è un presente da vivere in seconda persona: non senti più sommovimenti alle viscere o gambe molli: ascolti e dici la tua come se le telecamere non ci fossero, senza levare la parola agli altri e sforzandoti solo di non perdere il filo del discorso, come faresti in qualsiasi ufficio d’altri, oppure a un pranzo di lavoro.
Maurizio Mannoni non sostiene a vanvera che parenti e amici ti chiamano «Jack Frusciante»: si comporta come un ospite gentile e puntuale, e questa assenza di cinismo basta a farti sentire a casa sino alla fine della trasmissione.
«Ci lasci all’Angolo russo, se è aperto» spieghi all’autista che vi riconduce verso piazza Sempione. «Di fianco all’Horus, poi in albergo ci andiamo a piedi in cinque minuti.»
«Potrebbe essere aperto» non si sbilancia lui.
Marcello ti guarda con una certa apprensione: non sa che l’Angolo russo è un semplice bar, e chissà cosa si immagina.
«Birra e cornetto?» gli proponi quando l’auto svolta sulla piazza e vedete le vetrine illuminate.
«Perché no» fa lui, sollevato. «Poi a nanna di corsa, sennò domani gli sbadigliamo in faccia, a Fabrizio Frizzi.»


Sette ore più tardi siamo di nuovo alla Rai, sbarbati e freschi come avessimo risalito il Tevere a nuoto.
Nel backstage di Cominciamo bene, tra un caffè e l’altro, facciamo la conoscenza dei colleghi ospiti che, nel giro di dieci minuti, siederanno con noi nel salotto televisivo di Rai Tre, opportunamente interrogati da Frizzi e dalla sua compagna d’avventura, la giornalista Elsa Di Gati.
Tema della puntata, primaverile come l’aria di Roma quest’oggi, sono le vacanze.
Oltre a Marcello e al sottoscritto, rappresentanti di tutti i picchiatelli che viaggiano a piedi, il ventaglio di nature umane che s’apprestano a entrare in studio è quasi sterminato: v’è una signora che gira l’orbe terracqueo senza mai scendere in albergo, ché sfrutta le abitazioni degli iscritti a un’apposita comunità, e del pari mette a disposizione casa propria per quanti vogliano visitare il Veneto; v’è Bruno Gambarotta, a proprio agio da queste parti come un costumista o un cameraman dell’Azienda, che invece sosterrà il partito di chi in vacanza non ci va proprio; v’è certo qualcun altro che non riesco a individuare, ché la stanza appare all’improvviso gremita di giovani fricchettoni con barbe e capelli alla Woodstock.
«Loro viaggiano solo in autostop» spiega compresa una redattrice che mi è fiorita accanto. «Arrivano dalla Sicilia.»
«Minchia!» esclamo per farli sentire a casa. «Veramente, ragazzi?»
Mi guardano in sette o otto tutti insieme, e solo uno risponde, fuori sincro come Ghezzi, un asciutto «Sì». È il più anziano del gruppo, e i suoi capelli raccolti a coda mostrano qualche filo d’argento. «È un’esperienza che dovrebbero provare tutti» aggiunge, e i soci fanno di sì con la testa come avesse parlato l’oracolo dei Saraceni.
«Ma quanto ci avete messo?» domanda Marcello, la voce increspata d’orrore.
Gli autostoppisti fissano il loro leader, scelto forse per l’irriducibile stoicismo, e quello risponde per tutti: «La gente non sempre si fida. A volte aspettiamo anche otto ore».
«Ot-to?» balbetta palindromo il mio amico, muovendo un passo avanti e uno indietro come un pugile suonato. È lo stesso tempo nel quale solitamente copriamo una tappa delle nostre, senza bisogno di aspettare nessuno che ci carichi, e all’improvviso mi rendo conto che il rock ’n’ roll ha avuto influenze diversissime, talora di segno opposto, sulla mia generazione: ciò che per qualcuno è stato un pungolo, per altri è risuonato come un invito alla resa.
