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  • Domenica 18 luglio 2010

“Non stiamo vincendo”

Newsweek scrive che in Afghanistan le cose non stanno funzionando come Obama vorrebbe

La settimana scorsa il presidente del partito repubblicano, Michael Steele, è stato duramente criticato – dai suoi avversari e dai suoi alleati – per aver detto che la guerra in Afghanistan è “una scelta di Obama” e gli Stati Uniti in quell’area stanno andando incontro un fallimento, come capitato a molte altre potenze prima che a loro. Steele si guadagna oggi un alleato piuttosto rilevante: Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, e il settimanale Newsweek, che dedica la copertina a un suo lungo articolo dal titolo eloquente: “Non stiamo vincendo. Non ne vale la pena”.

Haass esordisce dicendo che effettivamente la guerra dichiarata da Bush è completamente diversa da quella reimpostata e portata avanti da Obama, ben più ambiziosa e complessa. E quindi la guerra in Afghanistan – questa guerra in Afghanistan, almeno – è una guerra di Obama. A nove anni dal suo inizio, Haass sostiene che qualsiasi beneficio possa provenire da un ulteriore coinvolgimento e investimento degli Stati Uniti nelle operazioni militari, i costi umani ed economici sarebbero tali da non renderlo sostenibile. E quindi è ora di ridimensionare gli obiettivi dell’intervento.

La prima cosa di cui dobbiamo renderci conto è che combattere una guerra come questa è stata una scelta, non una necessità. Gli Stati Uniti sono entrati in guerra nell’ottobre del 2001 per far fuori il governo dei talebani, che permetteva da Al Qaida di agire liberamente e progettare i suoi attentati. I talebani sono stati estromessi dal governo, vari membri di Al Qaida sono stati catturati o uccisi, molti sono fuggiti in Pakistan. Quella era una guerra diversa: una guerra di autodifesa. Era essenziale per gli Stati Uniti che l’Afghanistan non fosse più il rifugio sicuro di terroristi che potevano attaccare nuovamente l’America o i suoi interessi in giro per il mondo.

L’amministrazione Bush non aveva le idee chiare su cosa fare dopo. Haass all’epoca lavorava al dipartimento di stato, ed era stato nominato dallo stesso Bush come coordinatore dei progetti sul futuro dell’Afghanistan. Racconta di aver proposto, subito dopo la sconfitta dei talebani, la rapida costruzione di uno stato afgano, debole ma funzionale. Per questo sarebbero serviti 30 mila soldati americani più altrettanti della NATO, così da mantenere l’ordine e addestrare adeguatamente gli afghani.

Ai miei colleghi la proposta non interessava. Erano tutti d’accordo sul fatto che era complicato ottenere risultati di quel genere in Afghanistan, considerata la sua storia e la sua cultura.

Il risultato è stato che gli Stati Uniti hanno sì inviato 30 mila soldati, ma per dare la caccia alla manciata di membri di Al Qaida rimasti nel paese. E non si sono mai uniti alla forza internazionale mandata in Afghanistan con l’obiettivo di stabilizzarlo, di fatto limitando il suo ruolo e le sue dimensioni.

Poi Obama arriva alla Casa Bianca. La situazione in Afghanistan è in via di peggioramento, la stessa esistenza del governo di Karzai rischia di essere messa in discussione. Le cose andavano così male che Obama manda subito altri 17 mila soldati. Da quel momento, Obama ha avuto diverse opportunità di riassestare gli obiettivi americani in Afghanistan. Ogni volta che lo ha fatto, però, lo ha fatto al rialzo.

Al termine del primo processo di revisione della guerra, marzo 2009, Obama ha dichiarato che l’obiettivo della missione americana in Afghanistan è “distruggere, smantellare e sconfiggere Al Qaida in Pakistan e in Afghanistan, e prevenire il loro ritorno in futuro”. In realtà però l’obiettivo andava oltre Al Qaida. Nello stesso discorso il presidente aveva aggiunto che i soldati avrebbero “combattuto i talebani a sud e a est del paese, respingendo gli insorti fino al confine”. In sostanza il ritorno dei talebani era equiparato al ritorno di Al Qaida, e gli Stati Uniti diventavano protagonisti della guerra civile afghana, dando il loro sostegno a un governo debole e corrotto contro i talebani. Intanto venivano inviati altri 4 mila soldati.

