Le molte vite di Silvius Magnago

Nel romanzo di Francesca Melandri Eva Dorme c'è anche una biografia dei tempestosi rapporti tra Italia e Alto Adige e del loro mediatore

Francesca Melandri, scrittrice e autrice televisiva, ha scritto un libro molto bello che si chiama “Eva dorme” e che ha dentro due libri in uno: uno è una bella storia d’amore e sentimenti familiari che riguardano la protagonista, Gerda, e la sua bambina Eva. L’altro è una accurata e avvincente ricostruzione delle vicende che hanno riguardato l’integrazione dell’Alto Adige tedesco in Italia, e che fanno da sfondo alla storia di Gerda. Protagonista di queste vicende, e del secondo libro nel libro, è Silvius Magnago – morto lo scorso 25 maggio a 96 anni – leader storico del partito sudtirolese SVP e responsabile dei progressi e dei successi dell’integrazione e degli accordi tra la comunità tedesca e l’Italia. Il racconto di Francesca Melandri in queste parti è un libro di storia, un romanzo e un’inchiesta giornalistica, insieme. Ne pubblichiamo due episodi.

Da quando sul fronte russo una granata gli aveva dilaniato una gamba, Silvius Magnago non aveva mai più dormito bene. Il dolore fisico all’arto fantasma era il suo compagno segreto da più di vent’anni. Solo a lui sentiva di rivelare la propria vera natura: la sua forza, rabbia, tenacia e disperazione, il risentimento verso i sani che non sanno cosa sia vivere con la sofferenza nelle carni, ma anche la capacità di focalizzarsi sull’essenziale. Da quando Magnago aveva ricevuto quei pezzi di ruvida carta igienica trafugati dal carcere di Bolzano, però, quello alla gamba gli sembrava niente, in confronto all’altro dolore: non aver fatto nulla per coloro che avevano riposto in lui l’ultima speranza.

I vestiti che le mogli degli arrestati della Feuernacht si erano viste riconsegnare, qualche tempo dopo gli arresti, erano ricoperti di sangue, vomito ed escrementi. I Bumser del BaS erano però, in fondo, uomini semplici. Nonostante tutto erano fiduciosi che, se si fosse saputo del trattamento disumano che stavano subendo nel carcere di Bolzano, il mondo si sarebbe prodigato in ogni modo per salvarli. Avevano fatto di tutto per comunicare all’esterno del carcere informazioni sulle torture subite. Qualche biglietto venne intercettato, e il suo mittente punito, ma altri riuscirono a eludere la censura. L’ovvio destinatario della loro richiesta d’aiuto era stato lui, Silvius Magnago, la voce politica più autorevole del Sudtirolo.

Magnago aveva ricevuto quei miseri pezzetti di carta verso la fine del 1961. E, lui che del dolore fisico molto sapeva, aveva sentito come suo lo spasmo dell’acido lattico nelle braccia tenute alzate per ore; le lacerazioni dei tessuti che si strappano sotto i pugni e lo schiocco sinistro delle ossa frantumate; i conati d’incredulo orrore di chi è costretto a mangiare i propri escrementi; i polmoni che scoppiano mentre la testa è tenuta sott’acqua; il delirio della deprivazione di sonno.

Aveva letto quei biglietti senza quasi respirare. Aveva pianto, nel silenzio del suo studio ricoperto di boiserie chiara affacciato sulla strada signorile di Bolzano. Gli erano riapparsi alla mente episodi cui aveva assistito in guerra da giovane Gebirgsjägerleutnant, immagini che aveva sperato di non dover ricordare mai più. Aveva volto lo sguardo fuori dalla finestra, verso l’amato calicanto che potava ogni anno lui stesso. Era spoglio ora; i fiori gialli che annunciavano la primavera con il loro profumo di vaniglia non erano ancora sbocciati. Nemmeno loro potevano dargli conforto.

La Südtiroler Volkspartei, il partito di cui era alla guida, non poteva permettersi di essere associato, nemmeno alla lontana, con i Bumser. Troppo fragile era ancora il processo di acquisizione di una vera autonomia per il Sudtirolo. Andavano messi in conto i tempi biblici della politica, il balletto dei colloqui, delle promesse e delle minacce da parte di uno Stato che aveva negato il problema per così tanto tempo da farlo marcire, e che cominciava a rendersi conto della necessità di un progetto per questa provincia solo ora che era diventata una polveriera.

