La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio – Episodio 12

Enrico Brizzi, altro salto, dodicesimo episodio: terremoti nazionali, presidenti abbronzati e Noemi Letizia

L’arrivo del 2009 fu salutato, durante i veglioni televisivi, come lo scacciacrisi definitivo: il Silvio era tornato a sorridere, e il tempo delle vacche magre doveva considerarsi finito per sempre.
La sera del 3 gennaio, invece, i telegiornali ci restituirono le immagini agghiaccianti delle truppe israeliane che entravano in armi nella striscia di Gaza.
Erano gli stessi ventenni in divisa color oliva che, l’estate precedente, ci offrivano acqua fresca e buoni consigli mentre marciavamo verso Gerusalemme?
Il nome dell’operazione, «Piombo fuso», era l’efficace sintesi della tempesta di ordigni che aveva colpito dal cielo la striscia di Gaza, ma non era ancora finita: tank e mitragliatrici spararono per dodici giorni, ci furono centinaia di vittime fra i miliziani di Hamas, e certo non meno fra i civili, compresi quelli riparati in una scuola dell’Onu teoricamente adibita a rifugio.
Per chi aveva visto la Terrasanta da pellegrino, imparando a liberarsi di tanti pregiudizi mutuati dalla tivù, fu uno strazio vero e la certificazione che la pace era ancora lontanissima.
In mancanza di dati certi, si leggeva sul web che le cifre oscillavano fra le seicento vittime valutate dall’Idf – le Forze armate israeliane – e le oltre milletrecento lamentate dai media arabi, che ridefinirono l’operazione «il massacro di Gaza».
Solo i colloqui di pace urgentemente richiesti dalla comunità internazionale, che si tennero a Sharm el-Sheikh il 18 gennaio, scongiurarono il proseguire dell’operazione, che d’altronde il governo israeliano considerava conclusa.
Due giorni dopo, a Washington, Barack Obama pronunciò il suo giuramento come quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti: era il primo uomo di colore a raggiungere la carica, e il suo avvento fu salutato come una nuova età dell’Acquario, turbata solo da paranoie d’attentati e da una definizione irriverente coniata dal nostro presidente del Consiglio.

Il Silvio, va detto, era un uomo di mondo: quando veniva ammesso alla Casa Bianca da un Bush sempre più smarrito, giurava eterna, eternissima, fedeltà alla Nato. Lui i rossi li odiava più di tutti, che fosse chiaro a George W. e all’intero Republican party!
Quando invece viaggiava verso Est, rinunciava alla pregiudiziale anticomunista per frequentare l’ex ufficiale del Kgb Vladimir Putin. Non era solo il numero uno di un paese che poteva rivelarsi un buon mercato per il Made in Italy, oh no: Vladimir era proprio un suo buon amico. Uno di quelli che s’invitano in vacanza nella propria villa, se la villa è in Costa Smeralda, un po’ perché fa sempre piacere circondarsi di bella gente, e un po’ perché farà chic indicare alle amiche i giacigli che hanno accolto quei Grandi.
Adesso, però, c’era da sistemare la diplomazia atlantica: come gratificare quel Barack senza sembrare provinciali?
Il Silvio ci pensò bene: da quando aveva salutato l’elezione di Obama con un moto di spiritosaggine passato alla storia, gli americani si erano fatti maliziosi nei suoi confronti.
Ma, a ben vedere, cosa aveva poi detto?
Riavvolgiamo il nastro sino al 6 novembre: Obama era stato appena designato vincitore delle presidenziali, e il mondo intero era a bocca aperta per il primo afro-americano alla Casa Bianca.
Il Silvio, anche in quell’occasione a Mosca, aveva sbigottito gli inviati e fatto impazzire le agenzie di stampa. Non meno disorientati di altri colleghi, scrissero su «Bloomberg.com» Steve Scherer e Lyubov Pronina: «Italian Prime Minister Silvio Berlusconi today praised Barack Obama, saying the U.S. president-elect is ‘young, handsome and also tanned’. Berlusconi, speaking in Italian during a press conference with Russian President Dmitry Medvedev in Moscow, said he was sure he would get along well with Obama because he is ‘giovane, bello, e abbronzato’».
Grandi risate nella Russia di Putin e Medvedev, sconcerto in Italia, gelo diplomatico dal Nuovo Mondo, nonostante la puntuale smentita del Silvio, che aveva spento l’incendio a modo suo: «If some people don’t have a sense of humor, then it’s their problem», si era sentito in dovere di chiarire, per concludere trionfante: «God save us from the imbeciles».
Proseguivano Scherer e Pronina: «Berlusconi, President George W. Bush’s most loyal ally in Europe, has a reputation for making controversial comments»: ormai gli avevano preso tutti le misure, e continuava a stupire solo noi italiani.
Pensa che ti ripensa, al Silvio venne un’idea: perché non recarsi in visita alla Casa Bianca, e ringraziare Obama per tutto quello che l’America aveva fatto per il nostro paese?
Sembrava un’idea adattissima: chi non si autoinviterebbe a casa di un nero che ha appena definito «abbronzato»?
Per qualche motivo, benché l’Italia stesse organizzando un suggestivo G8 sull’isola della Maddalena, a Washington non si trovò un buco in agenda da lì a molti mesi.