Cinque mesi dopo, scrive Haass, un’altra revisione. Obama dice che è necessario “invertire la tendenza favorevole ai talebani, rafforzare le forze armate e il governo afgano così che possano essere responsabili del loro futuro”. Ne seguirono due decisioni: l’invio di altri 30 mila soldati, annunciato nel famoso discorso all’accademia di West Point, e la promessa di cominciare il ritiro delle truppe nell’estate del 2011. Fino a questo momento, però, la strategia non sta funzionando. Karzai è stato rieletto a seguito di elezioni poco regolari. I talebani sono stati respinti in alcune province ma il governo non è in grado di prevenire il loro ritorno. Il presidente rimane convinto della bontà di questa strategia, e questo è testimoniato dalla decisione di sostituire il generale McChrystal col generale Petraeus. A dicembre, però, il presidente dovrà affrontare una nuova revisione della strategia per l’Afghanistan. Obama ha varie possibilità, dice Haass.

Una possibilità è confermare l’attuale strategia: passare il prossimo anno ad attaccare i talebani e addestrare la polizia afgana, e poi a luglio iniziare a ritirare le truppe. Si tratta di un approccio molto costoso e dalle scarse possibilità di successo. Il governo afgano non sta dimostrando di essere in grado di assicurare trasparenza e sicurezza. La maggior parte dei talebani continuerà a combattere, sfruttando l’ospitalità del Pakistan. All’altro estremo c’è la decisione di ritirarsi il prima possibile. Questo farebbe sicuramente collassare il governo Karzai, permettendo ai talebani di riprendersi il paese. L’Afghanistan diverrebbe un altro Libano: uno stato la cui guerra civile coinvolge gli stati vicini. Sarebbe una gigantesca sconfitta per gli Stati Uniti e per la NATO.

Ci sono però varie opzioni intermedie. Una è la ricerca di un negoziato con i talebani: permettere loro l’ingresso nel governo in cambio della fine delle violenze. È improbabile che loro siano d’accordo, però, visto che sanno che il tempo è dalla loro parte. Inoltre, tanti afghani ricordano bene come si viveva sotto i talebani, e quindi non sarebbero affatto d’accordo. Un’altra idea, proposta dall’ex ambasciatore degli Stati Uniti in India, è dividere il paese in due parti. Gli Stati Uniti accettano il controllo talebano del Pashtun, il sud del paese, finché questi non minacciano il resto del paese e non danno ospitalità ad Al Qaida. Un’altra strada ancora, chiamata “decentralizzazione”, prevederebbe il sostegno diretto degli Stati Uniti non al governo centrale ma a quei leader regionali che si distinguono per il loro rifiuto del terrorismo. Il vantaggio di quest’opzione è che permetterebbe di lavorare con e non contro le tradizioni del paese, fatte di forti comunità locali e non di forti governi centrali. Anche in questo scenario, però, i talebani riprenderebbero rapidamente il controllo del sud del paese: ma torneranno a dare ospitalità ad Al Qaida? Secondo Haass no: in fondo sanno che i loro guai sono cominciati quando Al Qaida ha fatto schiantare due aerei di linea sul World Trade Center, anche loro hanno interesse a non immischiarsi.

Haass scrive che per prendere la miglior decisione possibile bisogna tornare agli obiettivi originari degli Stati Uniti: evitare che Al Qaida potesse usare l’Afghanistan come rifugio sicuro e assicurarsi che l’Afghanistan non mini la stabilità del Pakistan.

Siamo molto più vicini a questi obiettivi di quanto pensiamo. Il direttore della CIA di recente ha stimato i militanti di Al Qaida in Afghanistan in un numero compreso tra sessanta e cento. Non ha senso tenere in Afghanistan 100 mila soldati per combattere un avversario così piccolo, specie considerata la quantità di nazioni in cui opera Al Qaida.

Inoltre, il Pakistan è un obiettivo molto più importante dell’Afghanistan, considerata la sua storia, la sua popolazione e il suo arsenale nucleare. Il suo futuro sarà determinato da quello che accade ai suoi confini, non da quello che accade in Occidente. Tutti questi elementi, secondo Haass, spingono in una direzione precisa: quella della decentralizzazione. Sostenere i leader locali e impostare un nuovo approccio con i talebani.

Non stiamo vincendo la guerra in Afghanistan, e non vale la pena di continuare così. È arrivato il momento di ridimensionare i nostri obiettivi e ridurre il nostro coinvolgimento sul territorio. L’Afghanistan sta prendendo troppe vite americane, troppa attenzione, troppe risorse. L’Afghanistan non è un problema da risolvere: è una situazione da gestire. Prima ce ne rendiamo conto e meglio è.