La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio – Episodio 9

La nona puntata del libro di Brizzi: al Costanzo Show, per due volte

Di quel che accade dopo, ho pochi ricordi sicuri: essere ospiti al Costanzo Show è un’attività impegnativa, ché non sei semplicemente davanti alle telecamere – e di fianco al dottor Costanzo – ma di fronte a te c’è una platea gremita da centinaia di persone.
Serve restare concentrati, e questo nuoce alla rammemorazione dei dettagli.
Per certo, nell’arco delle sedute destinate agli ospiti, occupo una postazione che gli osservatori potrebbero localizzare sull’ala sinistra; appena più centrale, per fortuna, non c’è la spostata giovanile ma lo showman Luca Barbareschi.
Più  in là, la chitarra già pronta, Dario Vergassola; cerco di non guardarlo perché ha vicino la spostata, e temo sottilmente che, se i nostri sguardi si incrociassero, quella riprenderebbe a gridarmi contro i suoi insulti.
In teoria si parla uno alla volta, rispondendo alle domande del dottor Costanzo.
In pratica il pubblico applaude e spinge avanti solo chi la spara grossa.
Il mio romanzo-verità dove non si scopa mai non ha le marche del clamoroso, almeno non agli occhi del pubblico del Parioli, così  il giovane «Jack Frusciante» Brizzi risponde, se non di malanimo, intimamente seccato ché non lo si lascia sviluppare a dovere il suo discorso sull’influenza di Andrea Pazienza e Kurt Cobain.
Non secondario, sul palco c’è un monitor, invisibile dalla platea, impostato sul conto alla rovescia: i minuti e i secondi che ci separano dal prossimo blocco pubblicitario scorrono all’indietro, e gli ospiti più consumati attendono il momento propizio per coprire la tua voce con una gag a orologeria, che sposti l’attenzione da te a loro in prossimità del break.
Durante le pause, fisso il pubblico per non guardare Vergassola, dietro il quale si cela la Medusa in grado di pietrificarmi. Decido che non mi sta così simpatico, il pubblico. Penso a Sid Vicious e alla sua pistola, ma la voce del mio invisibile coach, il maestro Superio Es, mi giunge in soccorso: «Boxa, cazzo, boxa. E invece di startene impalato, attacca discorso con Barbareschi: chissà quante ne ha viste».
Mi ci metto, e scopro qualcosa di indimenticabile: qualcuno è perfetto.
Perfetto, naturalmente, per le televisioni del Silvio.
La levigatezza grafica della figura del Barbareschi, infatti, da vicino appare accentuata dalla perfezione del kombinat capelli-basette, né è disgiunta da una dizione perfetta e da un impiego consapevole del ventaglio lessicale.
È davvero stato capace, questo signore sorridente e sornione, di sparare a un maiale durante le riprese di Cannibal holocaust? E davvero è di Destra?
Ossì, e per questo motivo viene perseguitato dai dirigenti della televisione nazionale! Non lo si fa lavorare!
E dire che, conosciuto in un break pubblicitario al Parioli, pare una persona così perbene. Simpatica, anzi. Non puoi che metterti nei suoi panni, anche se non sei di Destra, e convenire che escludere un attore per le sue idee politiche è una vigliaccata.
In un mondo migliore, mi dico, questo non solo torna a lavorare in Rai, ma merita di finire in Parlamento.

Era fatta.
Il libro era apparso al Costanzo Show, qualcuno mi riconosceva per la strada, e già fioccavano le richieste di rifornimento, le ristampe e i nuovi inviti.
Max Canalini non si teneva più: anche se in televisione non avevo parlato a dovere di Transeuropa, il mio titolo stava riscuotendo un successo senza precedenti nella giovane storia della casa editrice, e lui fissava di continuo interviste e incontri col pubblico, i distributori e i librai, imponendomi ogni appuntamento come «altamente strategico».
