«Ho buttato via tutto»

Il racconto di Giorgio Loré, che ha un padre che soffre di disposofobia, da decenni

di Giorgio Loré

La nostra famiglia vive a Roma da 45 anni, io ne avevo tre quando arrivammo da Taranto, e mio padre – oggi ottantottenne – è stato un alto ufficiale delle forze armate, di sani principi morali, grandissima cultura ma con questa maledetta “fissazione” di non buttare via mai nulla, tantomeno le cose rotte o inutilizzabili.

Io ho iniziato a percepire il disagio verso i 15 anni, dopo che, frequentando le case di altri ragazzi, mi resi conto che tutto quell’accantonamento di cianfrusaglie non era comune e sarebbe stato difficilmente giustificabile agli occhi di eventuali amici che avessero varcato la soglia di casa mia. Dovevo mentir loro quotidianamente e riuscivo a far spingere fino alla mia camera solo le persone con cui avevo più confidenza.

In molte occasioni mi sono sentito un pezzente: da piccoli non si hanno le sicurezze che nel tempo indurendoci si acquisiscono. E ne ho sofferto molto.

Mio fratello, di 10 anni più grande di me, senza grandi piazzate o minacce manifestava a nostro padre il suo dissenso: era il cocco di casa con magnifici risultati sia sportivi che scolastici. Ma nel 1980 fu ucciso da un agente di polizia che lo investì passando col rosso. La questione passò a mia sorella di 5 anni più grande di me, ma sempre senza alcun risultato. Per mio padre averci dato un tetto ed un istruzione fino alla laurea era sufficiente a giustificare il suo vivere in condizioni disordinate e miserevoli. Non avendo lui alcuna intenzione di invitare amici a casa per cena o per un caffè, doveva valere per noi la medesima situazione.

Mia madre non l’ho mai sentita entrare nel merito di questa situazione, manifestando un carattere debole che, dopo la morte di mio fratello, l’ha portata a disinteressarsi della cosa (posso capire ora da padre che una perdita del genere renda tutto quanto il resto superfluo, ma non so ancora giustificarla pienamente). Doveva spesso mentire alle amiche che la invitavano a casa per delle partite a carte e che si aspettavano di venir ricambiate, cosa impossibile visto che da subito, dopo il nostro trasloco dalla precedente casa di Roma in quella nuova appena acquistata, nostro padre aveva saturato il soggiorno con tutte le cose inutili che aveva fatto portare incomprensibilmente dal traslocatore (come le vecchie reti dei letti che piazzò in verticale su di una parete del nuovo soggiorno). Noi provavamo in tutti i modi a farlo ragionare, ma il risultato erano o delle sfuriate micidiali o inutili promesse.

Alla fine ci feci il callo e appena ho guadagnato il mio primo stipendio a 24 anni, sono uscito di casa e me ne sono andato in affitto in una casetta che si portava via più della metà dell’introito mensile, ma che mi faceva finalmente sentire libero di fare entrare a casa mia chiunque volessi.

Da allora (mezza vita fa) ho ridotto al minimo le visite a casa di mio padre e quando mi sono fidanzato con la mia attuale moglie, nel 1990, e sono iniziate le cene a casa dei suoceri. A lei spiegai subito la situazione presente: i suoceri lo hanno poi saputo quando è stato evidente che c’era qualcosa di strano. Mille cene di natale da loro e dall’altra parte il silenzio totale. La cosa che mi mandava su tutte le furie era che mio padre veniva ospitato in case eleganti e ben curate, nelle quali si sentiva pienamente a suo agio, per poi tornare in 145 mq saturi d’immondizia e lerciume, come se niente fosse.

Io stesso lo invitavo a cena solo ogni 10 o 15 giorni ed ogni volta finiva in una lite a senso unico (ero solo io che urlavo e cercavo di farlo vergognare), in cui il risultato era solo quello di essere rimproverato il giorno successivo: si era resettato notte tempo sui termini della discussione.