Nella primavera del 2009 ero al lavoro su un nuovo romanzo e, al pari dell’anno precedente, mi apprestavo a una camminata con i moderni viandanti di Francigena XXI.
Insieme a Marcello Fini, Francesco Monti e gli altri amici che si sarebbero alternati al nostro fianco, avrei ripercorso la cosiddetta Linea Gotica fra Rimini e Marina di Massa, così questa volta si sentivano tutti più tranquilli: i nostri cari giudicavano una traversata appenninica relativamente sicura, almeno al confronto d’una marcia a ridosso del muro di demarcazione fra Israele e i territori dell’Autorità nazionale palestinese.
Quanto ad Alessandro Dalai, non aspettava il nuovo romanzo prima di settembre: sembrava la situazione ideale per staccare una ventina di giorni, mettendo un passo dietro l’altro tra boschi profumati e salite baciate dal vento.
Quando arrivò la notizia che l’Abruzzo era stato colpito da un terremoto, ci domandammo per prima cosa se erano stati toccati il Fucino, la Valle Rosa e il cuore del Parco nazionale, i luoghi che avevamo traversato nella primavera precedente: pareva di no, ma in compenso il sisma aveva colpito in maniera devastante il centro storico dell’Aquila e alcune delle sue numerose frazioni.
Le immagini televisive ci restituirono un’idea della forza con cui il disastro aveva squassato le opere dell’uomo; riemersero nel ricordo le immagini del terremoto del ’97 che aveva colpito Umbria e Marche. Poi ripensai alle brumose montagne d’Irpinia, che avevamo traversato diretti alla Città santa, e ai disagi che ancora lamentavano gli abitanti per il terremoto del 1981.
Non erano apache in una riserva, ma famiglie italiane che lavoravano e mandavano i figli a scuola; solo, per qualche accidente, alcuni di loro non avevano più trovato una casa.
Mi domandai quale Steinbeck nostrano avrebbe raccontato l’epica vicenda dei terremotati, colpiti prima dalla natura e poi dalla rapacità dei soccorritori, per essere alfine dimenticati col loro furore, almeno dalla televisione.
E poi, nel giro di un paio di telefonate, mi resi conto che anche Marcello e Francesco avevano avuto pensieri simili ai miei; eravamo cresciuti con un pantheon di miti comuni, e gli «Angeli del fango» di Firenze ne facevano parte a pieno titolo, così decidemmo di imitarli. Sapevamo cosa mettere nello zaino, spalare detriti non c’intimoriva, e dormire in tenda nemmeno. Contattammo qualche vecchio amico degli scout: si stava giusto formando un gruppo di volontari decisi a raggiungere l’Abruzzo. Avremmo potuto noleggiare un pullman, per evitare di intasare le strade con le nostre auto. Per qualche minuto apparve certo che saremmo partiti l’indomani, non appena trovato il mezzo e stabilito un collegamento con le autorità preposte ai soccorsi.
«Bertolaso non ci vuole, leggi su internet»: l’sms di Francesco mi raggiunse quando ormai stavo facendo la cernita del materiale. Controllai: il numero uno della Protezione civile si raccomandava che «volontari improvvisati» evitassero in ogni modo di convergere verso l’Abruzzo, pena il peggioramento della situazione.
Non ci feci caso. Eravamo stati scout, noi, e dal momento che nessuno aveva sciolto la nostra promessa, lo eravamo ancora. Che c’entravamo, coi volontari improvvisati?
Andai a letto convinto che l’indomani avremmo compiuto una buona azione, ma quando mi svegliai fu chiaro che non saremmo partiti: né noi, né gli altri gruppi di volontari delle regioni vicine eravamo ammessi, ché servivano tecnici e manodopera qualificata, forze dell’ordine e genieri dell’esercito, non l’equivalente di un esercito di braccianti.
Ce ne rammaricammo un po’ tutti: agli «Angeli del fango» nessuno aveva chiesto il tesserino della Protezione civile.
Non ci restò che seguire l’evolversi degli eventi in televisione, dalle interviste ai profughi attendati alla dichiarazione clamorosa del Silvio che il G8 non si sarebbe più tenuto alla Maddalena, bensì all’Aquila, in segno di solidarietà con le popolazioni colpite dal sisma.
Chi obiettò che alla Maddalena erano ormai in corso lavori da molti milioni di euro, fu messo a tacere: era forse un cinico egoista, che voleva negare ai poveri abruzzesi il giusto riscatto?
Avrebbe sistemato tutto lui, in pochi mesi e facendo ricorso allo straordinario patrimonio umano e professionale della Protezione civile.

