Cos’è la guerra delle valute?

Se ne parla da settimane, Foreign Policy e l'Economist provano a fare chiarezza

Il 28 settembre scorso il ministro dell’economia del Brasile Guido Mantega ha dichiarato che sarebbe in corso una «guerra internazionale delle valute». Nonostante in molti, come il segretario del tesoro degli Stati Uniti Timothy Geithner e il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, abbiano negato la veridicità dell’affermazione di Mantega, la discussione è continuata e questa settimana l’Economist ha dedicato la sua copertina all’argomento. Per fare chiarezza sulla questione, Foreign Policy ha tentato di spiegare cosa accade durante una guerra delle valute.

Innanzitutto, per Foreign Policy c’è un solo modo per capire se si tratti effettivamente di una guerra delle valute o meno: qualcuno deve dirlo. Lo scontro è infatti più politico che economico, e la stessa azione di denunciare una guerra è un atto di guerra. Detto questo, non è insolito che le nazioni intervengano sul valore della propria moneta per aumentare la forza dei propri prodotti all’estero, combattere l’inflazione o la disoccupazione.

Il problema è che in un’economia globale interconnessa il valore delle valute non aumenta o diminuisce nel vuoto. Quando la Cina abbassa artificialmente lo yuan contro il dollaro statunitense, tiene basso il costo dei prodotti cinesi negli Stati Uniti, sbilanciando il mercato. Questo porta gli Stati Uniti ad abbassare la propria valuta a loro volta. E, ovviamente, dato che i due paesi hanno un solo tasso di cambio, questa gara verso il basso non porta benefici a nessuna delle due parti.

E l’effetto è a catena. Quando le due economie mondiali più forti iniziano a deprezzare la propria moneta, anche gli altri paesi sono spinti a farlo. Dal punto di vista internazionale, questo ha due principali conseguenze negative: è un deterrente agli investimenti internazionali (rallentando quindi la ripresa economica) e incrina i rapporti politici tra le nazioni, rendendo più arduo il raggiungimento di accordi bilaterali. Da questo punto di vista, particolarmente grave è il raffreddamento dei rapporti tra Occidente e Cina, il cui apporto è fondamentale nel contenimento dei progetti bellici di Iran e Corea del Nord.

Non è chiaro risalire a quando una guerra delle valute è cominciata, ma a volte può terminare in un giorno preciso. Nel 1936 Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti firmarono un trattato per bloccare le continue oscillazioni delle valute che hanno seguito la Grande Depressione; nel 1985 Gran Bretagna, Francia, Giappone, Stati Uniti e Germania dell’Ovest firmarono un accordo per permettere agli Stati Uniti di deprezzare il dollaro nei confronti dello yuan.

Qualcuno ora sta chiedendo un nuovo accordo internazionale per stabilizzare il valore dei tassi di scambio. Ma, ovviamente, l’economia mondiale è cambiata molto negli ultimi 25 anni. Il potere crescente di economie come quelle di Brasile, Cina, India e Corea del Sud ha reso molto più difficile riunire i vari ministri dell’economia in una camera d’hotel per arrivare a un accordo. […] Così, come nelle guerre verre, dichiararne una è più semplice che terminarla.

Secondo l’Economist, in questa momento non si starebbe combattendo una vera guerra ma sarebbero in corso delle semplici schermaglie, tre in particolare:

1. La volontà della Cina di non far crescere lo yuan troppo rapidamente. Pechino sta continuando a deprezzare la propria valuta, un atteggiamento criticato duramente sia dagli Stati Uniti che dall’Unione Europea per le conseguenze destabilizzanti sul mercato internazionale. Lo scorso mese la Camera degli Stati Uniti ha passato una legge che permette alle aziende di proteggersi dai paesi che deprezzano la propria moneta.

2. La politica monetaria dei paesi più abbienti. Le banche centrali potrebbero decidere presto di emettere valuta per incentivare la circolazione dei titoli di stato, ma agli occhi della Cina (e di molti altri governi dei mercati emergenti) questo creerebbe gravi distorsioni dell’economia mondiale.

3. La reazione dei paesi in via di sviluppo a queste immissioni di capitale. Piuttosto che lasciar salire il valore del proprio tasso, molti governi hanno iniziato a comprare valuta straniera o a imporre tasse sui flussi di denaro straniero.

Quel che dovrebbe succedere ora, scrive l’Economist, è abbastanza chiaro.

Bisogna ribilanciare la domanda globale, allontanandola dalle ricche economie indebitate e spingendola verso il mondo che sta emergendo. Delle riforme strutturali per incentivare quelle economie aiuterebbero, ma i tassi di cambio devono comunque essere apprezzati. E, sì, lo yuan cinese è troppo basso. Questo non sta danneggiando solo l’Occidente ma anche altri paesi emergenti (specialmente quelli con un tasso fluttuante) e la Cina stessa, che ha bisogno dei propri prodotti interni.