Poiché  il mio stile di vita bolognese non lo rassicurava, né giudicava utile per me l’università, mi invitò più volte a prendere casa in Ancona, un’ipotesi semplicemente pazzesca: vivevo nomade, fra casa di nonna Pina, quella di una ragazza e gli appartamenti degli amici; mi piaceva frequentare Ancona come Milano, Firenze o Venezia, tutti posti nei quali avevo buoni soci. Era l’idea di fermarmi più di una settimana consecutiva che sembrava l’anticamera della morte, e chi mi voleva bene lo sapeva. Così per i miei soggiorni anconitani, numerosi e piacevoli benché contrassegnati da litigi feroci con Max, scendevo al «due stelle» sopra il ristorante Giardino, lungo il viale alberato che conduce al «Passetto», o alla mansarda dell’hotel Viale riservata – de facto – ai giovani forestieri che gravitavano intorno a Transeuropa.
Max e i suoi soci di allora, Giorgio Mangani ed Ennio Montanari, erano soliti pranzare in trattoria con noi ragazzi: dopo una mattinata di lavoro spesa a «interrogare l’anima dei testi», scendevamo volentieri al Giardino, oppure al bar-ristorante Diana, di fianco alle Poste. Negli anni successivi, senza più Giorgio – uscito dalla società – e con Ennio che appariva di rado, il nostro luogo d’elezione per pranzo e cena divenne il ristorante Tredici cannelle, di fronte alla fontana omonima, con rare eccezioni dettate dalla presenza di ospiti illustri, che si conduceva a mangiare il brodetto tipico ai piedi della cattedrale di San Ciriaco. Solo se l’ora si faceva tarda per le cucine delle Tredici, migravamo verso la cosiddetta Pizzeria de Diabolik, sopra la Galleria.
Il discorrere proseguiva poi, furioso, nel pomeriggio; i dubbi sulla vera natura filosofica del minimalismo non ci abbandonavano nemmeno a tarda sera, mentre bevevamo al pub di Mauro, di fronte alla più costosa osteria-teatro Strabacco, con la quale Max aveva un contenzioso morale ancora aperto.
Con il giusto tenore alcolico a sostenerci, scendevamo al ricercato Liberty, tempio del barman Fabiùs; fra i tavolini capitava di trovare coppie di teneri ventenni, ma più spesso erano occupati da coppie in pelliccia e loden dell’Ancona-bene, alle quali Max non mancava di regalare perle della sua arte performativa.
«Voi che non leggete niente» li apostrofava quando gli girava storto. «Pettinati come la merda.»
Non mirava a venire alle mani, anzi rifuggiva discretamente l’eventualità, ma come editor e attaccabrighe, in quelle notti dei secondi anni Novanta, sapeva essere impagabile.
Ripensando a determinati episodi e provocazioni, è un mezzo miracolo che nessuno ci abbia mai gonfiato di botte.
Una volta, in trasferta a Bologna per la presentazione di Jack Frusciante alla festa dell’Unità, s’impuntò sul fatto che le melanzane in umido servite al ristorante facevano schifo, e pretese di vedere il cuoco.
Sembrava uno scherzo, ma quello si palesò, democraticamente risentito. «Siamo tutti volontari, qui» mise in chiaro.
«Però  ve fate pagare lo stesso» puntualizzò Max.


Il cuoco lo fissò per capire dove volesse arrivare.
«Ora, se mi servi qualcosa di ontologicamente immangiabile, siamo oltre i discorsi sul volontariato e il professionismo! Immangiabile, come dice la parola stessa, me pare troppo.»
Intorno a noi, il gelo della tavolata.
«Immangiabile» ripeté il cuoco, imbarazzato. «Non so dove è abituato a cenare, lei, ma…»
«Guarda!» intimò Max, e chiarì in tono isterico: «Io non le ho toccate!».
Guardammo tutti le melanzane intatte, simili a sirene spiaggiate su un lido di purè in fiocchi.
«Non vedi che sono asciutte?» s’infervorò il mio editore. «Te pare che un cristiano può mangiare le melanzane in umido asciutte?»