Quel che non si comprese appieno, nel generale afflato di solidarietà, era perché il filantropo dottor Guido, sedicente «medico dei dannati», godesse di poteri sempre più straordinari, e non solo in occasione di terremoti e tsunami: poiché si ricorreva alla definizione di «emergenza» anche per l’organizzazione dei mondiali di nuoto, sulle scrivanie della Protezione civile si decidevano lavori pubblici con un sistema la cui trasparenza era a forte rischio di condizionamenti politici e personali.
Con quali risultati, lo stabilirà la giustizia: le intercettazioni diffuse nel febbraio 2010 restituiscono un domino di corruttele, favoritismi e bieco cinismo che ha poco da invidiare, come vedremo tra poche pagine, a quello della Prima Repubblica.
Al momento, però, Bertolaso non aveva niente da farsi perdonare.
Era Obama, quello che si divertiva a tenere il Silvio sulle spine; era lui, il cattivone abbronzato che faceva tardare l’invito alla Casa Bianca, quello da biasimare; quando arrivò un’offerta di aiuto dall’America per la ricostruzione, sui giornali uscì la notizia che il Silvio aveva declinato: il nostro paese non aveva bisogno di aiuti finanziari, e qualche commentatore fazioso si spingeva a definire l’offerta del cattivo Obama «una miseria». Gliele aveva cantate, il Silvio, ah sì: gli aveva suggerito di adottare una chiesa, o un monumento, e che se ne stesse lontano dall’Abruzzo come tutti i volontari improvvisati. Ci pensavano lui e Guido, a sistemare le cose: avrebbe visto al G8, quell’antipatico del Barack, di quale spartana meraviglia è capace l’ingegno italico quando si tratta di risollevarsi dalle catastrofi!