Magnago aveva iniziato a tessere una tela fine e delicatissima di trattative e compromessi per ottenere quell’autonomia provinciale (“Los von Trient!”) che sola poteva risolvere l’impasse dell’alto adige e impedire lo scenario più atroce: la guerra etnica. Sapeva bene che il marcato accento tedesco con cui parlava l’italiano, peraltro in modo impeccabile, convinceva a priori gli interlocutori a Roma di un suo fondamentale, incistato odio contro di loro. Sapeva quanta diplomazia, pazienza e sordità deliberata alle battute fossero necessarie anche solo per spiegare il punto di partenza della trattativa: i sudtirolesi non odiavano gli italiani, bensì la colonizzazione che avevano subito da parte dello Stato italiano. Sapeva di non poter correre il rischio di essere assimilato a coloro che avevano fatto ricorso alle bombe, anche solo contro le infrastrutture.

Ma c’era un altro motivo d’angoscia, non legato a considerazioni di opportunità politica bensì esistenziale, in quei foglietti di carta scritti, letteralmente, con il sangue di uomini torturati. Nella sua Alma Mater Bologna, dove si era laureato in Giurisprudenza, Magnago si era convinto che solo il dialogo, la ricerca del compromesso, il duro ma onesto confronto tra posizioni anche molto diverse sono strumenti superiori a qualsiasi, qualsiasi!, forma di violenza. Chi rinuncia all’argomentazione verbale e ricorre ad azioni distruttive contro cose o persone, per quanto giuste siano le sue ragioni, si mette dalla parte del torto: ecco l’unico credo politico di Silvius Magnago. Egli non si era mai lasciato affascinare da nessuna delle ideologie di quel suo secolo di ferro e di fuoco. Era diventato adulto poco prima dell’inizio della carneficina mondiale, e aveva visto fin troppo bene a cosa si arriva quando la politica cede il passo alla violenza: un pianeta in fiamme. Sentiva, nella propria carne amputata e nel dolore che ne irradiava ogni istante, il dovere di preservare i corpi, sempre. Non solo i corpi della gente del suo Heimatland, di coloro che gli avevano dato il mandato di rappresentarli; ma anche i corpi dei suoi oppositori, degli ignavi politici di Roma, perfino di quegli amministratori che dalle loro posizioni di piccolo, ottuso potere rendevano difficile la vita alla sua gente. Il suo dovere era questo: separare, sempre, la lotta politica dalla distruzione fisica, anche quella di tralicci dell’alta tensione.

Con cura aveva ripiegato i foglietti in una busta e li aveva riposti in un luogo noto a lui solo. In seguito si venne a sapere delle torture nel carcere di Bolzano, ma non fu Silvius Magnago a denunciarle.

Nei due anni passati da allora, due uomini del BaS erano morti in carcere per i pestaggi o per le loro conseguenze. Molti altri avevano subito lesioni permanenti. Le torture impressero sui loro corpi il marchio indelebile della sofferenza, così come la guerra aveva fatto su quello del Gebirgsjägerleutnant Magnago. Ci fu un processo contro i carabinieri colpevoli dei maltrattamenti e i loro difensori sostennero che i detenuti si fossero procurati da soli le ferite – nonostante fossero documentate da decine di certificati medici che furono messi agli atti – al solo scopo di screditare l’Italia. La loro tesi fu accolta, gli imputati tutti assolti e, alla lettura del verdetto, lasciarono l’aula liberi e festeggiati dai parenti. Per tutti loro ci fu l’elogio ufficiale del comandante della Benemerita, il generale De Lorenzo. Le loro vittime, i detenuti che avevano ridotto a creature spezzate e piangenti, furono ricondotti in carcere con i ferri ai polsi.

Silvius Magnago non rivelò mai quanto gli fosse costata la decisione di non accogliere la disperata richiesta d’aiuto dei Bumser. Né se il loro martirio affollasse d’incubi il già scarso sonno delle sue notti.

I corpi. Preservare i corpi. Con loro, non aveva potuto.

Nell’autunno del 1963, una fanciulla vestita di bianco con in braccio un mazzo di fiori sorrideva dai manifesti che tappezzavano le strade di Milano. Una versione mediterranea di Gerda: seno pieno, labbra morbide, zigomi alti, ma bruna. Così la democrazia cristiana aveva deciso di svecchiare la propria immagine e per far questo si era affidata a Ernest Dichter, il guru americano delle ricerche motivazionali in pubblicità – famosa una sua campagna per le prugne secche californiane. Aveva coniato lui lo slogan che campeggiava sotto la bella ragazza:

LA DEMOCRAZIA CRISTIANA HA 20 ANNI!

