Che cosa aspetta il Sudan

Il referendum del 9 gennaio decreterà quasi sicuramente la secessione tra nord e sud

di Elena Favilli

Ormai mancano solo sei giorni al referendum che deciderà della secessione tra nord e sud del Sudan, il più vasto paese africano. E l’attesa per l’esito di un voto in cui si intrecciano questioni economiche, etniche e religiose si sta facendo sempre più preoccupante, per paura che il paese possa di nuovo precipitare nella guerra civile.

La guerra civile 1983-2005
La guerra tra nord e sud del Sudan era durata oltre vent’anni – dal 1983 al 2005 – causando più di due milioni di morti e quattro milioni di dispersi. Gli accordi di pace firmati nel 2005 tra il governo di Karthoum e l’esercito di liberazione (Sudan People’s Liberation Army) garantivano tre cose fondamentali al sud: partecipazione al governo centrale, spartizione al 50 per cento delle risorse petrolifere del paese (le risorse maggiori si trovano al sud) e possibilità di votare per la secessione con un referendum nel 2011. Da quando il Sudan ottenne l’indipendenza dal Regno Unito, nel 1956, gli abitanti del sud sono stati marginalizzati, terrorizzati e sottoposti a continue vessazioni e violazioni di diritti civili e umanitari da parte dei vari regimi di Karthoum. Per questo considerano l’indipendenza un diritto sacro: se le elezioni si svolgeranno regolarmente, è praticamente certo che il sud voterà in blocco per la secessione.

Il presidente Omar Hassan al-Bashir
Il presidente del Sudan Omar Hassan al-Bashir – condannato dalla Corte Penale Internazionale con l’accusa di genocidio nel Darfur – ha detto che non si opporrà ai risultati delle elezioni, ma nessuno si aspetta che l’esito possa essere davvero pacifico. Barack Obama ha fatto sapere ad al Bashir che se Karthoum dovesse permettere il pacifico svolgimento del referendum, gli Stati Uniti potrebbero valutare l’eliminazione delle sanzioni economiche e alleviare il pesante debito estero accumulato dal paese.

Il sud del Sudan
Il sud del Sudan è  ricchissimo di petrolio e difficilmente il governo di Karthoum accetterà di perderne il controllo. A questo si aggiunge poi una complicata questione etnica e religiosa. Il sud è a maggioranza animista e cristiana, mentre il nord è a maggioranza musulmana. Il presidente al-Bashir ha già annunciato che, se ci sarà la secessione, il nord del Sudan adotterà una costituzione basata sulla legge islamica che non lascerà spazio a nessuna forma di tolleranza.

Nonostante la sua ricchezza petrolifera il sud del Sudan è comunque una regione estremamente povera, stremata dalla guerra civile e dalla totale assenza di investimenti da parte del governo centrale. I suoi oltre dieci milioni di abitanti vivono di agricoltura su territori prevalentemente desertici e la nuova nazione – che avrebbe un’estensione pari a quella della Francia – avrebbe come capitale Juba, una città che ha solo cinque strade asfaltate.

Il sud è anche la regione con la percentuale più alta di mortalità legata a gravidanza e parto e con il più alto tasso di analfabetismo (nove donne su dieci sono analfabete). E ha solo un malridotto ospedale per oltre cinque milioni di abitanti, costretti a vivere in media con meno di un dollaro al giorno. Nonostante questo, nel centro di Juba c’è un orologio che fa il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mancano al giorno del referendum, il 9 gennaio. Sul cartello accanto c’è scritto: «Ultima fermata per la libertà».

Le conseguenze della secessione
Nelle ultime settimane i delegati di nord e sud del Sudan si sono incontrati più volte per cercare di rispondere ad alcune delle domande più urgenti che si porranno nell’eventualità sempre più vicina della secessione: come verranno spartite le risorse petrolifere? Chi si accollerà il debito di circa ventotto miliardi di euro accumulato dalla nazione? Che cosa ne sarà di Abyei, la regione più ricca di petrolio che si trova esattamente al confine tra nord e sud del paese?

Ci sono poi una serie di questioni solo apparentemente minori, che a loro volta rischiano di alimentare lo scontro: c’è da capire quale cittadinanza attribuire ai nomadi che abitualmente si spostano da nord a sud nell’arco dell’anno; c’è da capire come organizzare gli scambi commerciali tra le due nuove nazioni; c’è da capire che cosa faranno le decine di migliaia di soldati arruolati nell’esercito centrale che verranno congedati da un giorno all’altro; e c’è da capire su quali risorse potranno contare tutte quelle piccole città e villaggi del sud che hanno sempre dipeso da Karthoum per i loro rifornimenti elettrici. Infine, c’è la gigantesca questione dei rifugiati: ci sono circa due milioni di persone di origine meridionale che vivono al nord e che con la secessione saranno costretti a lasciare il paese. Secondo le Nazioni Unite, circa 400mila persone inizieranno a dirigersi verso sud subito dopo il referendum.

Gli eserciti
Il presidente scelto per il nascente stato meridionale è Salva Kiir, che ha combattuto come ribelle durante la guerra civile. Finora è riuscito a fare in modo che l’esercito di liberazione del sud non interferisse nelle trattative con il nord in vista del referendum, ma se le cose dovessero andare male è molto probabile che i ribelli riprenderanno a combattere contro le forze di Karthoum. Entrambi gli eserciti hanno ripreso ad armarsi da mesi.

Il petrolio
La questione centrale è sempre quella del petrolio: i pozzi petroliferi sono quasi tutti nel sud – che dispone dell’80 percento delle risorse petrolifere di tutto il paese – ma gli oleodotti corrono verso nord perché il sud è privo di sbocchi sul mare. Una volta arrivato a Port Sudan, nel Mar Rosso, il petrolio viene raffinato e poi caricato sulle navi per l’esportazione.  Al momento nord e sud dividono i proventi al cinquanta percento, ma il sud dice che è tempo di cambiare l’accordo: dal momento i giacimenti si trovano lì, è a loro che devono andare la  maggior parte dei profitti.

Ma il conflitto per il controllo sulle risorse petrolifere ormai non è più solo una questione di nord contro sud e ha finito per esasperare anche le tensioni tra gruppi etnici diversi all’interno della stessa regione meridionale. I Dinka sono l’etnia dominante e gli altri gruppi temono che non avranno nessuna intenzione di condividere il loro potere una volta ottenuta l’indipendenza da Karthoum. Salva Kiir ha già tenuto molti incontri con i rappresentanti delle diverse etnie, che vogliono assicurarsi un’equa spartizione dei posti al governo. Ma intanto nessuno sa dove la nuova nazione andrà a pescare le decine di migliaia di insegnanti, dottori e avvocati di cui avrà bisogno.

Foto: GUILLAUME LAVALEE/AFP/Getty Images