• Mondo
  • Martedì 17 agosto 2010

Ma è vero che la Cina ha superato il Giappone?

Alcuni dicono di sì, alcuni dicono di no, alcuni dicono che è successo dieci anni fa e non ce ne siamo accorti

Ok, tutti vi hanno detto che l’economia cinese ha superato quella giapponese, però pochi vi ha spiegato cosa questo voglia dire. C’è di mezzo il PIL, il prodotto interno lordo, l’abbiamo capito, ma cosa vuol dire che il prodotto interno lordo della Cina ha superato quello del Giappone? E quanto è affidabile questa cifra? Lo spiega oggi Foreign Policy.

Il dato di cui parliamo è quello del PIL del secondo trimestre del 2010: secondo le cifre divulgate dai due governi, quello della Cina sarebbe di 1.339 e quello del Giappone di 1.288 miliardi di dollari. Quindi, sì, a guardare questa cifra proprio in questi mesi il PIL della Cina ha superato quello del Giappone. Il problema è che non tutti i Paesi del mondo calcolano il proprio PIL allo stesso modo.

Dovrebbero, però non sempre lo fanno correttamente: recentemente Irlanda e Grecia sono state sanzionate proprio per aver barato sul loro rapporto fra PIL e spesa pubblica, nella speranza di far apparire le loro economie come meno disastrate. E l’Europa è l’unica area dove c’è un organo esterno che controlla l’accuratezza di questi numeri, l’Eurostat. Fanno eccezione gli Stati più piccoli e meno sviluppati che spesso si trovano a non avere sufficienti strumenti di valutazione e chiedono al Fondo Monetario Internazionale (FMI) di aiutarli nelle stime.

Ma per tutti gli altri Stati, Cina e Giappone compresi, ognuno fa per sé. Certo, ci sono delle linee guida date da OSCE, Banca Mondiale, FMI e ONU, ma il rispetto di queste indicazioni è appannaggio degli Stati, e la Cina è già stata colta con le mani impegnate nel gonfiare le cifre della propria economia.

Ovviamente non è soltanto questione di interesse o malafede: per calcolare il PIL si utilizzano dei dispositivi la cui accuratezza non è sempre eccezionale.

Ci sono due modi per calcolare il PIL: il primo guarda all’intero ammontare di ciò che è stato prodotto dalle varie aziende di un Paese, con l’aggiunta dei progetti di lavoro del governo e – in particolare nei Paesi del terzo mondo – il valore dei beni prodotti per uso personale, come il raccolto seminato da un contadino per la propria sussistenza. In questo caso, però, non tutto ciò che genera benessere conta ai fini del PIL: una casa costruita dal nulla conta, ma un’abitazione che acquista valore nel tempo non conta, anche se chi la abita ne ha effettivamente giovato. Naturalmente anche le aziende hanno interesse a esagerare le cifre dei propri profitti, cosicché cifre affidabili sono spesso difficili da produrre.

Il secondo metodo, invece, consiste nel calcolare il consumo totale di beni da parte della popolazione di un Paese. Ma dato che questo sistema si fonda principalmente su indagini e sondaggi, anche questo metodo ha delle pecche. Le persone, ad esempio, tendono a sminuire la quantità di denaro spesa in alcol o sigarette. Le cifre vengono spesso comparate, e si decide per la stima che sembra più veritiera.

E poi c’è un’altra questione di fondo: quanto è giusto – per valutarne l’economia – usare come metro il PIL di uno Stato? Alcuni dicono che, date le fluttuazioni valutarie a cui sono sottoposti i mercati, il PIL è un metro inadeguato per stabilire la vera portata di un’economia e bisogna invece commisurare le statistiche al reale potere d’acquisto di ciascuna moneta. Ecco: se è per quello, la Cina aveva superato il Giappone già dieci anni fa.