La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio – Episodio 7

Siamo alla settima puntata del libro di Brizzi: la Rai e Non è la Rai

La televisione intelligente

Il 24 gennaio 1990 era stata rettificata l’ultima imperfezione, il dettaglio che depotenziava le tre reti del Silvio rispetto alla televisione pubblica: assecondando lo spirito della prima legge ge­nerale sulle telecomunicazioni firmata dal repubblicano Oscar Mammì, la Fininvest fu ammessa a trasmettere in diretta.
Era un regalo incommensurabile che il pentapartito lasciava in dote al Cavaliere, e avrebbe cambiato per sempre il paese grazie all’uso moderno, massiccio e spregiudicato che il Silvio avrebbe fatto del «Quarto potere».
A chi se ne preoccupava si faceva notare che gli altri tre, se quello alzava troppo la cresta, lo avrebbero messo al suo posto. Il potere giudiziario, in particolare, sembrava destinato a entrare in rotta di collisione con l’impero mediatico e finanziario del Silvio.
C’erano magistrati che stavano conducendo inchieste suggestive su di lui, e non erano esattamente i suoi primi contatti con la Legge. Nel gestirli, però, era sempre stato un maestro del gioco all’italiana.

Nel 1979 il Silvio, nel corso di un’ispezione della Guardia di Finanza ai cantieri di Milano 2, si era presentato come semplice consulente alla progettazione. Le anomalie erano apparse tali e tante da indurre le Fiamme Gialle a ulteriori indagini: i misteriosi soci svizzeri menzionati dal Silvio, però, non furono identificati. Dopo la chiusura dell’ispezione, se il capopattuglia Massimo Maria Berruti e i militari Salvatore Gallo (iscritto alla P2) e Alberto Corrado cambiarono vita, non fu certo in peggio: Berruti lasciò le Fiamme Gialle e venne assunto dalla Fininvest, fu arrestato e poi assolto nel 1985, e sarà carcerato nuovamente con l’ex sottoposto Corrado nel 1994, nell’ambito delle indagini sui depistaggi relativi alle «Fiamme sporche», i militari corrotti della Guardia di Finanza dei quali essi stessi rappresentavano i discutibili capofila.
Ritenuto degno d’un seggio da deputato di Forza Italia, l’ex capopattuglia Massimo Maria Berruti siede ancor oggi in Parlamento.

Un altro ramo d’indagine fu avviato nel 1987 su querela dello stesso Silvio: i giornalisti Giovanni Ruggeri e Mario Gua­­rino avevano scritto che la sua affiliazione alla P2 risaliva a ben prima del 1981, pochi mesi prima dello scandalo che aveva ­segnato la fine della loggia, come lo stesso Silvio aveva sostenuto.
Il tribunale di Verona, però, gli diede torto: la sua affiliazione all’organizzazione di Gelli era da collocarsi nel 1978, a monte dell’ispezione ai cantieri di Milano 2 e di svariati misteri italiani nei quali Gelli ebbe un ruolo non secondario. La sentenza stabilì inoltre che il Silvio aveva mentito a proposito dei suoi rapporti con il Venerabile: benché l’avesse sempre negato, fu acclarato che aveva corrisposto una congrua «quota d’iscrizione» al momento del suo ingresso nella P2.
Non c’era poi troppo da stupirsene: se voi foste Licio Gelli, dominus di un’organizzazione che ha fra i suoi obiettivi quello di smantellare la Rai, ammettereste gratis gli imprenditori delle televisioni private, e cioè coloro che dalla vostra eventuale riuscita trarrebbero il massimo vantaggio?
La P2, a sentire il vero Gelli, aveva avuto in mano l’Italia: «Con noi c’era l’Esercito, la Guardia di Finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia».
Egli stesso era stato condannato nel 1987, e il Silvio non era riuscito a dimostrare di averlo conosciuto solo al tramonto della P2.
Da qualunque punto la si guardasse, era una brutta storia: andava riscritta, un capitolo alla volta e senza troppo clamore.