«Ma chi è tutta sta bella ggente?» spunta un tecnico, le mani a coppa colme di scatolotti neri avvolti da fili, come un artificiere o un kamikaze. «Per cortesia, chi nun deve esse microfonato levasse le tende, ché qui pare de sta’ a Porta Portese!»
Nel giro di un attimo restiamo Marcello, io, Gambarotta, la pimpante signora veneta che organizza scambi di case, e un rappresentante degli autostoppisti che si guarda intorno at­territo.
Non è chiaro perché il leader mandi avanti lui anziché esporsi in prima persona: il povero ragazzo trema come Edgar Allan Poe a fine carriera, e mentre viene sottoposto al rito del microfono mi si aggrappa come fossi suo fratello maggiore.
«Non mi piace qui» sibila, e solo allora mi accorgo che i suoi occhi sono infiammati da far paura.
«Perché?» gli domando serafico.
«Non la guardo mai, la televisione…» sembra scusarsi nei confronti del sottoscritto.
«Con me caschi in piedi» tento di rassicurarlo.
«…Però conosco un sacco di gente che la guarda» conclude il suo ragionamento.
«Ce n’è» conferma Marcello.
«Cioè, non è pazzesco che adesso andiamo di là e in Sicilia ci vedono tutti?» tenta di spiegarsi il ragazzo dagli occhi di fuoco.
Non so se abbia bevuto tre grappe o fumato del pessimo pakistano, ma sembra meravigliato di ogni cosa, al punto da risvegliare in me un istinto di protezione.
«Stai tranquillo» gli raccomando. «È come sedersi a cena, solo che non si mangia. Si chiacchiera e basta.»
Il giovane mi guarda con i suoi occhi sbarrati, come vedesse uno scoglio in mezzo alla burrasca, e adesso mi sembra che voglia piangere. «Grazie»  balbetta. Poi l’onda della paranoia lo sommerge da capo: «Cioè, minchia…» sibila. «Io non ci voglio andare, di là.»
Bruno Gambarotta, forte della sua decennale esperienza, lo fissa a metà  fra il divertito e il preoccupato.
«Non sarà meglio servirgli acqua e zucchero?» domanda la signora che non va mai in albergo.
«Ospiti, in studio!» taglia corto una voce. È un omone che ricorda un granatiere, e fa l’appello come a scuola. «Come il signor Gambarotta sa bene, dentro non si fiata. Aspettate in fila finché Frizzi non vi chiama, e allora entrate in video e dite ‘Buongiorno’.»
Quando ha finito, lo seguiamo in fila indiana attraverso una porta che si apre su una parete di cartongesso, e adesso solo i pannelli della scenografia ci separano dal salotto di Cominciamo bene.
Fabrizio Frizzi ed Elsa Di Gati, già in onda sui teleschermi d’Italia da svariati minuti, annunciano che nel prossimo blocco si parlerà di vacanze con alcuni ospiti molto particolari.
Fiorisce un applauso, parte forse uno stacchetto musicale, Frizzi parla di nuovo, ma io sono distratto dalle farneticazioni a mezza voce dell’autostoppista dagli occhi di fuoco.
«…Madonna, che ci faccio io qui?» borbotta come una litania.
Il granatiere gli si fa sotto raccomandando il rispetto del silenzio: «Semo in diretta!» sillaba a fior di labbra, indicando il sottile pannello che ci separa dalle case degli italiani.
«Ciafà o nunciafà?» domanda con voce appena percettibile un piccoletto della Rai sbucato da chissà dove.
«Pemmè unciafà!» sussurra il granatiere, e poi Fabrizio Frizzi comincia a chiamarci in studio.
«…È qui con noi Bruno Gambarotta!»
«Dentro, signore!» lo esorta il granatiere, e il canuto torinese scivola oltre la bocca del proscenio accolto da un applauso degno di un padre della patria.
