La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio – Episodio 10

Libro di Brizzi, decimo episodio: di nuovo in tv

Un autore Baldini&Castoldi come me, nella seconda metà degli anni Novanta, non poteva astenersi dal mostrarsi, di tanto in tanto, in video.
Passasse per le interviste a Videomusic con Elisa Jane Satta, o quelle condotte sulle reti maggiori dai volti nuovi Sveva Sagramola e Daria Bignardi; passasse per la radio e anche per le interviste incrociate sulla carta stampata con Vasco Rossi; i miei detrattori – categoria che nasce e si sviluppa insieme agli aficionados, secondo l’accettabile costante D= – stigmatizzarono però con vigore la partecipazione del sottoscritto al Tappeto volante di Luciano Rispoli.
Probabilmente ignoravano che ero un suo fan sin dai tempi di Parola mia, e che il Rispoli era un signore d’una ­genti­lezza squisita, pari solo alla determinazione con la quale Melba Ruffo mi colmava il calice di bollicine ad ogni break pubblicitario.
Verso la fine della trasmissione, ormai ebbro, ero pronto a sdraiarmi sul tappeto volante col signor Luciano e tutte le sue amiche, per canticchiare inebetito L’uselin de la comare.
Se ero così a mio agio in televisione, argomentavano i detrattori da casa, significava che ero uno schifoso autore nazionalpopolare.
Io solo conoscevo la verità: benché rifiutassi con tutte le mie forze un destino da giovane tuttologo alla Pierluigi Diaco, una sottile linea marrone era stata superata.
A quel punto, potevo persino andare a fare l’uomo misterioso nell’Harem di Catherine Spaak.
Vi andai, infatti.

Il tranquillo pomeriggio postatomico che culla Roma è solcato da quattro capaci auto blu dell’azienda radiotelevisiva statale. Tre volano a raccogliere le incipriabili ospiti dell’harem settimanale della Spaak. La quarta si incunea tra scorciatoie e preferenziali fino agli storici stabilimenti di doppiaggio Fonoroma. Ferma in doppia fila.
L’autista, un discreto esemplare d’irriducibile tifoso laziale in giacchetto husky, entra nel palazzo e si rivolge alla portiera: «Che è qui, l’omo misterioso della signora Spaak?».
Secondo le informazioni in possesso dell’irriducibile dipendente Rai, l’uomo misterioso si aggirerebbe per lo stabile, labirinto di moviole e sale di doppiaggio, viluppo di controcorridoi e tunnel insidiosissimi.
«Se è quel tipo che dico io, è entrato due ore fa al bar e non si è ancora visto uscire», sussurra la portiera.
«Vuole… vuole che lo faccia chiamare…?»
Vagamente inquietante la marmorea immobilità che l’autista, lontano nipote in giubbotto husky dei fieri volsci, inalbera a mo’ di risposta.
La portiera capisce al volo, afferra il ricevitore bauhaus e fa chiamare l’uomo misterioso temporaneamente ospite della struttura.
Ci trasferiamo ora pochi metri più in là (forse quindici, in linea d’aria, ma irti di curve a gomito).
L’uomo misterioso viene avvicinato da un dipendente del bar, dove sta consumando una coca-cola tiepida e un centinaio di sigarette, presissimo dall’ultimo numero di «Wolverine».
L’uomo misterioso capisce che è il momento di andare, si alza, salda il conto, inforca il pastrano da capitain courageux e cala gli occhiali da rave-party; un fremito si diffonde tra gli avventori del bar, fino a quel momento assorti in altri pensieri.
«È dunque lui?», sembra chiedere dal tavolo vicino Marco Columbro a Sandra Mondaini, ambedue più stanchi di quanto non si possa dire osservandoli in video.
«È dunque lui?», sembrano sussurrare interrogativi i camerieri in felpa genere Amici.
«Ebbene sì, amici, son io» rivela commosso l’uomo misterioso, un certo tizio con basette e zaino similmilitare. Trattiene un singhiozzo. «Sono uomo certo misterioso, ma anche di parola. E loro avevano la mia parola che sarei andato. Devo farlo per quelle tre creature ospiti dell’Harem. Devo farlo per la nostra Catherine.»
È ormai inondato di una certa aureola, e attraversa liquido la stanza, diretto all’auto, goletta diesel della flotta da diporto di madame Morattì.
Chi si cela sotto i panni improbabili dell’uomo misterioso? Perché abbandona gli slums del grande schermo per andare a nascondersi dietro un tramezzo nel salotto arabeggiante di casa Spaak? Quali donne spierà nell’harem? Quali superpoteri ha? E quali rischia di perdere, a forza di fare il giovane scrittore che va in televisione?
«Era un carcere, questo», introduce amaro l’autista in vista del canyon di Saxa.
«Oooh», spalanca la bocca il misterioso, che mai prima vi si era recato, e si ritrova fuori dall’auto, solo.
Alla dogana Italia-Rai, tenta di accreditarsi sussurando il nome della signora Catherine, ma si ritrova a fare i conti con la diffidenza di due guardie di frontiera.
«Gino, il giovinastro dice di essere ospite della Spaak», fa il più anziano al collega. «Dice di essere il nuovo uomo misterioso.»
«Strano.»
«Molto strano.»
«Solitamente fa venire signori famosi ed eccentrici. Aldo Busi, Luca Barbareschi, o quello dei ‘Cuggini de campagna’.»
«Già. Oppure Everardo Della Noce, o ancora Tinto Brass.»
«Oh, ma io sono eccentrico: ho scritto un libro in cui non scopano mai per quasi centottanta pagine… Capite?»
«Sentito, Gino? Il ragazzo è un eccentrico!»
«Signore, signore, se è per questo una volta ho anche arrotolato un gatto in un tappeto e l’ho maltrattato… Ho fatto esperienze estreme io, fortissime, che mi hanno segnato un casino. Una volta all’Alpe di Siusi…»
«Va bene, va bene, basta così. Supera il cancello, vai di qui e di là, e poi laggiù, lassù e dabbasso, e sei quasi arrivato.»
«Magari chiedo.»