Per nulla intimorito dalle precedenti esperienze giudiziarie, il Silvio procedeva inarrestabile. Nel 1991, con la cosiddetta «guerra di Segrate», che lo contrappose a Carlo De Benedetti, riuscì a impadronirsi della Mondadori, la prima casa editrice del paese: si completava così l’assetto mediatico che ancora al momento di andare in stampa – sedici anni dopo la storica «discesa in campo» – compone l’impero privato del presidente del Consiglio.
Lui, naturalmente, dalla gestione del potere non si è punto avvantaggiato; solo un giornale di pignoli e invidiosi come «Il Fatto Quotidiano», ancora nel 2010, può contestare quest’affermazione, ricordando che nel 1993 Fininvest aveva 4,5 lire di debito per ogni lira di patrimonio, mentre nel 2010 l’impero Mediaset vale in borsa (fu quotato all’epoca del primo governo Prodi) oltre 6 miliardi di dollari.
E che volete che sia, in un ventennio di depressione economica, avere come presidente del Consiglio un uomo che ogni anno scala posti nella graduatoria di «Forbes» dedicata agli uomini più ricchi del pianeta? Nel ’93 era a serio rischio di bancarotta, nel 2010 è secondo solo al signor Ferrero, quello della Nutella, che qui ringraziamo per la sua deliziosa crema alle nocciole, ma soprattutto per non essere mai sceso nel campo della politica. Eppure, nella percezione degli italiani, Silvio ricco era e ricco è rimasto.
(E chi vi dice, a voi comunisti, che tenendosi fuori dalla politica non avrebbe incassato ancora di più? Avete una vaga idea di quanto tempo gli abbiano fatto perdere, le beghe parlamentari?)
Per i fan del Silvio, la vita stessa del leader è una fiaba che va ascoltata dalla viva voce di Lui; l’unico punto a favore del centrosinistra, in una prospettiva a medio-lungo termine, è che nessun esponente dell’attuale maggioranza appare narrativamente forte come il Cavaliere. È un discorso che approfondiremo più avanti, ché per ora siamo fermi al 16 gennaio 1991, quando risuonò per la prima volta la sigla di Studio Aperto.


Benché  non disponesse ancora della diretta, il direttore Emilio Fede (ex mezzobusto Rai e già conduttore dello show interattivo Test) riuscì a comunicare celermente la notizia dell’attacco americano contro l’Iraq, atto d’apertura della prima Guerra del Golfo.
Fu una guerra, qualcuno ricorderà, che cercarono di far passare come il conflitto più giustificato, intelligente e telegenico della storia. Il petrolio non c’entrava. Volevamo solo aiutare i poveri kuwaitiani, che in realtà la gente non sapeva nemmeno dove stessero di casa.
La televisione ci mostrò cosa vede il pilota d’un bombardiere al momento di sganciare: un mirino sovrapposto a una città a due dimensioni, le stesse cose che vedevamo noi quando ci sfidavamo a qualche videogame del genere «sparatutto». Che là sotto ci fossero persone vere, quasi non lo credevi; la tecnologia informatica aveva reso il groviglio di dolori d’una strage simile a un videogame, almeno per chi s’immedesimava nei top gun americani, e questo la dice lunga sulla mirata intelligenza di quella guerra.
Nonostante la facilità con la quale Schwarzkopf sfondò le linee difensive irachene, nel nostro paese il conflitto suscitò emozioni ambivalenti: basti dire che assursero al rango di eroi nazionali due piloti della nostra aeronautica, Bellini e Cocciolone, che avevano conquistato le prime pagine per essere stati abbattuti.
Eravamo ancora lontani dal marciare compatti come un grande popolo sa fare; che ci servisse una strigliata? Magari un La Russa ministro della Difesa?
Il 13 gennaio del 1992 esordì il Tg5 di Enrico Mentana, destinato a imporsi come il secondo telegiornale più seguito dopo il Tg1; il 1° giugno dello stesso anno debuttò anche il Telegiornale 4, affidato – in apparenza a vita – al solito Emilio Fede.
Nel giro di ventiquattro mesi sarebbe andata in onda la più grande anomalia italiana dai tempi della dittatura, e metà dei telegiornali erano predisposti a parlarne con gli ovvi riguardi che si devono a un padrone; se pure il Silvio non si fosse mai candidato, il suo enorme potere nel campo dei media sarebbe bastato a farne l’uomo più temuto d’Italia, in grado di affossare carriere politiche e di lanciare nuove stelle in Parlamento.
Poiché  degli altri si fidava sino a un certo punto, presto avrebbe sfruttato il formidabile trampolino per lanciare direttamente se stesso.