Il secondo terremoto del 2009 si produsse a meno di trenta giorni dal primo, ed ebbe come epicentro le forme di una giovanissima showgirl-ballerina di Rete A.
Già il 31 marzo «il Giornale» aveva dato la notizia della candidatura imminente di una «velina», Barbara Matera, alle elezioni europee di giugno. La notizia passa più o meno inosservata al grande pubblico, così «Libero» la ribadisce il 22 aprile: «Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl».
Nelle redazioni fervono lavori delicatissimi: il 28 aprile su «Repubblica»  esce la notizia della recentissima partecipazione del Silvio alla festa dei diciott’anni di una giovane napoletana, Noemi Letizia; lo stesso giorno appare un’intervista della ragazza sul «Corriere del Mezzogiorno». Dichiara la stessa Noemi, affiancata dalla madre: «È stata la sorpresa più bella, quella di papi Silvio».
«Noemi» domanda l’inviato Angelo Agrippa, forse intuendo lo scoop d’inizio millennio, «lei chiama ‘papi’ il presidente Berlusconi?».
«Sì, per me è come se fosse un secondo padre. Mi ha allevata.»
Insiste Agrippa: «Ha mai conosciuto qualcuno dei figli del Cavaliere?».
«No, mai. Anche se lui mi ripete che gli ricordo Barbara, sua figlia. Che ora studia in America.»
Ormai è fatta: Noemi si lascia andare a un crescendo di dichiarazioni che testimoniano via via grande vicinanza al Silvio e inducono a sospettare sulla natura dei loro rapporti: «Fa tanto per il popolo. È il politico numero uno. Non dorme mai», «Quando vado da lui ha sempre la scrivania sommersa dalle carte», «Nessuno può immaginare quanto papi sia sensibile. Pensi che gli sono stata vicinissima quando è morta, di recente, la sorella Maria Antonietta. Gli dicevo che soltanto io potevo capire il suo dolore».
«Noemi» gongola Agrippa quando il suo tempo sta per scadere, «quando la vedremo in politica, alle prossime regionali?».
«No, preferisco candidarmi alla Camera, al Parlamento» conclude Noemi coi fuochi d’artificio. «Ci penserà papi Silvio.»
Lo stesso giorno Veronica Lario dichiara all’Ansa cosa pensa dell’uso delle candidature femminili in vista delle europee: «Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell’imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore, tutto in nome del potere».
A proposito della partecipazione, resa nota in giornata, di suo marito alla festa di Noemi Letizia, Veronica Lario commenta amaramente: «La cosa ha sorpreso molto anche me, perché non è venuto a nessun diciottesimo dei suoi figli pur essendo invitato».
All’improvviso l’imperatore era nudo: ai suoi fedeli, sarebbe piaciuto anche così?

Il Silvio, nel frattempo, aveva detto che Elio Letizia, padre di Noemi, era stato autista di Craxi, ma il figlio Bobo aveva smentito. Per cavarsi d’impiccio, il presidente del Consiglio replicò l’indomani con una doppia intervista a «Stampa» e «Corriere», e la sera apparve in studio da Bruno Vespa per raccontare, di persona e senza scomode interruzioni, la propria versione dei fatti.
Il 10 maggio uscì un’intervista di un ex assessore socialista al Comune di Napoli, Arcangelo Martino, che raddrizzava il tiro: si era ricordato di essere stato lui stesso, molti anni prima, a presentare Letizia al Silvio in quel dell’hotel Raphaël.
Così  la palla tornò a Bobo Craxi: «Escludo categoricamente che il signor Letizia fosse un habitué dell’hotel Raphaël». Confermò Gianni De Michelis: «Mai sentito nominare Letizia».
Se Martino aveva mentito, la verità poteva raccontarcela solo il Silvio.
Invece, il 14 maggio, preferì accusare i giornalisti che facevano il proprio lavoro di essere i registi di una campagna d’odio: come al solito, quando non lo si adulava a dovere, prima alzava la voce e poi faceva la vittima.
Ezio Mauro rispose l’indomani dalle pagine di «Repubblica», e il 21 il suo giornale raccontò che Noemi aveva partecipato a una festa a Villa Madama col Silvio e alcuni importanti imprenditori della moda; il giorno dopo pubblicò le foto di Noemi e sua madre alla festa di Natale del Milan.
Altre settantadue ore e conquistò il centro della scena Gino Flaminio, ex fidanzato di Noemi: assicurava che, nel rapporto fra la ragazza e il Silvio, l’attività politica del padre di lei non aveva alcun ruolo. «I genitori di Noemi non c’entrano niente» furono le sue parole. «Il legame era proprio con lei. È nato tra Berlusconi e Noemi.»
Il misterioso rapporto fra l’uomo più potente d’Italia e un’aspirante showgirl, all’epoca dei primi incontri minorenne, non poteva lasciare indifferente il paese.
Elio Letizia si affrettò a smentire, «il Giornale» pubblicò  la notizia che Flaminio aveva un precedente penale per furto e che aveva rilasciato le sue dichiarazioni a pagamento, onde screditarlo davanti all’opinione pubblica; benché i giornalisti in contatto con lui smentissero la circostanza, per l’inizio di maggio il giovane Gino fece pervenire le sue scuse tanto a Noemi quanto al presidente del Consiglio.
Quando però l’Italia apprese da «Repubblica» che Veronica Lario aveva chiesto il divorzio, ogni solidarietà nei confronti del Silvio scemò: stava per cominciare uno spettacolo senza precedenti, e anche i militanti cessarono le ostilità per cercare un posto in prima fila.