Le false confessioni

Il New York Times spiega perché ci sono decine di casi di indiziati che si dichiarano colpevoli anche se innocenti

Eddie Lowery confessò un crimine che non aveva commesso e dovette scontare dieci anni di carcere. Nel corso del processo Lowery fornì dettagli che secondo gli inquirenti poteva conoscere solamente l’autore della violenza, come il dettaglio sul colpo inferto alla vittima di 75 anni con il manico di un coltello di acciaio trovato nella casa del delitto. I test del DNA dimostrarono solo successivamente che l’autore del crimine non era Lowery quando ormai l’uomo aveva scontato i dieci anni della pena in carcere e in libertà sulla parola.

Il caso di Lowery non è isolato, spiegano sul New York Times. Tutti gli esperti di materie legali conoscono casi di false confessioni e la storia giudiziaria ne è ricca da sempre. Dal 1976 a oggi, ci sono stati almeno 40 rei confessi successivamente scagionati dalle prove come i test del DNA. Brandon L. Garrett, un docente della University of Virginia School of Law, ha studiato il fenomeno analizzando i verbali e gli interrogatori di alcuni di questi casi per cercare di comprendere i meccanismi che portano un innocente a dichiararsi colpevole.

Le persone maggiormente esposte non sono solamente i casi psichiatrici, ma anche i giovani e gli individui facilmente condizionabili. Lowery, per esempio, avrebbe confessato il crimine mai commesso in seguito alle forti pressioni ricevute durante gli interrogatori. L’uomo divenne indiziato in un caso di violenza dopo che ebbe un incidente contro un’auto parcheggiata dopo una serata trascorsa a una festa. Lowery fu interrogato per sette ore e gli ufficiali di polizia avrebbero da subito insistito indicandolo come il colpevole di un omicidio. Fu anche sottoposto alla macchina della verità, ma gli agenti gli dissero di aver fallito il test.

«Non sapevo come uscirne, così ho detto loro quello che volevano sentirsi dire. E dopo ho cercato un avvocato per dimostrare la mia innocenza» spiega oggi Lowery. Una volta ottenuta la confessione, gli investigatori proseguirono l’interrogatorio per ottenere nuovi dettagli sul crimine. Informazioni che Lowery non poteva conoscere e che venivano man mano suggerite dagli stessi ufficiali di polizia. Stanco e confuso, Lowery finì col confermare le imbeccate dei suoi inquirenti: «Mi misero in bocca le risposte».

L’uomo fu processato e condannato sulla base della sua confessione, poi arrivarono i test del DNA e Lowery fu scagionato. Ora Lowery vive nella periferia di Kansas City e si mantiene grazie al risarcimento di 7,5 milioni di dollari emesso dalla contea di Riley per averlo ingiustamente incriminato e poi incarcerato. Non nasconde di sentirsi ancora in imbarazzo per la sua confessione, ma ricorda che in momenti di così forte tensione è difficile mantenere il controllo: «Non sai che cosa potrai dire pensando di uscire al più presto da quella situazione».

Più della metà dei casi analizzati da Garrett, 26 su 40, coinvolgevano individui con problemi mentali o con una età inferiore ai 18 anni. Quasi tutti dovettero affrontare interrogatori molto duri e in assenza di un avvocato. Tredici furono anche portati sul luogo del delitto.

L’analisi dei documenti processuali dimostra, secondo Garret, quanto siano complesse le confessioni di chi non ha effettivamente commesso i crimini. Il docente immaginava di trovarsi davanti ai classici «Lo confesso, sono stato io», invece ha scoperto confessioni molto dettagliate indotte chiaramente dalle domande degli inquirenti. Le “contaminazioni”, ovvero l’introduzione di dettagli da parte di chi svolge l’interrogatorio, sono più frequenti di quanto si possa immaginare e condizionano le versioni e le confessioni degli indiziati. Per disperazione, stanchezza, paura o problemi psichiatrici pregressi, gli interrogati finiscono per riutilizzare gli indizi forniti da chi li interroga. In pratica si instaura un meccanismo del rinforzo e in alcuni casi gli stessi indiziati si convincono di essere effettivamente gli autori del crimine che non hanno commesso.

Secondo gli esperti, gli ultimi studi sui casi simili a quello di Lowery dovrebbero essere tenuti in considerazione nel corso delle indagini e dovrebbero spingere gli inquirenti ad approfondire il loro lavoro, senza arrivare a conclusioni troppo affrettate. Non sempre la confessione di un crimine corrisponde alla verità.