La soave redattrice fiorentina introduce nel camerino, mostra appendiabiti e cassetti, informa: «Era un carcere, questo».
«Maddài!», finge stupore l’uomo misterioso fissandosi le punte delle scarpe, ché in mano ha solo un fumetto e gli occhiali da sole, e non sa proprio con quali accessori riempire i cassetti o invadere il tavolo della specchiera. Irrompe una costumista ex samurai, gli suggerisce minacciosamente di indossare una giacca al posto del giubbino acid jazz in lana.
«Ma se è stupendo! È un regalo di una sbarba! Costa anche parecchio!», protesta invano il misterioso.
Niente da fare, viene trascinato in catene a provare le giacche del buontempone Luca Giurato, di casa da quelle parti, ma ci sono almeno tre taglie di differenza: le maniche della giacca quasi strisciano sul linoleum che riveste il pavimento, e la costumista deve ammettere che così non va. Sotto la sua guida, l’uomo misterioso è costretto a vestirsi da messicano, da tamburo maggiore della banda, da carabiniere, ma nessuna tenuta pare convincere la dispotica ex samurai.
Alla fine si resta ancorati al giubbino iniziale; la soave redattrice fiorentina invita l’uomo misterioso a sedersi, solo e negletto, dietro il tramezzo fatale: da lì, morbidamente accoccolato sui cuscini, dovrà seguire le evoluzioni verbali delle tre ospiti odierne: Rossana Campo, scrittrice; Eva Grimaldi, attrice; Claudia Gerini, pure attrice ma più giovane.
Poco prima dell’inizio, si presenta all’interno del suo mu­nitissimo fortilizio in stile algerino Catherine Spaak in per­sona. «Buonasera, siamo oltremodo liete…» lo saluta. «Così giovane! Una scelta coraggiosa invitare un uomo misterio­so così… Giovane! Solo una precisazione: niente parolacce ­silvuplè
Scompare in una scia di frettolosa cortesia, e l’uomo misterioso è di nuovo solo e invisibile, così come ci si aspetterebbe da un angry young man del suo calibro.

La voce di Rossana Campo dice: «I miei personaggi sono donne che parlano come le donne vere, con tanta crudezza, senza l’ipocrisia dei periodici femminili».
Catherine Spaak, col tipico accento e modi circolari: «Sappiamo che nell’Inghilterra della regina Vittoria le donne hanno dovuto fingere».
Rossana Campo: «Quando le amiche stanno insieme a confidarsi è un momento molto liberatorio».
Eva Grimaldi, rauca come un alpino: «C’è da dire che, nell’amore, siamo rimaste nel Settecento».
Catherine Spaak: «Tu, Claudia, racconti tutto alle tue amiche?».
Rossana Campo: «Eh, poi l’uomo racconta per vantarsi, la donna per compiangersi».
Claudia Gerini: «No, è che in questi anni tra giovani uomini e giovani donne si sviluppa un rapporto di tipo paritario… Ognuno però secondo le proprie prerogative».
Coro: «Aaaah, sì, certo. Ci mancherebbe altro! Altrimenti sarebbe proprio un finimondo!».
L’idea è che ognuna parli per conto proprio.
Ogni luogo comune è salutato da battimani, ogni marachella ai danni di qualche malcapitato maschio celebrata da sgomitate maliziose.
«Quante ne abbiamo combinate, eh, signora Spaak! Nel nome dell’emancipazione, poi, se n’è fatte di tutti i colori», pensa il muto ospite nascosto dietro il tramezzo da pesanti lenzuoli berberi. Pensa, ma non dice, giacché tanto è invisibile. Ché se parlasse si penserebbe che una delle ospiti è ventriloqua e chissà quali polemiche, dopo.
Dopo mezz’oretta di donne che si strappano la parola come neanche i peggio sbicchieratori al bar, a colpi di «ad esempio a me è successo…» e chiamandosi cordialmente per nome in quanto accomunate dall’appartenenza allo stesso genere e quindi stesse gioie stessi dolori stesse sofferenze, finalmente è il mio turno.
«L’ospite maschile di questa sera è giovanissimo», risuona la voce della Spaak. «Caso letterario, giovanissimo, solo ventun anni, caso letterario. Nato a Nizza il 20 novembre 1974, ecco a voi l’unico e inimitabile Enrico Brizzi.» O qualcosa del genere, tanto per far capire che l’uomo misterioso sarei io.
Comparendo da dietro il tramezzo per scivolare sul divano dell’Harem con il mio giubbino acid jazz in lana, penso a John Belushi coi soci della Delta House, e a quale casino si potrebbe combinare qui dentro con una banda di amici facinorosi.
Poi mi guardo attorno semiaccecato dai fari dello studio televisivo, e appuro che sono ancora una volta completamente solo nelle mani del nemico.
«Buonasera a tutti», dico composto, sedato, addomesticato.