Da Domodossola a Siracusa, da Udine a Bari, sui manifesti affissi in tutta la penisola mani ignote chiosarono a pennarello:

È ORA DI FOTTERLA!

Questo, Mr Dichter non l’aveva previsto.

L’incitamento a fare alla ventenne DC ciò che ogni maschio latino avrebbe desiderato fare alle sue coetanee in carne e ossa fu seguito da molti: nelle elezioni politiche del ’63 il Partito Comunista Italiano ottenne, per la prima volta nella sua storia, più di un quarto dei suffragi. L’egemonia assoluta della DC era infranta.

Sotto la guida di Aldo Moro, si costituì il primo governo di centrosinistra dell’Italia repubblicana. Qualche giorno dopo la fine dello spoglio delle schede, qualcuno fece recapitare una grande scatola di prugne secche alla sede della DC a piazza del Gesù.

Nessuno rise. Per gli equilibri di Yalta era una catastrofe. I servizi segreti sulle due sponde dell’atlantico concordarono sulla necessità di giocare un gioco diverso da quello messo in atto fino ad allora. Tornò utile Gladio, la struttura paramilitare segreta costituita dalla CIA in Italia già negli anni Cinquanta per contrastare l’avanzata della sinistra. Fu ideato il cosiddetto “piano Solo”. Erano tre i suoi obiettivi: colpo di Stato militare con abbattimento del governo appena formato, istituzione di un governo di “sicurezza pubblica” condotto da parlamentari di destra e militari, assassinio del premier Aldo Moro.

Il piano Solo non fu mai attuato, e solo l’ultimo dei tre obiettivi fu centrato, seppure con un’operazione tardiva – quindici anni dopo – e per mano di terzi. Ma il nuovo gioco segreto, ben più sporco e violento di prima, era cominciato. l’Italia stava per conoscere una stagione di sangue.

Il 9 dicembre 1963, quattro giorni dopo la formazione del governo Moro, iniziò al palazzo di Giustizia di Milano il più grande processo politico dalla fine della guerra: quello agli attentatori della Feuernacht. Gli accusati erano novantuno, ventitré i latitanti.

Fino a quel momento, dell’Alto Adige gli italiani non sapevano nulla. Quasi tutti ignoravano che in un lembo di territorio nazionale si parlava il tedesco. Fu solo seguendo sui giornali il processo di Milano che cominciarono a conoscere l’esistenza e il carattere di questa provincia di frontiera. Circa un mese dopo l’inizio del dibattimento, un freddo mattino di gennaio, l’aula della corte d’assise aprì i lavori davanti a un pubblico più colorato del solito. Le file di sedie alle spalle di mogli e parenti degli imputati vennero occupate da decine di uomini in Lederhosen, panciotto rosso, giacca di lana cotta, cappellino di feltro con le piume: gli Schützen. Tra loro, con la sua guarnigione quasi tutta di cacciatori come lui, c’era Peter Huber. Come le mogli degli imputati, che condividevano le spese e le fatiche del viaggio nel Tränenbus, l’autobus delle lacrime, anche gli Schützen avevano affittato una corriera per raggiungere in massa il tribunale di Milano. Potevano assistere solo a poche sedute, qualche giorno al massimo: tutti avevano famiglia e lavoro a cui tornare. Ci tenevano però a dimostrare agli “Eroi del BAS” quel sostegno che Silvius Magnago aveva sempre negato.

Gli attentatori della Notte dei fuochi, però, continuavano a deludere le aspettative di chi li voleva figure eccezionali: o eroi o assassini. Il loro capo morale era il proprietario di un modesto spaccio a Frangarto, alle porte di Bolzano. Sepp Kerschbaumer aveva il corpo segnato dalle torture. Era un uomo minuto, dal viso scavato, un assurdo taglio di capelli anni venti e gli occhi un po’ tristi di chi è più a suo agio nel mondo degli ideali che in quello del commercio da cui però deve trarre il suo pane: per anni aveva costretto la moglie a correre dietro ai debitori poveri cui lui, che recitava il Padre nostro varie volte al giorno, avrebbe sempre rimesso ogni debito. Il suo intelligente fervore ideale, la determinazione a spiegare le ragioni umane prima ancora che storiche delle azioni del BaS, ottennero autentico rispetto dalla giuria di Milano. Kerschbaumer esprimeva concetti semplici, comprensibili a tutti. Raccontò dell’umiliazione di andare in un ufficio pubblico e non farsi capire dagli impiegati, del non riuscire a compilare i formulari in italiano, dei medici negli ospedali che pretendevano che i pazienti, non importa quanto malati o feriti, si esprimessero in una lingua sconosciuta, della mancanza di prospettive per un sudtirolese di lingua tedesca che cercasse lavoro al di fuori dal proprio maso. Il pubblico italiano nelle affollate aule del tribunale ascoltava la pacata eloquenza di Kerschbaumer, e non la trovava campata in aria.