Per fortuna, si diceva, che esiste anche un’altra televisione, una televisione intelligente.
A lei si aggrappava strumentalmente la retorica della Finin­vest: le televisioni del Silvio saranno anche state disimpegnate e un filo zuzzurellone, ma mica nessuno ti costringeva a guardarle.
(Cos’è, ve l’aveva ordinato il dottore?
Se non vi piacevano, bastava cambiare canale e sintonizzarsi su Dipartimento Scuola Educazione, oppure su Protestantesimo.
La verità è che le guardavate anche voi, col senso di colpa tipico dei comunisti quando sono felici.
E le guardavate perché la vostra amata Rai Tre, sciatta e povera di mezzi, al di là del telegiornale faceva schifo anche a voi.)
Mica vero: io, personalmente, ero affezionato per motivi diversi a tutti e tre i canali Rai.
Nella seconda metà degli anni Ottanta persino la prima rete mi era parsa brevemente imboccare un circolo virtuoso affidando la conduzione del programma mielestrazio per eccellenza, Domenica in, a Mino Damato (avevo undici anni, e a quell’età un giornalista che sfida i carboni ardenti ti sembra ancora coraggioso, più che esibizionista); prima di cena, poi, era inevitabile l’appuntamento con Parola mia, il gioco sulla lingua italiana condotto da Luciano Rispoli con il professor Beccaria e Anna Carlucci; e poi la sigla di Lunedì cinema suonata dagli Stadio, vera e propria intro alla magia dei grandi film in ­televisione.
Nel 1990, quando anche i miei genitori cedettero alle lusinghe di un normale televisore a colori, resisteva solo Lunedì cinema, ma c’erano pur sempre gli altri due canali. Su Rai Due potevi seguire i soliti approfondimenti e i «faccia a faccia» del socialista colto Minoli; premendo il terzo tasto del telecomando, invece, ti materializzavi, pur con qualche disturbo nella ricezione, nella fiabesca Telekabul, l’orgoglio di tutta la Sinistra italiana.

Tutto era iniziato in un anno denso di eventi per le vicende televisive italiane, il 1987: i decreti che consentivano al Silvio di proseguire le trasmissioni su tre canali erano in vigore da poco, e i malumori del Partito comunista erano stati tacitati con la «devoluzione» di Rai Tre, che passò dall’influenza governativa a quella del Pci.
Angelo Guglielmi fu incaricato della direzione di rete, mentre alla guida del telegiornale fu scelto Alessandro Curzi.
L’avventura della «televisione comunista» dimostrò due cose: che un altro modo di fare informazione era possibile, e che gli show potevano essere divertenti anche senza scenografie milionarie, ospiti d’oltreoceano e sprechi da basso impero.
Certo, un difetto l’aveva anche la mitica Telekabul, nonostante il suo telegiornale fuori dal coro, i programmi a difesa del consumatore e i fuori sincro di Ghezzi introdotti da una Because the night da pelle d’oca: i varietà, talvolta geniali, erano leggermente ripetitivi.
Faccio per dire: già nel 1988 le parodie di Francesca Dellera e Sabrina Salerno su La tv delle ragazze erano da sbellicarsi, benché lardellati da interventi della conduttrice, forse scelta per il ruolo perché era l’unica che non facesse ridere. Ad ogni modo, potevi restare incollato fino ai sottotitoli di coda a scorrimento rapido per scoprire che il programma era nato da un’idea della conduttrice stessa, la contessa radical chic Serena Dandini De Sylva, supportata da Valentina Amurri e Linda Brunetta. La regia, per completezza d’informazione, risultava a firma di Franza Di Rosa.


Passa qualche anno, e comincia Avanzi: solita banda di imitatrici e attrici brillanti, con prestazioni significative di Loche, Masciarelli, dei Broncoviz (fra loro il futuro solista Crozza) e di due figli del giornalista di «Repubblica» Paolo Guzzanti: la già nota Sabina e il mai visto, dirompente, Corrado.
Il suo studente coatto Lorenzo («maddechè, ao?») mi ha regalato le risate più liberatorie ai tempi del liceo, e la mia generazione non potrà  che ricordarle con piacere; per la cronaca, il programma era firmato nuovamente da Dandini-Amurri-Brunetta, con Franza Di Rosa sempre alla regia.
Maddechè, ao? divenne anche una striscia autonoma, mandata in onda mentre io stesso mi apprestavo all’esame di maturità. Crediti: un programma di Serena Dandini e Corrado Guzzanti; con un cambio alla regia: al posto di Franza Di Rosa si schiera la già esperta Valentina Amurri.
Ritorno al classico con Tunnel, nel 1994: i due Guzzanti, Loche, Masciarelli e i Broncoviz nel cast, la Dandini a presentare, e il rassicurante ritorno alla regia di Franza Di Rosa.
A un certo punto sembrava impossibile vedere un programma di Rai Tre senza la Dandini in scena e le sue fedeli compagne a fare quadrato.