Qualcuno, intorno a noi, bisbigliava allarmato. Altri osservarono che, in effetti, le melanzane non sapevano d’un granché.
«Su, che non sono asciutte!» negò l’evidenza il cuoco.
«Te sfido!» annunciò Max. «Mettici il naso e vediamo se si sporca o no!»
«Tranquilla, amore» sentii una voce d’uomo che rassicurava la compagna. «È un comico.»
Prima ancora che il cuoco potesse accennare una qual­che forma di difesa, la mano di Max era guizzata a pinzargli il naso.
«Signore!» protestò l’uomo, ma ormai la presa del fore­stiero lo stava trascinando verso il piatto. Solo quando la punta del suo naso ebbe toccato una melanzana, Max lo lasciò ­andare.
«Visto che è pulito?» replicò alle rimostranze del cuoco. «Cosa dicevo? Le melanzane sono asciutte!»
Il desiderio del mio editore di occupare il centro della scena era istintivo e irrefrenabile.
Quasi impazzì di gioia quando, nonostante la mia opaca prestazione, mi giunse un secondo invito per il teatro Parioli. Forse Barbareschi non ci sarebbe stato, ma io ero confermato all’ala sinistra, mentre Silvia e lo stesso editore erano convocati a sostenermi dalla prima fila della platea.
«Devo mettermi una giacca meravigliosa!» rifletté ad alta voce Max quando lo informai dell’appuntamento. «Non fumare davanti alle telecamere! E, non appena mi danno la parola, parlare un casino della casa editrice!»
«E se rifiutassi?» proposi timidamente. «Non mi sono divertito granché, l’altra volta. C’era anche una pazza, in albergo, che…»
«Stai scherzando, voglio sperare» m’interruppe. Potevo immaginarlo con gli occhi sgranati e proteso sulle punte come un matador.
«Dico davvero. Andate tu e Silvia.»
«Matuseiunpazzoingrato!» mi travolse la sua voce. «Illavorodiuncasinodipersonedipendedate!»
«Ascolta» m’impuntai. «Abbiamo un contratto, e sul contratto non si dice da nessuna parte che…»
«Tu non puoi capire!» virò sul patetico. «La casa editrice è nelle tue mani, adesso! Non ci pensi, a me?»
«Su, Max, cosa c’entra?»
«C’entra eccome, perché nessun uomo è un’isola, e alla fine il tutto si tiene!»
«Potrò decidere io, se andare o no?»
«E Silvia?» insistette.
«Cosa?»
«Non è una tua buona amica? Ti ha pure scritto la prefazione! Perché la vuoi deludere, adesso?»
«E va bene!» capitolai. «Però sia chiaro che è l’ultima volta!»
Sapendo ch’è l’ultima volta, mi ripresento al Parioli a cuor leggero.
Dopo il matrimonio con una ragazza di Roma, mi troverò a celebrare le vigilie di Natale in un appartamento del Lungotevere Flaminio non lontano. Finirò per pensare alla Capitale come all’ennesima città in cui sentirmi a casa, ma ora come ora non ho la minima contezza del futuro, nemmeno di cosa accadrà quando il sipario si aprirà, e il pubblico si accorgerà che Luca non c’è.
Poi si comincia, e non c’è più tempo per i ricordi e per i «se».
Bilancio i sensi sul presente, pronto alla nuova trasmutazione, non presto orecchio a quasi nulla.
Di fianco a me, sul palco, stavolta c’è un alto ufficiale dei Carabinieri; sull’altro lato ho l’onorevole sardo Luigi Manconi. Costanzo saluta. Il pubblico applaude. Il timer rivolto al palco comincia il primo conto alla rovescia. Max e Silvia, in prima fila, sembrano felici. Non c’è neanche la sciroccata del Ritz: va tutto alla grande.
«Del suo romanzo sono state realizzate migliaia di copie con le copertine colorate a mano» dice Costanzo, rivolto a qualcuno che ha avuto la mia stessa idea.
Mi guardo intorno, e vedo che il presentatore fissa proprio me. «Eh, certo!» rinvengo. «Diciamo che è stata una scommessa fra l’editore e il sottoscritto.»
