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  • Sabato 15 gennaio 2011

I cinesi e le sigarette

Sono falliti gli impegni presi con l'OMS per la riduzione del fumo

di Matteo Miavaldi

A Chinese worker unloads bags of garlic at a market in Hefei, central China's Anhui province on May 19, 2010. China said that consumer prices and bank lending accelerated in April, fuelling fears the economy may overheat and building pressure on Beijing to hike interest rates and let its currency rise. CHINA OUT AFP PHOTO (Photo credit should read AFP/AFP/Getty Images)
A Chinese worker unloads bags of garlic at a market in Hefei, central China's Anhui province on May 19, 2010. China said that consumer prices and bank lending accelerated in April, fuelling fears the economy may overheat and building pressure on Beijing to hike interest rates and let its currency rise. CHINA OUT AFP PHOTO (Photo credit should read AFP/AFP/Getty Images)

Nell’ormai lontano 2006, una Cina con pochissime remore a guadagnare peso nell’orizzonte internazionale in vari campi aveva deciso di sbilanciarsi in una, tra le tante, promessa molto ambiziosa: davanti all’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva deciso di firmare il protocollo internazionale per il controllo del tabacco, impegnandosi ad un drastico giro di vite contro la diffusione esponenziale delle sigarette. Tra le varie misure previste giganteggiavano riduzioni sensibili delle pubblicità di sigarette e divieti ferrei in luoghi pubblici, posti di lavoro e mezzi pubblici.
La scorsa domenica, 10 gennaio, è scaduto il termine del patto con l’OMS, e la Repubblica Popolare è stata costretta a tirare una riga e fare bilanci che, realisticamente, si posizionano nella scala di valori tra l’insufficiente ed il pessimo.

La Cina non solo è il primo produttore al mondo di sigarette, ma anche il primo consumatore, con un’approssimazione di 300 milioni di fumatori attivi. Le previsioni del “Tobacco control and China’s future”, documento stilato da 60 esperti di controllo del tabacco sia cinesi che stranieri, prevede che, se la tendenza non verrà invertita, nel solo 2030 moriranno intorno ai 3,5 milioni di persone per malattie legate al fumo.

Questa nuova campagna pubblica non ha purtroppo sortito lo stesso effetto che altre iniziative correttive avevano, almeno superficialmente, saputo ottenere. Per chi ha frequentato la Cina negli ultimi anni, non sarà difficile ammettere una sensibile diminuzione di cittadini metropolitani in giro per le città in pigiama – pittoresca caratteristica dagli indubbi risvolti di comodità e praticità – fino allo sforzo di limitare al minimo indispensabile gli sputi, tradizione che affonda le radici nell’antica saggezza popolare del “meglio fuori che dentro”.

Il controllo del fumo in Cina deve fronteggiare una serie di comportamenti fortemente radicati nella società cinese, dove il rito della sigaretta accompagna una serie di relazioni sociali tutt’altro che disdicevoli. E’ buona educazione infatti, quando si conosce una persona nuova o durante un incontro di lavoro, mettere a suo agio l’interlocutore offrendogli una sigaretta. In molti casi si arriva addirittura a tenere due pacchetti di sigarette: uno di qualità inferiore, per uso personale, ed uno rinomato e costoso, da offrire tenendo in bella vista il marchio, una sorta di biglietto da visita aggiuntivo.

Anche nei cenoni di matrimonio, solitamente, davanti ad ogni posto assegnato al ristorante si trovano offerti dalla coppia di sposi o da chi per loro una bottiglietta di baijiu (grappa di riso) ed un pacchetto di sigarette di marca Xi – letteralmente doppia felicità, come i novelli sposi – mentre ancora oggi, nonostante le varie leggi promosse in merito, è socialmente accettato fumare al ristorante ed in taxi. La resistenza opposta dai camerieri o dai tassisti prima di accordare il via libera tabagista è pressoché nulla.

Le sigarette trovano spazio anche nella storia e nell’iconografia del Grande Timoniere, che amava farsi ritrarre in pose contemplative tenendo tra le dita una sigaretta, rigorosamente nazionale. Sembra infatti che Mao Zedong, agli albori della sua carriera rivoluzionaria, fosse un accanito fumatore di sigarette 555, rinomata marca americana negli anni Sessanta; ma subito, per evidente conflitto di interessi, decise di abbandonare le sigarette dei diavoli, ripiegando sulle Xiongmao, ovvero le Panda, prodotte nella regione del Sichuan. Il vizio del fumo, alla lunga, andava sempre più intaccando la salute del presidente; così, intorno agli anni Settanta, una commissione di medici ordinò ad una fabbrica della cittadina di Shifang la selezione e produzione di una miscela di tabacco meno dannosa alla salute e ricca di erbe medicinali pensata appositamente per Mao, che passò quindi alle sigarette arrotolate fino alla fine dei suoi giorni.

Anche lo stesso Deng Xiaoping è stato un fedele fumatore delle Xiongmao, mentre la nuova politica d’immagine adottata dalla Cina non lascia intendere se Hu Jintao o Wen Jiabao siano o meno fumatori; per contro sappiamo che Nonno Wen è un gran patito della virtuosa e salutare pratica del Taijiquan.
Lo scarto d’immagine del fumatore cinese – prima idolatrato ed emulato nelle vesti dei grandi presidenti, ora derubricato dall’elenco dei comportamenti esemplari della dirigenza comunista – ha però iniziato ad influire sulle abitudini dei giovani, facendo montare sempre di più lo sdegno pubblico in presenza di scene con fumatori in film e telefilm di produzione nazionale: senza ricorrere a cifre ufficiali, nella fascia maschile over 40, con modelli adolescenziali meno pop e più ideologicamente allineati, sembrano concentrarsi la maggior parte dei fumatori; tra i più giovani invece, plasmati intorno ad esemplari consumistici costruiti minuziosamente dal jet set dell’armonia, si fuma di meno e con meno discriminazioni sessuali. Senza contare la forbice tra la modernità dei costumi metropolitani e l’arretratezza delle campagne non solo in ambito culturale, ma anche in consapevolezza salutistica.

Il potere legislativo si è comunque adoperato per far rispettare le promesse internazionali, promulgando divieti di fumo in luoghi pubblici e mezzi di trasporto, ma le amministrazioni ai quattro angoli della Cina hanno lamentato la debole risposta della popolazione, in aggiunta alla difficoltà di far rispettare nuove leggi così impopolari.

Sembra quindi che la rincorsa cinese agli standard sociali occidentali, nel campo del tabagismo, abbia subito una battuta d’arresto. Sicuramente, perdere quei 75 miliardi di dollari che nel 2009 il mercato del tabacco cinese ha fruttato alle casse dello stato – secondo il Global Times pari al 10% del Pil – non deve aver ingolosito molto Pechino: va bene imitare gli occidentali, ma sempre e rigorosamente con caratteristiche cinesi.