Nel giro di pochi secondi anche Marcello ed io siamo introdotti al pubblico e fatti accomodare su due poltroncine sullo stesso lato dell’autostoppista, mentre Gambarotta e la signora che detesta gli alberghi siedono di fronte a noi.
Frizzi e la sua compagna d’avventura ci rivolgono una domanda a testa; quando è il mio turno noto nel monitor che le mie sembianze sono accompagnate da un sottopancia sbagliato: secondo Cominciamo bene mi chiamerei non ricordo se Maurizio Brizzi, o Enea Frizzi, in ogni caso la professione di scrittore è indicata correttamente, quindi proseguo senza indugi a spiegare che un viaggio a piedi è uno spostamento nello spazio ma anche nel tempo; aggiungo poi che l’uomo che arriva è sempre diverso da quello che è partito.
«Giustissimo. Ma c’è anche chi le vacanze le fa in autostop… Qualcuno lo giudicherà pericoloso, ma per i giovani con pochi soldi in tasca è un modo per vedere il mondo. Non è vero?»
L’attenzione di tutti si punta sull’autostoppista. Sotto il suo viso spaurito e i suoi occhi di fuoco appare in monitor un sottopancia, che l’esperienza mi fa giudicare inattendibile. Lui, però, non parla. «È vero» balbetta dopo un tempo che mi appare non finire mai. Quindi abbassa lo sguardo, pago della risposta fornita.
Devo sforzarmi di non ridere, come a scuola, mentre Frizzi recupera in corner e passa la parola alla signora degli scambi di case.
Un altro giro di domande fornisce a Gambarotta l’occasione per parlare del suo ultimo libro Galline in fuga; Marcello spiega cosa significa rispettare una tabella di marcia e io mi faccio bello con le piume del pavone, ricordando che quando aprile, con le sue dolci piogge, ha penetrato fino alla radice la siccità di marzo, impregnando ogni vena della terra di quell’umore che ha la virtù di dare la vita ai fiori, la gente allora è presa dal desiderio di mettersi in pellegrinaggio.
«Parole bellissime! Ma cosa ne pensa chi passa lunghe ore fermo in una piazzola di sosta?»
«Io…» risponde l’autostoppista dagli occhi di fuoco. «Io penso che…» Reclina nuovamente il capo, si fa forza, guarda Fabrizio Frizzi e guarda Elsa Di Gati con la tristezza del deportato.
«Tranquillo» fa la conduttrice, poi riempie il monitor con un sorriso quasi materno. «Il nostro ospite è un po’ agitato. Vuole un bicchiere d’acqua?»
«Magari» fa quello, poi lo vedo sollevarsi lentamente dalla poltroncina, il filo del microfono che sbuca dal bordo della maglietta e finisce in tasca. «…Posso?» domanda, e inquadro una signora del pubblico che lo fissa con gli occhi sbarrati e la bocca a forma di cerchio: quel ragazzo sta abbandonando la postazione, violando ogni regola d’ingaggio delle dirette televisive!
«Posso?» balbetta nuovamente l’autostoppista. Ormai è in piedi, e muove un passo malcerto via da Fabrizio Frizzi.
«Acqua e zucchero!» comanda qualcuno, ma ormai è troppo tardi: il ragazzo si guarda intorno, cerca a occhiate disperate la via della salvezza e supplica: «…Posso uscire dalla trasmissione?».

Rientrammo a Bologna rinfrancati: esisteva ancora, il bello della diretta.
Nel corso dei primi tre giorni del viaggio lungo la Linea Gotica coprimmo un centinaio di chilometri, che ci portarono dalla spiaggia di Rimini ai boschi del Monte Fumaiolo: lassù i giornali non si trovavano, e la televisione non c’era.
Per qualche tempo, lasciammo a valle l’attualità e respirammo l’aria fresca dei sentieri partigiani.