Dal pubblico sale un brusio che sembra denotare interesse, mentre Max mi fissa sconcertato.
«E come sarebbe a dire?»
«Io volevo realizzare le copertine a mano sin dalla prima edizione» rivelo. «Lui ha promesso che l’avremmo fatto, eventualmente, con la seconda.»
«E come vi siete messi? Con le pitturine?» domanda una voce di donna. Il pubblico ride.
«Più o meno» ammetto. «Abbiamo scambiato venti copie del libro in cambio di un secchiello di pennarelli.»
«E dove?» insiste la voce, che non capisco da dove arrivi. «Alla fiera dell’Est?»
Nuove risate. Anche Max e Silvia, li vedo nettamente, ridono. Di me. Che sono qui, senza neanche sapere che a Roma troverò moglie, unicamente per far piacere a loro.
«Non alla fiera dell’Est. In una cartolibreria di Ancona» mi rabbuio. «Comunque mi piacerebbe parlare anche del libro, oltre che delle sue copertine.»
«Cioè, ma fateme capì!» riesplode la disturbatrice invisibile. Dev’essere vicino il break pubblicitario. «Qualcuno s’è messo lì, come gli amanuensi, a colorasse le copertine una per una! Che ormai stamo nel Dumila
Boati dal pubblico, io medito seriamente di andarmene come ho già visto fare a qualcuno in altre trasmissioni.
«Mi faccia capire, Brizzi» mi raggiunge la voce di Costanzo. «Ma chi le ha colorate, tutte ’ste copertine?»
«Intanto ci sono collage, disegni e diverse categorie di…»
«E quante sono?»
«No, dicevo, non sono tutte colorate…»
«Il numero!» reclama il dottor Costanzo. «Dica un numero, per dare l’idea al pubblico…»
È come essere convocato in presidenza, senza nemmeno poter contare sulla solidarietà dei correi: qui è il preside che suscita a piacimento risate o riprovazione, e gli basta corrugare la fronte o inclinare il mento in avanti per farti apparire un imbecille davanti a mezza Italia.
«Millecinquecento, credo» lo accontento.
«E quanto tempo è stato necessario dedicare a ciascuna?»
«Be’, dipende, come dicevo…»
«Senza fare la storia dell’Arte! Ci dica una media!»
«Un quarto d’ora di media» sparo a caso.
«E chi se n’è occupato?» m’incalza, ormai apertamente spiacevole.
«In parte io, e in parte l’editore.»
«È qui con noi, se non sbaglio, insieme a una bravissima scrittrice giovane…» annuncia Costanzo. Cerca d’individuare in platea Max e Silvia, ma non ce la fa e mi domanda d’indicarli.
Mi hanno riso dietro fino a un minuto fa, e adesso stanno lì compiti. «Lui è Massimo Canalini…» rendo la pariglia. «Quel signore con gli occhiali e una cravatta inguardabile.»
La regia inquadra la cravatta di Max, invero normalissima, ma la mia notazione sciocca fa ridere il pubblico; considero così di avere pareggiato i conti, ma lui mi fissa come l’avessi pugnalato.
«Un quarto d’ora per millecinquecento copie» considera Costanzo dal palco. «È un bel lavoro, per un editore che deve anche occuparsi d’altro.»
«Che nun ce l’ha le chiamate al telefono da risponne, e i libri da stampà?» s’infervora la disturbatrice. Finalmente capisco che occupa una seduta all’estremità opposta del palco: è una comica televisiva professionista, non bella, specializzata in queste tirate stile pescivendola di Trilussa. «Uno pensa che chi fa i libri ha da esse una persona seria, e invece no! Il signore dipinge!» incalza. «E allora nun è editore, è pittore! Beato lei che è un cuorcontento!»
Il teatro sembra venir giù dalle risate, e Max si ritrova a essere lo zimbello generale prima ancora di avere detto: «Buonasera».
Per fortuna, mi dico, che questa è l’ultima volta.