Durante il dibattimento un altro imputato, per dimostrare i soprusi cui erano sottoposti i Sudtirolesi, dichiarò: «Da più di sei anni a mia suocera non arriva la pensione».

Ci furono risate in sala, mormorii di approvazione. E grida dal pubblico, tinte d’innegabile simpatia: «Neanche a mia madre!» «E nemmeno a me!» Ci volle parecchio per ripristinare il silenzio. Fu così che, grazie alle sedute nell’aula di Milano, non solo gli italiani scoprirono l’Alto Adige, ma anche i meticolosi meccanici, contadini e piccoli artigiani del BaS, e i sudtirolesi in genere, iniziarono a conoscere l’Italia oltre la chiusa di Salorno, quell’oblungo stivale di cui la loro Heimat, volente o nolente, faceva ormai parte. Anche loro cominciarono a rendersi conto che pure a Lecce, Roma, Novara, perfino a Milano, lo Stato italiano trattava i suoi cittadini con incuria, e che le lungaggini e le tortuosità dell’amministrazione pubblica non erano quindi una forma di discriminazione etnica. La pachidermica inefficienza dell’amministrazione pubblica italiana, insomma, non aveva niente di personale contro i sudtirolesi – o almeno, non solo.

Peter guardava le facce del pubblico nell’aula gremita. Questi non erano gli italiani che aveva visto arrivare alla stazione di Bolzano quasi dieci anni prima. Non avevano il viso magro di chi scappa dalla miseria, gli occhi sbarrati di fame, speranza e paura, le unghie sporche di chi la sera prima di partire per le fabbriche al Nord ha riportato per l’ultima volta le capre all’ovile di sassi. Questi erano italiani che potevano dire della città dove abitavano: “casa mia”. Erano belle ragazze milanesi dai capelli alzati a nido d’ape dai toupet; giovani uomini con occhiali dalle spesse montature nere, chini sui loro taccuini; donne di casa dalle caviglie gonfie ma lo sguardo scaltro, abituate ogni mattina a confrontare i prezzi al mercato e a ridere spesso con le amiche; operai metalmeccanici venuti in tribunale all’uscita dal turno di notte per vedere in faccia quei contadini crucchi che avevano dimostrato tanta capacità organizzativa insurrezionale, e chissà che non avessero qualcosa da insegnare al movimento operaio.

Accanto a questi cittadini dell’Italia del boom, sedeva la compagnia di Schützen dai costumi ottocenteschi. Peter aveva la piuma di gallo cedrone sul cappello, il panciotto dalle bande intrecciate modellato su quello indossato da Andreas Hofer mentre ricacciava indietro l’armata napoleonica, le scarpe di vernice con la fibbia d’argento sui calzini di cotone bianco. Forse fu proprio per via dell’incongruo vestito indossato che il processo di Milano a lui fece un effetto diverso, anzi opposto, che alla maggioranza dei sudtirolesi. Le azioni dimostrative contro i tralicci compiute dai Bumser seduti lì davanti al banco degli imputati, si convinse, non bastavano più. Era arrivata l’ora di alzare il tiro.