Non è la Rai fu un programma televisivo di Gianni Boncompagni e Irene Ghergo, per molti aspetti rivoluzionario: mai ­prima di allora le televisioni del Silvio avevano mandato in ­scena una congrega di minorenni carine e poco vestite, ingestibili da qualsiasi presentatore e liete di esibire i propri talenti artistici.
Qualcuno disse che stavolta il Nostro si era spinto troppo in là, qualcuno che era caduto in basso, ma gli ascolti premiarono oltre ogni aspettativa la simpatia e la malizia adolescenziale di Ambra, Pamela, e di tutte le altre ragazze che affollavano lo studio Palatino.
Per certo il Silvio non si sarebbe più sognato di riproporre niente del genere una volta calatosi nell’arena della politica: un conto è rintuzzare certe polemiche nei panni di tycoon della televisione, un altro sarebbe farlo da presidente del Consiglio – un ruolo che, almeno implicitamente, avrebbe anche una valenza pedagogica d’esempio e guida.
Che ci trovassimo di fronte a qualcosa di sconvolgente e nuovo, era fuori discussione: Iuri Giacobbi, pazzo d’amore per la «modella» del programma Antonella Mosetti, scappò di casa per consegnarle un ridicolo orso di peluche e una missiva che potevo presumere piena di errori.
I suoi, disperati, stavano per chiamare Chi l’ha visto?, ma Iuri tornò da solo prima della mezzanotte, in treno come se n’era andato, scuro in volto e incazzato come una pantera.
«Eravamo in sette-ottocento, e avevamo avuto tutti la stes­sa idea: un pupazzo e una lettera» mi spiegò sconsolato. «Botte, grida, spintoni… Impossibile avvicinare Antonella, così ho finito per stracciare la lettera. Ho buttato i pezzi dentro una grata delle fogne con la scritta SPQR, e l’orso l’ho regalato a un’altra.»
«Un’altra delle ragazze?»
«Credo, ma non l’ho riconosciuta… Alla fine mi sa che passava di lì e basta… Nemmeno ‘grazie’, mi ha detto.»
«Povero Iuri.»
«Adesso, però, ho aperto gli occhi.»
«Finalmente.»
«L’ho capito, che Antonella, Ambra e le altre non esistono.»
«Ah no?»
«In televisione sembrano bellissime, in mezzo a tutto quello spazio, e invece, se vai a Roma, vedi che appena fuori dagli studi c’è un casino immondo. Pioveva pure, e sapere che Antonella era in mezzo a quella bolgia mi ha fatto scendere la scimmia.»
«Se te l’ha fatta scendere…» considerai. «L’importante è quello.»

Non è la Rai fu un titolo indovinato, che funzionava anche da slogan, capace di suggestionare in ambiti più vasti del programma o del suo articolato merchandising: la televisione del Silvio era al suo apice, potente di mezzi, moderna, da sempre senza tabù e ora senza più vincoli tecnici.
Il paese era cambiato anche grazie a Canale 5, Italia Uno e Rete Quattro. Le televisioni del Silvio sapevano suggestionare gli italiani molto meglio della vecchia, imbolsita e lottizzata Rai; il Biscione poteva combattere ad armi pari, e ora se la voleva mangiare in un boccone, la televisione di Stato, coi cavalli di viale Mazzini e tutta Saxa Rubra.
Quel che il Silvio ti mostrava non era più il presente, era il futuro al quale tutti noi eravamo destinati: non avremmo più potuto ignorarlo cambiando canale, né bastava sprangare le porte, perché sarebbe entrato nelle vite di tutti noi dal camino, come Babbo Natale e il Lupo cattivo.
Molto presto la sua idea d’Italia avrebbe riguardato tutti – tanto chi seguiva di buon grado Ambra e Pamela, quanto chi puntava i piedi alla disperata contro la civiltà del video.