Dopo la morte di mia madre, sei anni fa, mia sorella ha cominciato a volerlo vicino per poterlo accudire – incomprensibilmente per me, ma per fortuna di mio padre – ma vivendo a Bologna (la città in cui lui era nato e vissuto per oltre 40 anni) non riusciva a trattenerlo per più di un mese: ogni volta, con le scuse più diverse, voleva tornarsene nel truogolo a risolvere problemi che sembravano improrogabili (assicurazione della macchina, 740, e pretestuose urgenze varie). Mia sorella ne soffre molto ma non demorde.

Le cose precipitano quattro mesi fa: la mattina del 24 maggio mia sorella mi chiama da Bologna dicendomi che il papà non risponde al telefono: fosse per me lo chiamerei una volta ogni sei mesi, lei lo aveva sentito la sera prima e quindi le sembrava strano che alle 10 del mattino non rispondesse. Io le dico di pazientare ma nelle ore successive non cambia niente. Alle quattro del pomeriggio chiamiamo i vigili del fuoco, io li raggiungo e mentre tagliano le inferriate alle finestre capisco che è morto: dall’interno della casa non arriva nessun cenno di vita. Mi metto a piangere.

Invece lo trovo nella mia vecchia camera sdraiato a terra dopo un mancamento della sera prima: non era più riuscito ad alzarsi. È in uno stato penoso e ancora una volta mi sono vergognato di vederlo così, in mezzo a pile di giornali e cianfrusaglie, con i ragazzi dei vigili del fuoco e quelli dell’autoambulanza che lo hanno trovato lì per terra, in quello spazio vuoto sul pavimento vicino al telefono che non era riuscito a raggiungere: che cosa dire se non lo si vede con i propri occhi?

Lo abbiamo portato in ospedale dove è stato operato pochi giorni dopo con l’inserimento di un pace maker: quando è uscito è andato da mia sorella a fare la convalescenza.

Mentre non c’era ho scattato queste foto ho iniziato a pensare.

E un giorno ho portato un amico che ha una ditta di traslochi a vedere la casa.

Il 2 agosto siamo arrivati con quattro ragazzi, due camion da 35 quintali e un autoscala. Ci abbiamo messo tre giorni di duro lavoro, eravamo sei persone che imballavano e buttavano, selezionavano e mettevano da parte, tirando fuori oggetti dimenticati (i miei giocattolini di quando avevo 10 anni più o meno), radio rotte, bauli pieni di vestiti di 40 anni fa e di tutto ancora.

I giornali hanno riempito un camion e mezzo, quasi cinque tonnellate. Il più vecchio era del 1973 fino ad arrivare ai giorni nostri, 37 anni di quotidiani impilati per tutta casa. Altrettanto materiale è stato portato a discarica, mentre ho trovato decine di confezioni nuove ed ancora imballate di piatti e bicchieri, posate, stoviglie che comprava e non utilizzava, ma anche una cyclette. Ho trovato i nostri regali di natale ancora imballati e mai utilizzati. Non mi ha fatto piacere ma nemmeno sorpreso.

Ho fatto le foto del prima e dopo per quando ci sarà da litigare sulle cose che ho buttato via. Adesso sto facendo rifare bagno e cucina e riverniciare tutto. Poi ci sarà da far sterilizzare tutto da un’impresa di pulizie (qui non puliva nessuno da almeno 10 anni). Ho speso 20 mila euro.

Lo so cosa pensate: se dovessi andare da un analista mi porterebbe al suo prossimo congresso. Ma ora mi sento veramente bene. Mia sorella mi ha dato pieno appoggio.

Inizialmente lei e mia moglie e tutti i miei amici più cari non approvavano il mio blitz all’insaputa di mio padre. I più contrari di loro facevano considerazioni molto sensibili ed equilibrate, ma dopo aver visto le foto diventavano meno convinti.

Ecco, ho riassunto quasi tutto: manca solo l’epilogo, l’entrata in casa di mio padre tra un paio di settimane circa, quando comincerà inevitabilmente a chiedere a mia sorella di tornare a Roma. Ho varie richieste di amici che vorrebbero essere presenti all’evento. Il pace maker ci dovrebbe dare una mano. Confesso in totale sincerità che sono convinto di aver fatto la cosa giusta per farlo tornare a vivere dignitosamente, come merita.

Giorgio Loré ha scritto al Post dopo aver letto questo articolo sulla disposofobia e sulla storia dei fratelli Collyer.