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Chi mangiò meno di tutti fu l’Obmann Magnago, seduto al tavolo d’onore, ma anche il suo ospite, il presidente del Consiglio, si nutrì con moderazione. Ecco un uomo particolare, rifletteva Magnago osservandolo mentre giocherellava con il cibo in modo snervante prima di portarlo alla bocca: chiuso, introverso, non guardava mai negli occhi il suo interlocutore, se rideva pareva farlo sotto tortura. Ascoltava con le palpebre pesanti e semichiuse, come se avesse lo spirito molto lontano. Parlava pianissimo e con l’esasperante lentezza di chi ha sonno, e aveva la mollezza di gesti e movimenti di chi da bambino inciampava correndo, si chiudeva le dita nei cassetti, dimenticava di allacciarsi le scarpe. Tutto in lui lo faceva sembrare inerme, debole, certo non un uomo d’azione ma piuttosto, pensò il latinista Magnago, un cunctator. Eppure l’Obmann aveva verificato, in più di un incontro personale, che dietro quel viso inespressivo lavorava un’intelligenza politica finissima. A differenza di troppi altri rappresentanti dello Stato italiano, l’uomo che gli sedeva accanto era un intellettuale, oltre che un giurista d’alto grado. Soprattutto era un uomo dalla cui bocca mai, nemmeno per stanchezza o distrazione, sarebbe uscita una frase fatta.

Magnago sapeva bene che lo spigoloso accento tedesco con cui parlava, peraltro a perfezione, la lingua di Dante, e il fatto che avesse svolto servizio in guerra nella Wehrmacht, creavano nei suoi interlocutori un’immediata associazione con il nazismo. Sapeva quanto fosse futile tentare di spiegare che non tutti gli ufficiali tedeschi erano stati nazisti, che lo avevano arruolato nell’esercito tedesco perché gli abitanti della sua terra avevano dovuto scegliere tra… No, impossibile: non poteva ogni volta propinare un compendio della complicata storia del Tirolo del Sud.

E così la parola “nazista” rimaneva implicita, potente come un atto mancato tra lui e quasi tutti coloro con cui discorreva nel Transatlantico del Parlamento italiano, e lui ne era cosciente. Ogni tanto poi l’etichetta diventava esplicita, e soprattutto da parte di certi esponenti della destra, proprio quelli che più, semmai, avrebbero dovuto spiegare dov’erano dopo l’8 settembre, gli stessi che non si vergognavano di definire i sudtirolesi di etnia tedesca con il nome dei traditori durante il risorgimento: “austriacanti”. Come se l’italianizzazione dell’Alto Adige dal fascismo in poi fosse insomma stata la Quinta guerra d’indipendenza, come se anche qui fossero stati gli Italiani gli oppressi e gli Austriaci gli invasori e non, invece, il contrario. Magnago aveva studiato e vissuto a Bologna, dove aveva ancora molti cari amici dai tempi dell’università; ma proprio perché li conosceva bene sapeva che, quando agli Italiani dai la scelta se identificarsi nel ruolo della vittima o in quello dell’aggressore, sceglieranno sempre il primo. Anche contro la verità storica, se necessario. Il “vittimismo”, un concetto che non ha corrispondente lessicale nella lingua di Goethe, e che infatti Magnago, anche quando parlava in tedesco, usava così: in italiano.

Ma il pensiero dell’uomo seduto accanto a lui, per fortuna, non era pigro come quello di tanti suoi connazionali. Non era l’unico politico italiano intelligente, figuriamoci, c’era Andreotti, per esempio, la cui sottigliezza e complessità però a Magnago parevano talvolta sfiorare l’abisso. E c’era la finezza intellettuale di Fanfani, corrosa però dall’invidiosa cattiveria tipica di certi piccoli di statura: Magnago sapeva che la propria altezza da granatiere provocava nel democristiano un’insanabile avversione che, intuiva, non avrebbe portato nulla di buono alle trattative con lui. No, pensava l’Obmann, l’intelligenza di quest’uomo, che dal cameriere s’era lasciato versare il vino con distratta indolenza ma che poi aveva bisbigliato un “grazie” sommesso, era altrettanto fine di quella di Andreotti e Fanfani, ma molto più umana. Quando l’aveva incontrato per la prima volta, dopo anni di anticamera nei palazzi della Roma barocca, per portare all’attenzione del governo la necessità di una soluzione negoziale in Alto Adige, anni di distratti colloqui di pochi minuti e di veloci strette di mano a solo beneficio dei fotografi, Magnago gli aveva chiesto:

«Quanto tempo può darmi?» E lui aveva risposto: «Tutto quello che serve.» Questo pranzo interminabile non celebrava solo l’inizio di veri colloqui sul futuro dell’Alto Adige, pensò Magnago nettandosi la bocca con un tovagliolo di lino – scelto in persona da Frau Mayer in un laboratorio di tessitura artistica in Val Venosta. Meritava di essere festeggiato anche il fatto che il suo interlocutore fosse proprio lui: Aldo Moro.