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  • Mercoledì 6 ottobre 2010

Karzai comincia i colloqui di pace con i talebani?

Lo scrive il Washington Post, fornendo qualche dettaglio sul possibile accordo

Afghan President Hamid Karzai, left, listens to his second vice president Abdul Karim Khalili during the Muharram procession at a main Shiite Muslim mosque in Kabul, Afghanistan , Monday, Jan. 29, 2007. Karzai renewed his call Monday for talks with the Taliban and other groups battling his government. "While we are fighting for our honor and dignity against an enemy who wants our destruction and wants us to bleed, once again we want to open a way for negotiations," Karzai told thousands gathered at the main Shiite Muslim mosque in Kabul. (AP Photo/Musadeq Sadeq)
Afghan President Hamid Karzai, left, listens to his second vice president Abdul Karim Khalili during the Muharram procession at a main Shiite Muslim mosque in Kabul, Afghanistan , Monday, Jan. 29, 2007. Karzai renewed his call Monday for talks with the Taliban and other groups battling his government. "While we are fighting for our honor and dignity against an enemy who wants our destruction and wants us to bleed, once again we want to open a way for negotiations," Karzai told thousands gathered at the main Shiite Muslim mosque in Kabul. (AP Photo/Musadeq Sadeq)

Si è parlato di questa possibilità per mesi, ma ora il Washington Post sostiene che si tratti di una realtà concreta: i rappresentanti dei talebani e del governo afghano di Hamid Karzai avrebbero cominciato colloqui segreti e di alto profilo per negoziare un accordo che porti alla fine della guerra. Il Washington Post scrive di avere appreso la notizia da fonti arabe e afghane.

Gli ultimi incontri tra governo e talebani risalivano a un anno fa, ospitati dall’Arabia Saudita, e si erano rivelati del tutto infruttuosi. Il Washington Post sostiene però che oggi per la prima volta i rappresentanti dei talebani sono stati autorizzati a parlare per conto del Quetta Shura, il consiglio supremo dei talebani. I punti cardine dell’eventuale accordo sarebbero la partecipazione di qualche esponente talebano al governo del paese e il ritiro delle truppe statunitensi e NATO secondo una scaletta concordata.

Il Washington Post scrive di aver consultato sei fonti direttamente o indirettamente coinvolte nei colloqui, con le quali ha parlato garantendo loro l’anonimato. La prima cosa che è venuta fuori è proprio l’importanza di compiere questi passi nel riserbo più assoluto: qualsiasi fuga di notizie o ammissione ufficiale può comportare l’interruzione dei colloqui, e i talebani temono di essere sorpassati a destra da gruppi ancora più intransigenti e radicali. Per esempio, diverse fonti hanno confermato che a questi colloqui non stanno partecipando i membri del gruppo Haqqani, violenta rete terrorista alleata con i talebani che preoccupa molto i servizi di intelligence americani ed europei e che controlla una regione chiave dello scenario, quella dove l’intelligence degli Stati Uniti è convinta sia nascosto Osama bin Laden.

Le fonti hanno fornito informazioni divergente riguardo il numero, il luogo e il contenuto dei colloqui. Una ha sostenuto che uno degli ultimi incontri si è tenuto a Dubai, negli Emirati Arabi. La stessa fonte sostiene che i talebani hanno scritto una bozza di accordo di pace che comprende per il mullah Omar il diritto all’esilio in Arabia Saudita, dove sarebbe protetto e trattato come un ex capo di stato. Altre persone vicine ai colloqui hanno detto che la trattativa non è ancora arrivata a definire un tale livello di dettagli. Quel che è certo è che l’Arabia Saudita può giocare un ruolo importante, per ragioni politiche e religiose. L’Arabia Saudita è stata uno dei tre paesi – insieme a Pakistan ed Emirati Arabi Uniti – a riconoscere il governo dei talebani in Afghanistan prima del 2001. E la loro tradizione wahabita li rende credibili abbastanza da guidare i colloqui, più di altre nazioni musulmane. Nell’autunno del 2008 le autorità saudite accettarono di ospitare un incontro segreto tra i talebani e i rappresentanti del governo Karzai sostenendo però che non avrebbero considerato positivo alcun accordo che non comprendesse la sottoscrizione dei talebani di tre condizioni: pubblico rifiuto di Al Qaida, riconoscimento del governo talebano e fine della lotta armata.

Fonti arabe, afghane ed europee sono concordi nell’indicare l’esistenza di questi colloqui come una netta differenza dell’approccio adottato dall’amministrazione Obama rispetto a quella che lo ha preceduto. La Casa Bianca ha sempre detto che non si può vincere la guerra solo attraverso le attività militari, senza però sostenere apertamente la necessità di aprire un canale di dialogo con i talebani. Molti infatti sarebbero ancora piuttosto scettici, sia nell’esercito che nell’amministrazione: “Gli americani non sopportano dover sostenere o addirittura partecipare ai colloqui col nemico”, ha detto un funzionario europeo.

I funzionari statunitensi la mettono diversamente, sostenendo che per dialogare con i talebani servivano determinate condizioni e queste condizioni esistono soltanto adesso. La revisione alla strategia militare operata lo scorso autunno ha chiarito che si può sconfiggere militarmente Al Qaida ma che sconfiggere militarmente i talebani è irrealistico. Quindi gli Stati Uniti si sono mossi in modo tale da costruire uno scenario favorevole all’apertura di colloqui, attraverso un continuo lavoro diplomatico, l’organizzazione di conferenze internazionali a gennaio e a luglio, l’istituzione all’interno del governo di un “team per la riconciliazione”. La settimana scorsa il generale Petraeus, comandante delle forze americane e NATO in Afghanistan, ha detto che leader di alto livello dei talebani si sono messi in contatto con alti funzionari del governo Karzai. “Questo genere di insurrezioni può concludersi solo così”, ha detto.