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  • Mercoledì 3 novembre 2010

La batosta dei democratici

Il partito di Obama perde la Camera e mantiene per poco il Senato, nelle elezioni di metà mandato

di Francesco Costa

Holding signs reading "FIRE PELOSI," Tammy Tideman, left, of Mesa, Ariz., and Carla Schwarte, center, of Phoenix, join hundreds of supporters as they cheer Sen. John McCain, R-Ariz., as he walks on stage with his family, Tuesday, Nov. 2, 2010, at a Republican election night party in Phoenix. (AP Photo/Ross D. Franklin)
Holding signs reading "FIRE PELOSI," Tammy Tideman, left, of Mesa, Ariz., and Carla Schwarte, center, of Phoenix, join hundreds of supporters as they cheer Sen. John McCain, R-Ariz., as he walks on stage with his family, Tuesday, Nov. 2, 2010, at a Republican election night party in Phoenix. (AP Photo/Ross D. Franklin)

I candidati del partito repubblicano hanno ottenuto una significativa vittoria a spese dei democratici nelle elezioni di metà mandato degli Stati Uniti.

In gioco c’erano tutti i seggi della Camera dei rappresentanti, un terzo dei seggi del Senato e 39 governatori. I democratici avevano la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, in virtù delle vittorie conseguite alle elezioni del 2006 e del 2008. I repubblicani sono arrivati a un passo dal ribaltare la situazione. Alla Camera, hanno strappato ai democratici più di sessanta seggi: abbastanza da conquistare la maggioranza, mettere fine alla permanenza di Nancy Pelosi alla presidenza e imporre il loro leader John Boehner come nuovo speaker. Al Senato, hanno guadagnato terreno ma non abbastanza da pregiudicare la maggioranza dei democratici. Tra i governatori, poi, i democratici hanno perso almeno dodici stati. Tra questi alcuni molto importanti in vista delle elezioni presidenziali del 2012, come Iowa, Ohio e Pennsylvania. E l’Illinois è ancora in bilico.

L’unica consolazione per i democratici è aver evitato il massacro, il bagno di sangue che diversi avevano pronosticato nei giorni scorsi. Il loro leader al Senato, Harry Reid, è stato rieletto al termine di una campagna elettorale travagliata che lo aveva visto a lungo in svantaggio a favore della candidata dei tea party Sharron Angle. Un’altra candidata dei tea party, Christine O’Donnell, è stata sconfitta malamente in Delaware, in un altro seggio che i repubblicani solo poche settimane fa pensavano di avere in pugno.

I candidati dei tea party sono andati un po’ bene e un po’ male. Alcuni hanno raccolto vittorie molto importanti, come Rand Paul in Kentucky, Nikki Haley in South Carolina e soprattutto Marco Rubio in Florida. Altri sono andati male, in ultima analisi pregiudicando la conquista della maggioranza al Senato per i repubblicani, e abbiamo detto di O’Donnell in Delaware e Angle in Nevada. Altre sfide significative: il seggio senatoriale dell’Illinois, già occupato da Barack Obama, è andato al repubblicano Kirk. Il repubblicano Pat Toomey, in assoluto uno dei candidati più estremisti a questo giro, ha battuto il democratico Sestak ed è diventato senatore per la Pennsylvania. Sconfitto anche il senatore progressista Feingold, rieletto l’ex candidato alle presidenziali John McCain. Alla Camera, niente da fare per il democratico Tom Perriello. L’Oklahoma ha eletto il suo primo governatore donna, la repubblicana Mary Fallin. Previsto tracollo dei repubblicani in California: perdono sia la sfida per il seggio senatoriale che quella per la poltrona di governatore.

Poi c’è molto altro, ovviamente, ma avremo modo di discuterne con calma. Ora si apre la questione del futuro. Una è più immediata: il nuovo congresso si insedierà ufficialmente a gennaio, e da qui ad allora rimangono in carica i vecchi deputati e senatori. È il cosiddetto lame duck congress, il congresso azzoppato: alcuni presidenti hanno preferito continuare l’attività legislativa, altri l’hanno sospesa. Dipenderà anche da cosa faranno gli stessi deputati e senatori uscenti, ovviamente. I repubblicani hanno già fatto sapere che davanti a un segnale del genere sarebbe irresponsabile per i democratici continuare come se niente fosse. Obama è persona di buon senso, e sa che fare pressioni sul congresso da qui a gennaio sarebbe una provocazione. In gioco però c’è il destino di leggi molto importanti, a cominciare dal budget per il 2011.

Poi c’è il futuro più distante, quello che guarda da qui al 2012. Aver perso la maggioranza al Congresso è certamente un handicap per i democratici. Ma i repubblicani non potranno fare molti danni: al Senato c’è una qualche maggioranza democratica – vedremo cosa faranno i centristi come Nelson e Lieberman – e comunque in queste condizioni per i repubblicani è impossibile superare un veto presidenziale. Questo vuol dire che nessuna delle riforme fatte da Obama – fra tutte quella sanitaria e quella finanziaria – corrono il minimo rischio nei prossimi due anni, nonostante i proclami. Dall’altro lato per i democratici sarà complicato, per non dire proibitivo, pensare di legiferare sul don’t ask don’t tell, sul matrimonio gay o sulla tassa sulle emissioni.

Il paradosso del sistema politico americano è che per un presidente avere il congresso controllato dalla propria parte politica può essere un vantaggio ma anche una grana: basti pensare alle difficoltà incontrate da Obama durante questi due anni e a come invece Clinton, che ha governato sei anni con un congresso repubblicano, abbia ottenuto la rielezione in modo relativamente agevole. Questo succede, tra le altre cose, perché le regole del congresso consegnano alle minoranze parlamentari diversi strumenti per bloccare o rallentare l’iter delle leggi. Quindi uno scenario in cui presidente e congresso pendono dalla stessa parte permette all’opposizione di fare muro contro qualsiasi proposta, che è esattamente quello che hanno fatto in questi due anni i repubblicani. Uno scenario più fluido – presidente di un partito, congresso di un altro – costringe le parti a incontrarsi, e quindi limita le posizioni strumentali dell’una o dell’altra parte. Bisognerà capire, ovviamente, se e in che modo l’amministrazione Obama cambierà tono e agenda nei prossimi mesi.

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